Massimino il Trace Vs Giorgio I Hannover: ossia il Buon Regnante

DI ALBERTO GROMETTO

Voi sapete quale deve essere la prima caratteristica fondamentale di un governante, quando parliamo di persona che regge il Governo di una Nazione? 

(Niccolò Machiavelli)

Sarà l’acume, forse? Oppure l’intraprendenza, magari? Quella massima mente brillante che fu lo scrittore, diplomatico, saggista, drammaturgo e filosofo fiorentino NICCOLÒ MACHIAVELLI nel celeberrimo e immane trattato politico «DE PRINCIPATIBUS» (tradotto: «Sui Principati»), sosteneva che “Il Principe”, da intendersi come il regnante, deve anteporre gli interessi dello Stato a qualsiasi altro fattore, anche etico o morale: sì, bisogna essere disposti a compiere qualsiasi genere di azione, anche la più sporca, passando sopra quello in cui si crede perfino, se questo significa accrescere la fortuna del proprio popolo, o addirittura salvarlo. Chi sta sopra alle alte sfere deve comprendere che per raggiungere il Bene, è spesso necessario fare il Male. Da qui l’aforisma, che in realtà così come lo conosciamo Machiavelli non l’ha mai scritto: «Il fine giustifica i mezzi». L’autore fu invece il letterato e poeta antico romano PUBLIO OVIDIO NASONE: «Exitus acta probat». 

(Publio Ovidio Nasone)

Nessuno ha però mai detto quello che forse tutti noi diamo per scontato, e cioè che una persona per governare una Nazione… deve quantomeno necessariamente “far parte” di quella Nazione. Se regni su un Paese, devi conoscere quel Paese. Giusto? Beh, che ci crediate o meno, questo non è necessariamente vero. Vi sono almeno due esempi illustri di “Principi” che con lo Stato su cui hanno regnato avevano poco o nulla a che fare. E che a dispetto di questo sono stati regnanti di tutto rispetto! 

Da una parte abbiamo un Imperatore, dall’altra un Re.

Da una parte siamo nel III secolo d. C., dall’altra siamo nel 1700. 

Da un parte abbiamo Roma e il Mondo su cui spadroneggiava, dall’altra invece il Regno di Gran Bretagna.

Partiamo dal primo: l’Imperatore romano MASSIMINO IL TRACE.

(L’Imperatore romano Massimino il Trace)

Tutti quanti, sia gli storici appassionati sia quelli che non ne sanno niente, conoscono lo splendore della Roma che fu: l’Impero Romano ancora oggi rimane il fulgido esempio di come un civiltà sorta da quattro pietre possa arrivare a dominare il pianeta, se solo ci crede, se punta in alto, se pensa che il Limite sia il Cielo. E così è stato per Roma. 

Ma nel III secolo d. C. le cose erano oramai ben diverse: si andava verso l’inesorabile declino, e quella mastodontica creatura, immane nel suo splendore, iniziava a scricchiolare e, anzi, decisamente a cedere. Tutto quel “Mondo” era divenuto troppo grande, azzarderei a dire “elefantiaco”, perché un uomo solo, il celeberrimo “Imperatore”, potesse gestire tutto quanto, soprattutto poi se si trattava di un individuo privo di talento o capacità. O anche solo equilibrio mentale. Ecco, era proprio l’equilibrio quello che stava venendo a mancare a Roma e al suo dominio sconfinato e ritenuto fino a quel momento infallibile e inscalfibile. Da quando era nato l’Impero sotto quell’inimitabile uomo che è stato il primo, vero, Imperatore, il glorioso e divino OTTAVIANO AUGUSTO, tutto quanto era andato bene, anzi, “una meraviglia”, perché Roma si era espansa sempre più. Ricchezze a non finire piovevano su tutti quanti dai nuovi territori conquistati, il dominio e le fortune dei Romani s’accrescevano a dismisura, si stava alla grande. Ma le conquiste erano finite. Perché? In una parola: i Barbari. 

(Il sommo e maestoso Imperatore Ottaviano Augusto, Glorioso tra i Gloriosi)

Le invasioni barbariche fin dai tempi del brillante MARCO AURELIO, soprannominato “L’Imperatore-Filosofo”, letterato e uomo di cultura dei più grandi possibili, avrebbero tormentato l’Impero per secoli, fino alla fine dei suoi giorni. In contemporanea, per una pura fatalità, attaccarono tutti insieme: i Pitti in Scozia, i pirati in Spagna dalla Mauretania, dall’Oriente i Parti che avevano creato un impero tutto loro… e poi la gargantuesca massa di tribù germaniche, che negli anni precedenti si erano dati un’organizzazione, creando una serie di confederazioni e coalizioni di stampo militare, prendendo esempio da quella stessa Roma che li aveva conquistati. Gente brutale, armata fino ai denti, allenata al saccheggio e alle scorribande, che scelse di fare razzie, stragi, depredazioni senza soluzione di continuità. Tipi che, oltre che recare Morte e Distruzione, portarono pure le epidemie di peste e vaiolo: le loro barriere immunitarie li rendevano più forti dei tanti Romani per i quali quel morbo invece si rivelò fatale. Tutto questo causò un un drastico aumento delle sempre più ingenti spese militari, le quali non servivano più a conquistare nuovi territori, ma a mantenere quelli conquistati. Un tempo si spendeva per guadagnare. Ora si spendeva e basta. Le città vennero fortificate, e questo significò altre spese. Il libero commercio che prima univa tutto l’Impero andò a morire, e i singoli territori rimanevano isolati. Poco cibo, moneta svalutata e tante tasse a non finire per poter pagare le legioni romane. E sì, perché le legioni di Roma erano la sua forza, ma adesso che erano il solo baluardo a sua protezione, divennero il suo più pesante fardello: pretendevano infatti agi e ricchezze a discapito di nobili, senatori e aristocratici vari, i quali erano obbligati a versargli denaro a palate ma non volevano certo rinunciare al loro potere. Generali di eserciti da ogni parte si ribellarono pretendendo quel potere per sé e i loro uomini, e questo condusse non solo interi contingenti di soldati a scagliarsi contro Roma ma anche a combattersi tra loro, per portare in alto questo o quel comandante: legionari contro legionari, militari contro aristocratici, un tutti contro tutti. 

(Il sagace Imperatore-Filosofo Marco Aurelio)

E poi andava a mancare… Lui. La figura al centro di tutto. L’Imperatore. Si era ben lontani dai tempi della formidabile gens Giulio-Claudia o di quella dei Flavi o degli Antonini. Le grandi dinastie familiari imperiali non esistevano più. Di regnanti savi e sapienti e capaci e di talento come Augusto, in grado di governare con forza e saggezza mantenendo brillantemente il controllo del delicato gioco dei fragili equilibri e delle sottili dinamiche che governavano l’Impero, non ce n’erano. “Divide et impera” era la tecnica augustea per tenere a bada i Barbari: fomentare i dissidi interni con lo scopo di alimentare i contrasti, separarli gli uni dagli altri e comandarli. La vera crisi di cui sopra nacque quando l’ultima, vera gens imperiale vide il suo tramonto: la dinastia dei Severi, i soli garanti della stabilità dell’Impero, scomparve nel 235 d. C., anno in cui l’ultimo dei loro discendenti, ALESSANDRO SEVERO, trovò la morte alla tenera età di 26 anni per mano delle sue stesse truppe. Era un bravo Imperatore, dal carattere dolce e mite, un buon amministratore. Ma non era un uomo “da combattimento” né tantomeno un soldato, la sola vita che conosceva era quella della corte, esistenza ben lontana da quella dei legionari che oramai facevano il bello e il cattivo tempo, e quando invece di fare la guerra lui scelse di trattare per la pace venne ammazzato. Prima però che il brutto colpo s’abbattesse in tutta la sua potenza dritto nello stomaco di Roma, ci fu un ultimo Imperatore che tentò, con successo, di tenere insieme tutto quanto. E quello fu Massimino, Massimino il Trace.

Non era un senatore, né tantomeno un aristocratico. E a dire il vero: non era nemmeno romano! Esatto, avete capito bene: Massimino il Trace era un barbaro e, lo dice il nome, veniva da un villaggio situato nell’antica regione della Tracia. Suo padre era un goto, la madre un’alana: ambedue barbari e pastori. Ed è accertato dalla stragrande maggioranza delle fonti storiche che lui a Roma non ha manco mai messo l’ombra di un alluce. Altro che agi di corte!: la sola esistenza che Massimino abbia mai conosciuto è stata quella militare, arruolato fin da quando aveva solo 16 anni tra le fila delle truppe dell’esercito di Roma, quella stessa Roma che lui non avrebbe mai visto nemmeno una volta in vita sua. Perfino nell’aspetto, spaventoso!, era barbaro a tutti gli effetti, quantomeno era proprio quello che ci si aspetterebbe da un barbaro nell’immaginario collettivo: nerboruto, forzuto, barbuto, muscoloso, macho, virile, maschile, imponente, rude, micidiale, fisico prestante, dotato di una forza sovrumana e senza pari, capace fin da giovane di mettersi a capo di gruppi di amici per lottare contro bande di briganti allo scopo di difendere i genitori e le greggi, in grado di mangiarti libbre e libbre di carne e bere intere anfore di vino, ma soprattutto… alto, altissimo! È ancora oggi uno degli uomini più alti della Storia Umana: oltre due metri e quaranta, secondo l’Historia Augusta, tra le più importanti raccolte di biografie storiche romane mai scritte, la sua altezza si attesterebbe tra i 244 e i 250 cm.  

(Lo sventurato Imperatore Alessandro Severo)

Dopo aver servito tutta la vita nell’esercito romano, aver scalato le vette della gerarchia militare e aver presidiato instancabilmente i confini di quell’Impero, a 62 anni la sua esistenza cambia improvvisamente. Alessandro Severo viene assassinato e le truppe lo acclamano “Imperator”. Ma come è stato possibile che un un umile soldato, per giunta barbaro, nato pastore e senza cittadinanza romana, guardato dall’alto al basso tutta la vita dai nobili e dai potenti, che non conosceva il latino e mai aveva visto Roma, sia potuto diventare il Signore dei Romani senza che un solo senatore o aristocratico lo avesse voluto? Mai era successa prima una cosa del genere, era impensabile che qualcosa del genere potesse accadere! Ma accadde. I legionari lo scelsero, e il Senato non poté che ratificare quella decisione che gli era stata imposta. Sembra che inizialmente Massimino fosse restio ad assumersi un incarico di quel tipo. Ma lo convinsero i suoi uomini, la sua vera famiglia, che in lui vedeva non un mero comandante ma un padre, lui che era sempre stato buono con i suoi soldati, lui che era un leader nato, lui che aveva indiscusse capacità di comando e che da decenni era amato, rispettato, ammirato. Mai i Senatori avrebbero accettato che un barbaro fosse il loro Imperatore. E invece dovettero accettarlo.

Nei suoi anni da Imperatore, Massimino il Trace si impegnò duramente e stoicamente ed energicamente a difendere i confini imperiali riportando brillanti successi trionfali, sconfiggendo intere popolazioni barbare solo all’apparenza invincibili, dimostrando quanto la potenza dei Romani fosse ancora micidiale, nonostante tutto. La convinzione generale era che Roma e il suo Impero fossero in procinto di capitolare, quando questo barbaro sorto dal nulla, appena proclamato Imperatore, invece di godersi i benefici della sua nuova condizione, scelse di dare il sangue per intraprendere in prima persona qualsiasi tipo di vittoriosa campagna militare, dimostrandosi un geniale stratega militare capace e abilissimo, un comandante forte e coraggioso che non esitava a lanciarsi egli stesso nella mischia uccidendo a destra e a manca, e che condusse le legioni di successo in successo, sgominando nemici temibili, reprimendo ogni sorta di attacco e tirando su incredibili bottini. Lui era convinto che un vero Imperatore dovesse essere in prima linea a combattere per il suo popolo. Peccato che il suo popolo lo detestava: la nobile schiatta aristocratico-senatoriale di Roma non lo appoggiò mai veramente, tollerandolo poco o nulla, diffamandolo presso i cittadini e soprattutto fomentando una serie di orribili rivolte interne che portarono al sorgere di altri pretendenti alla porpora imperiale. Massimino e i suoi, oltre che lottare contro i nemici fuori dai confini di Roma, dovettero così sbaragliare anche i nemici dentro Roma, sedando i rivoltosi. Egli doveva difendere Roma e al contempo guardarsi da Roma stessa e dai suoi infidi complotti, perciò non volle mai avere un solo nobile vicino a sé, circondandosi sempre invece dei suoi fedeli e leali soldati, che lo amavano

Al terzo anno di regno, a seguito dell’ennesimo attacco rivolto alla sua persona da parte del Senato di Roma che giammai lo avrebbe accettato, Massimino capì che era necessario marciare rapidamente verso la Capitale e prendersela. L’Imperatore di Roma voleva vedere Roma. Ma ciò non accadde. Varcate le Alpi, Massimino e i suoi incontrarono la città di Aquileia e l’assediarono: l’unico errore, fatale, in una carriera altrimenti costellata di soli trionfali trionfi. Sarebbe dovuto andare diretto verso la Città Eterna. E invece lui rimase impegolato in un lunghissimo assedio difficoltoso e fastidioso che portò solo a fame, stanchezza e malcontento tra i suoi legionari, quelli che guerreggiavano ininterrottamente da tre anni. Il Senato spedì contingenti militari da ogni parte del mondo romano per accerchiare Massimino: l’assediante si ritrovò assediato. Quegli stessi soldati che lo avevano messo a capo dell’Impero, ora lo deponevano assassinando lui e suo figlio Massimo, poco più che ventenne, nel loro accampamento, durante una pausa dai combattimenti. Non ci sarebbe mai stato a Roma, se non da morto. Gli tagliarono le teste che vennero spedite all’Urbe così da essere esposte per la gioia del popolo festoso, mentre i corpi furono mutilati e dati in pasto ai cani. Gli ultimi sostenitori del Trace vennero eliminati, le sue statue e i suoi busti abbattuti, il Senato elesse un tredicenne come nuovo Imperatore e decretò per Massimino la cosiddetta “damnatio memoriae” (pratica che significa “condanna della memoria” e che prevede la cancellazione del nome di un dato personaggio da tutti i monumenti, la distruzione delle sue statue e lo sfregio del suo ritratto sulle monete). 

Solo l’esercito lo aveva amato, l’altezzoso Senato sprezzante e il popolo mai. Quello stesso stupido popolo che per i successivi 50 anni avrebbe patito fame, dolori e umiliazioni atroci: mai più alcuna vera vittoria contro i Barbari avrebbe arriso a Roma, Imperatori ammazzati come mosche e sostituiti da usurpatori che sarebbero stati uccisi l’indomani, scellerati trattati di pace disonorevoli, perdita di territori, lo strapotere di avide legioni… chi più ne ha, più ne metta! Nei libri di storia chiamano questo periodo di crisi “anarchia militare”, in cui si avvicendarono intorno al trono oltre venti Imperatori e un numero doppio di usurpatori, solitamente comandanti portati in alto dai loro eserciti. Il cinquantennio parte dalla fine dei Severi nel 235 e arriva fino al 284/285, quando il turno di regnare toccò a DIOCLEZIANO, generale dalmata che seppe essere fine politico e profondo riformatore. Ma, per come la vedo io, quei 50 anni partono dal 238. E cioè dopo il regno di un Imperatore che mai vide Roma e mai ne fu amato, ma che sostanzialmente diede la vita per il suo bene.

(Lo scaltro riformatore Diocleziano, Imperatore di Roma)

Facciamo ora un balzo in avanti di quasi millecinquecento anni. E da Roma ci spostiamo verso il Nord, a Londra, quella che all’epoca di Massimino era “Londinium”. La situazione in Gran Bretagna non era delle migliori già da un secolo o giù di lì. Nel 1534 quel maialone del Re d’Inghilterra ENRICO VIII dei TUDOR, amante focoso sempre in cerca di donne, e che era stato fin dai suoi primi anni di regno un difensore devoto della Chiesa Cattolica Romana, litigò di brutto col Papa: Enrico era sposato alla cattolicissima CATERINA D’ARAGONA, ma si era invaghito della sua dama di compagnia ANNA BOLENA (dopo essersi fatto un giro con la sorella maggiore MARIA BOLENA) ed era intenzionato a sposarla. Ma per farlo doveva annullare le nozze con la sua prima moglie. Il Papa, anche se solo per interessi politici, doveva per forza “stare dalla parte” di Caterina. E così il buon Enrico, per tutta risposta, decise di dire “Ciao ciao” alla Santa Sede, farsi una chiesa inglese tutta sua (la Chiesa Anglicana) nella quale il Re fosse il capo, e bandire dalla corte la sventurata Caterina annullando il loro matrimonio e sposandosi la Bolena. La stessa della quale poi si sarebbe presto stufato: la fece rapidamente processare e condannare a morte, così da sposarsi la di lei dama di corte, JANE SEYMOUR. Consiglio per le Regine: meglio avere dame di corte racchie e antipatiche!

(Enrico VIII e le sue sei mogli: Caterina d’Aragona, Anna Bolena, Jane Seymour, Anna di Clèves, Catherine Howard e Caterina Parr)

Al di là di Enrico, delle sue sei mogli e delle sue vicende amorose, resta il fatto che era nata la Chiesa Anglicana. E questo avrebbe comportato grandi casini per tanti e tanti anni. Il giovanotto EDOARDO VI, successore di Enrico e figlio di Jane, continuò energicamente la riforma iniziata dal padre promuovendo lo scisma che si era venuto a creare. Ma era un ragazzino gracile e malaticcio e morì quindicenne dopo soli sei anni di regno. Gli successe la sorellastra col nome di MARIA I, figlia di Enrico e di quella Caterina D’Aragona, parecchio incazzata per quello che era accaduto alla madre, cattolicissima fino al midollo, e che attraverso una spietatissima e durissima repressione sanguinaria fece il possibile per restaurare il Cattolicesimo nel suo regno, al punto da guadagnarsi il soprannome di “Maria la Sanguinaria” (il noto cocktail “Bloody Mary” prende il nome da lei!). Dopo pochi anni di regno fu vittima di un tumore. Senza figli, il trono sarebbe passato alla sorellastra, figlia di Enrico e Anna Bolena, cresciuta nella fede anglicana. Maria morente supplicò la giovane di mantenere l’Inghilterra cattolica, senza riuscirci. La sua cerchia le propose allora di condannarla a morte prima che fosse troppo tardi, ma lei non lo fece. Morì e la sorellastra diventò regina col nome di ELISABETTA I, che con intelligenza e attraverso l’arte diplomatica riprese l’opera del padre e forgiò la nuova chiesa inglese. 

(Dipinto allegorico/metaforico ritraente anacronisticamente Enrico VIII Tudor seduto in trono, con accanto inginocchiato presso di lui nell’atto di ricevere la Spada della Giustizia il figlio Edoardo VI; alla sinistra vi sono raffigurati “Maria I la Sanguinaria” con accanto il marito Filippo II di Spagna; alla destra Elisabetta I)

Morta senza lasciare eredi, con lei si spense la dinastia dei TUDOR e furono gli scozzesi STUART a ereditare il trono. Per la prima volta Scozia e Inghilterra unite sotto la stessa Corona. E fu il disastro. Per tante ragioni: tra cui la loro vicinanza alla Chiesa Cattolica. Il primo, GIACOMO I, venne mal tollerato. Il secondo, suo figlio, CARLO I, evitarono di sopportarlo: gli venne tagliata la testa. Per la prima, e unica, volta in terra d’Albione ci fu la Repubblica. Che però ebbe vita piuttosto breve. Tornò il Re, il figlio di quel Carlo decapitato, CARLO II, altrimenti soprannominato “Merry Monarch”, e cioè “Il Monarca Allegro”, perché era uno spirito gioviale a cui piaceva festeggiare e che riuscì a riportare la Corona al suo posto. Ciò nondimeno, governò come un sovrano assoluto. La moglie era sterile e quindi non ebbe figli (ne ebbe, a dire il vero, dodici… ma NON dalla moglie). Gli sarebbe successo il fratello minore. Che però, infausta notizia!, era cattolico… il che non poteva essere tollerato. Il Parlamento redasse il cosiddetto «Exclusion Bill», proposta di legge che escludeva dalla successione il fratello del Re, ma Carlo II non la firmò mai. Sul letto di morte, egli si convertì al cattolicesimo. Ascese così al trono GIACOMO II. Era il Caos: tanto che il Re venne deposto e obbligato all’esilio a seguito della celebre “Gloriosa Rivoluzione”, chiamata così perché avvenuta senza spargimenti di sangue, a seguito della quale vennero messi sul trono congiuntamente la figlia (NON cattolica ovviamente) del fu sovrano e il di lei marito nonché cugino: MARIA II STUART e l’olandese GUGLIELMO III D’ORANGE. Lei vivace e allegra, lui più freddo e pensoso, dopo un inizio travagliato, ebbero un matrimonio pieno d’amore. Entrambi fedeli l’una all’altro, decisero di spodestare il padre e suocero e prenderne il posto. Assolutamente protestanti e per questo benvoluti, il loro fu il solo caso di un Re e una Regina inglesi che regnarono insieme, congiuntamente, sullo stesso piano: solitamente c’è il sovrano e il suo consorte, in questo caso furono entrambi sovrani. Sotto il loro regno si rafforzò il Parlamento, a discapito della Corona.

(Illustrazione rappresentante la famiglia Stuart, il periodo repubblicano inglese del Commonwealth e la Casa d’Orange tutti insieme: in basso da sinistra a destra Giacomo I, Carlo I, il leader della Repubblica Oliver Cromwell, Carlo II, Giacomo II, Guglielmo III D’Orange, Maria II e Anna)

Morirono a pochi anni di distanza, prima lei e poi lui, senza figli. Fu proclamata regina la sorella di lei, la quale era anglicana: ANNA. Una donna per niente fortunata che visse sulla sua pelle numerosissimi aborti e parti prematuri, proprio come la sorella Maria. Ad oggi si ritiene che ambedue soffrissero di una malattia, che le rese incapaci di generare eredi. Come fare adesso? Di certo non ad un cattolico, non dopo tutto questo trambusto, non sia mai! Venne fatto approvare in tutta fretta dall’oramai potentissimo Parlamento il cosiddetto «Act of Settlement» (Atto di Disposizione) che escludeva dalla successione tutti i parenti cattolici di Anna. Come a dire: tutti gli Stuart. Ma allora… chi avrebbe regnato dopo Anna? Una tizia la cui madre era figlia di quel Giacomo I Stuart che unì le corone di Scozia e Inghilterra, quel Giacomo I che era il bisnonno di Anna. Si trattava sostanzialmente di una sua lontanissima procugina, o qualcosa del genere. Ma soprattutto era la sua parente non-cattolica più prossima. Pensate che vi erano ben altri 56 eredi in linea di successione ma ne vennero estromessi perché cattolici! Lei era la 57ª. Lei era: SOFIA DEL PALATINATO. Che però non avrebbe mai regnato, anche se fu nominata erede al trono. Ottantatreenne, benché godesse di una salute molto più forte della malaticcia Anna e fosse piena di energie e vigore e voglia di fare al punto da aver brigato da dietro le quinte per assicurarsi quella Corona, fu sorpresa da un’acquazzone improvviso che la fece correre ai ripari. E che fu causa del collasso che la portò alla morte. Sarebbe stata la persona più anziana ad essere nominata monarca inglese, non fosse deceduta. Era l’8 Giugno 1714. L’1 Agosto di quello stesso anno la quarantanovenne Anna morì per malattia. Fu la fine degli Stuart. Ma quindi chi diavolo ebbe quella Corona? 

(Sofia del Palatinato)

Georg Ludwig, il figlio di Sofia del Palatinato. Un tizio tedesco semisconosciuto, nato e cresciuto in Germania, che a malapena era informato su cosa fosse il Regno Unito, che non capiva una sola parola di inglese, che era impacciato e goffo in pubblico, che non aveva mai preteso di governare né sapeva che un giorno gli sarebbe successo. Buffo e tragico insieme che, a parte la sua tedesca lingua madre, parlasse un perfetto francese, conoscesse approfonditamente il latino, fosse in grado di cavarsela con l’italiano ma con l’inglese… ma con l’inglese proprio niente di niente, meno di zero! Nella sua vita aveva avuto la fortuna di ereditare l’intero Ducato germanico di Brunswick-Lüneburg dal padre e dagli zii senza dover spartire nulla né con i fratelli né tantomeno con le sue cugine. E poi un giorno accadde l’impensabile. Fu proclamato Re col nome di GIORGIO I DI GRAN BRETAGNA.

(Il sovrano inglese Giorgio I)

Era l’inizio di un nuovo casato regnante di cui avrebbe fatto parte anche la REGINA VITTORIA: la dinastia degli HANNOVER, che era di fatto il nome della loro terra, quella di Hannover, capitale del loro Ducato. Il nuovo Re, totalmente straniero, come sarà stato accolto dal popolo, dagli aristocratici e dai parlamentari? Malissimo! I sudditi inglesi lo disprezzarono enormemente, non lo considerarono mai “uno di loro” e lo credevano stupido. La verità però è ben diversa: nei suoi oltre 12 anni di regno, Giorgio I fu un governante giusto e saggio che seppe amministrare con pacatezza e intelligenza, dopo tutti i disordini e le morti che avevano sconvolto il Paese di cui ora era sovrano. Per quanto sentisse di non appartenere al suo stesso regno e provasse una fortissima nostalgia per la sua amatissima terra natia al punto da aver trascorso lì un quinto totale del tempo vissuto in qualità di monarca, si rimboccò le maniche e si diede da fare. Studiò l’inglese diventando capace di comprenderlo, parlarlo e scriverlo. Dovette affrontare qualche complotto volto a destituirlo eppure fu clemente con i congiurati concedendogli il perdono o, tuttalpiù, esiliandoli. Riuscì a riportare la pace in una Nazione stanca e devastata e corrosa da secoli d’odio. 

E infine, anche se sui domini degli Hannover vigeva la monarchia assoluta, egli capì che in Inghilterra la situazione era ben diversa, che il sovrano non aveva il totale controllo di tutto e che esisteva un Parlamento la cui supremazia venne accentuata e implementata proprio per volere dello stesso Giorgio I, il quale contribuì ad una diminuzione dei poteri della Corona inglese e al rafforzamento del ruolo dei ministri. Fu così che SIR ROBERT WALPOLE, il Primo “Primo Ministro” di Gran Bretagna, assunse un’egemonia politica sempre più rilevante, per quanto comunque abbia sempre temuto tutta la vita il Re, date le sue capacità e i suoi talenti. Fu sotto Walpole e Giorgio che nacque la pratica, ancora oggi in vigore, dei celebri colloqui privati settimanali tra il Primo Ministro e il Monarca. Il Destino dispose che Giorgio I morisse durante una visita alle sue terre natali in Germania; nel mentre che era in viaggio su una carrozza tra due cittadine sassoni si sentì male per via di un ictus e spirò poco dopo diventando di fatto l’ultimo monarca britannico sepolto fuori dal Regno Unito. Mai veramente amato e accettato dal suo popolo, egli operò per il suo bene: se oggi ancora esiste la famiglia reale inglese, è merito suo.

Quindi abbiamo parlato di due Principi che non facevano parte del popolo su cui regnarono, e da cui proprio in quanto stranieri vennero criticati, disprezzati e derisi. Ma loro ugualmente, pur non facendone parte, lottarono per il suo Bene, a dispetto degli insulti e delle congiure e dei complotti. Torniamo alla domanda: qual è la prima caratteristica fondamentale di un governante, se non essere parte della sua Nazione? 

(Quel mito di Sancho Panza!!!)

Le vicende di Massimino il Trace e Giorgio I Hannover mi fanno pensare a SANCHO PANZA. Sì, proprio lui, uno dei protagonisti della grandissima opera letteraria a firma di MIGUEL DE CERVANTES: «DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA». La storia è quella di un piccolo, anziano nobilotto che legge talmente tanti romanzi cavallereschi da andare completamente fuori di testa, impazzire e autoproclamarsi cavaliere. Si troverà un umile contadino simpatico come scudiero, il caro Sancho, che apparentemente segue il suo signore perché convinto che lo nominerà governatore di un’isola. Come fosse possibile! Alla fine, però, un’isola l’avrà per davvero. Più o meno. Incontrerà infatti dei potenti nobili burloni che si prenderanno gioco di lui, nominandolo governatore dell’inesistente isola di Baratteria. L’investito governatore, a cui è consentito governare “a distanza”, viene inondato da una serie di obblighi e doveri. Il nostro non demorderà e saprà impegnarsi a fondo per risolvere i problemi sottopostigli e affrontare le sue molteplici responsabilità. I «burlatori» verranno in qualche modo burlati, tutti quanti stupiti, tanto da ritenerlo «un secondo Salomone» per il suo buongoverno sapiente, equo, giusto, migliore di quello di molti altri (veri) governanti. Quel che mi chiedo è: come ha fatto, se manco sapeva come diavolo fosse fatta la sua isola? Come ci è riuscito? È come nei due casi sopracitati. E quasi mi spiace contraddire il buon Machiavelli.

Il voler riuscire a tutti i costi magari ti porterà lontano. Ma cosa perderai lungo il cammino? Forse, se non la Vera Grandezza, quantomeno la Vera Giustizia, che poi è la cosa più importante che ci sia, può essere rintracciata non nella volontà di vincere, quanto nel desiderio di fare del proprio meglio. 

In sostanza, a mio modo di vedere, Massimino e Giorgio e Sancho sono stati dei bravi governanti perché sono stati delle brave persone.

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