DI ALBERTO GROMETTO
La Morte. La vecchia signora col cappuccio, la falce e il mantello nero. A voi la Morte fa paura?
A me personalmente ha sempre fatto più paura la morte degli altri che la mia, sapete?
Quando sei tu a morire, non sai quello che ti aspetta. Che cosa ti succederà. Invece quando è qualcun altro a morire, sai benissimo che cosa ti tocca. Ti tocca di rimanere qui. E senza quella persona. Chi muore non muore come chi invece sopravvive. Sopravvivere, quella è la cosa peggiore che possa esserci.
Noto che si parla sempre tantissimo di cosa ci sia dopo la morte, di che cosa accadrà all’anima, di chi potresti incontrare. E invece non si parla affatto di quello che accade a chi resta. O comunque se ne parla molto poco. Perché? Forse perché lo sanno già tutti che accade a chi resta? Magari non è un tema abbastanza misterioso per porsi delle domande in merito. O forse il fatto è che è troppo doloroso parlarne. Perché sì, è più doloroso parlare della morte di chi sopravvive, ma è come se morisse quando chi ha amato se ne va.
Ci voleva un Eroe della Settima Arte come Yorgos – GENIO – Lanthimos per affrontare un tema del genere!!! Lui, il Maestro con la M Maiuscola, tra i più brillanti uomini di Cinema che esistano, Colui che ci ha fatto dono di capolavori dei più fenomenali. Sulla cresta dell’onda, ottenuto uno straordinario successo internazionale col suo clamoroso precedente film, Yorgos Lanthimos decide di uscirsene con un’altra perla tutta greca e che eppure parla al mondo intero perché tratta di un tema che più umano non potrebbe esserci: il Lutto.
Rispetto ad altri film di Lanthimos, questo potrebbe risultare più ostico e meno accessibile. Sia chiaro, Yorgos è il Maestro del GROTTESCO, capace di realizzarti di quelle Storie da brividi dinanzi alle quali inorridisci perché finisci per toccare il vero Orrore albergante nell’Essere Umano. Umanità e Orrore vanno sempre a braccetto, di pari passo, da che mondo è mondo. Nel caso però di questa particolare pellicola, la difficoltà è più legata al ritmo, particolarmente compassato e sofferto.
Nondimeno, si tratta comunque del lavoro di una Mente Superiore, e che parte da un’idea di base talmente bella da lasciarti senza fiato. Vincitore del Premio Osella per la Miglior Sceneggiatura alla 68ª Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia del 2011, stiamo parlando di… ALPS.
Scritto da Lanthimos e dal suo storico collaboratore di fiducia Efthymis Filippou, siamo in presenza di una pellicola che, come solo sa fare il miglior Yorgos, parla di temi brutali e forti e potenti con un rigoroso stile freddo e asettico e crudo. Al centro un gruppo di bizzarri individui che si fa chiamare col nome di montagne: Monte Bianco, Monte Rosa, Cervino. Unico microscopico spoiler che vi farò: Perché proprio montagne? Non si sa.
Queste persone svolgono una professione delle più bizzarre mai sentite al Cinema: sostituiscono per un certo lasso di tempo coloro che sono deceduti recentemente per aiutare i cari e i famigliari ad abituarsi alla loro mancanza e a reggere meglio il dolore. Sembra assurdo, vero? Beh, lo è. Una persona che ti è stata accanto tutta la vita viene a mancare, e allora tu che fai? Paghi qualcuno perché si vesta come quella persona, si comporti come quella persona, interagisca come quella persona e trascorra del tempo insieme a te. E questo dovrebbe aiutarti a superare il dolore di una separazione che, se non eterna, durerà come minimo tutta la vita? Come fa davvero la gente a crederci? Beh, la spiegazione è una sola: Le persone disperate sono disposte a tutto. Allora solo così il ragionamento fila. E fila perfettamente.
Come già accaduto in altri film lanthimosiani fino a questo momento della sua carriera, Realtà e Finzione si mescolano e si confondono, e non si capisce più cosa sia Vero e cosa Falso. Non lo capiamo quasi più noi che guardiamo la vicenda, e non lo capiscono nemmeno loro che quella vicenda la vivono. Perché quando hai a che fare col dolore di altri, è davvero possibile per te che hai studiato così tanto e così a fondo qualcuno che non c’è più con l’obbiettivo di impersonarlo e sostituirlo, rimanere distaccato e imparziale? E se a forza di ricevere l’Amore di quella gente che soffre, vorresti continuare ad essere quella persona che non c’è più? Magari addirittura quando quelle stesse persone che ti hanno ingaggiato non vogliono più saperne di avere a che fare con una mera e pallida copia del loro defunto… E allora cosa succede? Cosa ne nasce? Coloro che sono in lutto, non vogliono più tentare di superarlo ma imparare a conviverci. Che cosa? Imparare a convivere col proprio lutto? Questo sarebbe un lutto per colei o colui che si sono così profusamente impegnati per fartelo superare, quel lutto.
Sì, è esatto. È chiaro e lampante e naturale, nel momento in cui un film ti racconta di persone che, simili quasi ad una setta, svolgono con questa freddezza emotiva un lavoro che è tutto emotivo, che qualcosa andrà storto e l’emotività arriverà a morderti il culo. E così, chi finge di essere qualcuno che non è, per aiutare chi ha perso qualcuno, si ritrova perso nel momento in cui quel qualcuno non vuole più saperne.
Storia semplicemente straordinaria, regia impeccabile, interpretazioni meravigliose. Tra tutti gli interpreti, citiamo due attrici eccezionali che il mondo intero dovrebbe imparare a conoscere e ad ammirare. Innanzitutto la protagonista Angeliki Papoulia, che ha fornito la performance della vita nel film precedente di Lanthimos (quel «Kynodontas» che citavamo prima) e saprà incantarci con quello che ci regalerà nel film successivo («The Lobster»). E poi lei, che ha l’eleganza e la passione e la ferocia e il talento delle migliori attrici che abbiano mai solcato lo schermo: Ariane Labed. Bellissima, sovrumana, da Oscar ogni volta che recita, moglie di Yorgos, sa sempre come conquistarti.
In definitiva, questo film ti lascia domande su domande su domande. Domande del tipo: Quando qualcuno t’abbandona, perché alla fine è un abbandono, cosa fai? Che ti manca di quella persona? Come puoi fare per riviverla? Ma esiste un modo per far rivivere quella persona? Oppure no? Se potessi stare ancora un po’, solo un altro po’, che le diresti? Queste sono domande terribili. Ma non sono senza risposta. Ognuno di noi, in cuor suo, ce l’ha la risposta. È facile immaginare cosa ognuno di noi potrebbe voler dire a chi ci ha lasciati. Qualcosa del tipo:
Mi manchi. Ma solo qualche volta. Mi manchi nei giorni pari, ad esempio. E in quelli dispari. Mi manchi la mattina presto. Di notte fonda. E pure lungo tutta la parte che c’è in mezzo. Mi manchi quando dormo e quando son sveglio. E pure nel dormiveglia. La verità è che Tu mi manchi sempre. Mi manchi costantemente, in continuazione, tutto il dannato tempo. Mi manchi così tanto che non riesco a respirare. È come non sapessi più respirare da quando non ci sei. E io non vorrei altro che stare con te. Davvero, non mi interessa altro di questo mondo. Ogni mattina mi sveglio e la prima cosa che penso è: Ecco, un altro giorno senza di Te. Eri Tu la cosa più bella. E me l’hanno portata via. Se esiste un Paradiso, là, oltre i confini del Cielo e della Terra, che m’attende, allora quello sarà il luogo più felice che ci sia. Sarà il mio posto preferito. Sarai Tu.
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