DI ALBERTO GROMETTO
Essere bloccati. Poche cose sono peggiori quanto questa sensazione. L’essere bloccati senza poter far niente per uscirne. O, peggio ancora: più ci provi, e più rimani imbrigliato. Come nelle sabbie mobili. In questa Vita si può rimanere bloccati tante volte e in tanti modi: in un lavoro che non ci piace, tra persone che non ci apprezzano, in una relazione che ci fa soffrire. E non se ne esce. E, la beffa più grande, è che se non ne esci è perché, in qualche modo, è anche colpa tua.
Questo concetto è alla base… sì, lo so, iniziate pure a darmi del matto… di due opere che io non posso fare a meno di accostare.
Da una parte quel CULTONE… non solo CULT ma CULTONE… senza tempo che risponde al nome di «SHINING» (1980) diretto dal Pazzo Geniale… e forse anche un po’ stronzo, per quanto riesca a farci innamorare ad ogni pellicola… che si chiama STANLEY KUBRICK! Tratto dall’omonimo romanzo del Maestro STEPHEN KING, ci riferiamo a quello che sempre più spesso viene acclamato come il più grande horror di tutti i tempi.
Dall’altro lato invece abbiamo a che fare con… i tre nipotini di Paperino in uno SPECIALISSIMO NATALIZIO TARGATO ANNO 1999: QUI, QUO E QUA!!!
E niente, non credo vada aggiunto altro, dovrebbe essere chiaro a tutti il motivo per il quale queste due opere sono più che accostabili l’una all’altra.
No?
Non lo è?
Beh, sarà allora mio immenso onore e augusto piacere poter spiegare chiaramente tutto quanto nei dettagli!
Partiamo dal capolavoro kubrichiano: di cosa parla veramente ed effettivamente SHINING?
Per rispondere a questa domanda, è necessario introdurre il concetto cosiddetto “correlativo oggettivo”, il cui esempio più alto, limpido e lampante è senz’altro in questa pellicola. In Letteratura si intende con correlativo oggettivo un’immagine che rappresenta uno stato d’animo interiore. Nel Cinema invece è un oggetto che rappresenta fondamentalmente il tema dell’intero film o della singola scena intorno al quale e attraverso il quale quel dato film o quella singola scena si sviluppa. In «Shining» ne abbiamo due. O meglio: uno solo che però è doppio. Da un punto di vista meramente fisico, mi riferisco all’enorme albergo deserto nel quale si svolge la vicenda. Ma da questo correlativo oggettivo Kubrick ne estrae un altro che è sia astratto sia concettuale insieme, rappresentante dell’essenza stessa dell’intera pellicola, che ha una funzione di bussola nella costruzione narrativa dell’opera, che è l’oggetto fondante sul quale e attraverso il quale è costruito tutto il film. Ma che cos’è? Nella sua semplicità, è geniale!
La storia, pura-nuda-cruda, è la seguente: un uomo diventa il custode di un albergo sperso tra le montagne durante il periodo invernale, nel quale sarà completamente isolato insieme alla famiglia. Avrà così il tempo per scrivere il suo libro. Ma invece impazzisce e comincia a voler uccidere i famigliari. Il film ci fa vivere il suo percorso di declino e discesa nella follia. Questa è, detta senza troppi giri di parole, la vicenda. Ma ancora non sappiamo quale sia l’oggetto che incarna il significato dell’opera. Ebbene, trattasi del: LABIRINTO!!! È sempre lì, e non mi riferisco solo a quello fisico fuori dall’albergo, nel quale spesso la moglie e il figlio del custode giocano. Il bambino saprà orientarcisi, al contrario del padre che lì dentro non farà altro che girare all’impazzata senza usare la logica e, dunque, PERDENDOSI! Quel labirinto, signore e signori, è la mente di Jack Torrance, il custode-aspirante scrittore reso immortale da quello stratosferico attore che è JACK NICHOLSON. Lui si è perso nel suo stesso cervello. Semplicità, dicevamo. Cosa c’è di più semplice del raccontare la storia di un uomo che impazzisce e si perde dentro un labirinto, che rappresenta la sua mente? Quello stesso labirinto nel quale il figlio Danny non si perde, perché lui non è pazzo: e del resto, conoscendo il posto, ne esce usando la logica. E il titolo del film è proprio “LUCCICANZA”, quella che ha Danny.
Tutto è costruito intorno a quel labirinto. Vi è il labirinto esterno all’albergo, all’interno vi è una sua miniatura/modellino, persino la scena iniziale d’apertura che vede la macchina di Jack e famiglia ripresa dall’alto girare su una strada tortuosa vuole ricordarcelo! Pensate che Kubrick è arrivato a costringere i tecnici a creare qualcosa che prima non esisteva per far assomigliare ad un labirinto i corridoi dell’albergo e poter realizzare la celebre scena che vede il piccolo Danny a bordo del suo triciclo: la STEADYCAM, splendido macchinario dotato di due braccia con molle che si possono calibrare, fatto per agganciarsi all’operatore e muoversi stabilmente insieme a chi lo porta.
Stanley ha creato un film che parla dell’essere umano, di come siamo fatti e di come funzioniamo. Poteva venir fuori un polpettone filosofico e invece no, lui ci racconta la storia di un tizio che impazzisce e lo fa tenendoci incollati allo schermo tutto il tempo, innescando una crescente tensione pazzesca e parlandoci del nostro cervello attraverso l’immagine del labirinto. Citiamo una piccola ma strepitosa scena. Jack ha terminato la colazione. La telecamera inquadra da subito la sola macchina da scrivere, poi sentiamo un “Bum!” sinistro, inquietante. Quando l’inquadratura si allarga, vediamo Jack giocare e capiamo che era solo il rumore di una palla. Ma intanto ci è stato trasmesso un profondo disagio. Nel frattempo madre e figlio si rincorrono nel labirinto: ancora non sanno quanto questo tornerà utile. Dentro l’albergo Jack s’avvicina al modellino. La telecamera passa dalla sua faccia alla miniatura… e a questo punto vi è un’inquadratura zenitale, dall’alto, che mostra madre e figlio dentro il labirinto vero. Il commento sonoro raggiunge livelli di inquietudine assoluta. Diventa chiaro come il labirinto sia la mente di Jack, al centro del quale si trova la famiglia. Ci sarebbe dovuta essere la macchina da scrivere, l’elemento con cui Kubrick ha aperto la scena. E invece così non è. Jack sta iniziando ad ossessionarsi.
Okay, lo ammetto: ho sfruttato questa GRANDE SFIDA per parlarvi beatamente e allegramente di tale sensazionale monumento cinematografico. Ma diremo qualche parola anche sugli adorabili Qui, Quo e Qua, che ci stanno molto simpatici. Quei tre birbanti passano un Natale dei più felici… ma solo per loro tre! Aprono i regali senza aspettare nessuno dei grandi, giocano tutto il giorno fregandosene del resto, e fanno infuriare il povero Zio Paperino! Alla sera poi vedono una stella cadente e desiderano sia Natale tutti i giorni. Il sogno si avvera. E all’inizio è bellissimo, una meraviglia, che gioia! Ma poi diventa un incubo orrendo quando si rendono conto che sono BLOCCATI nello stesso identico giorno di sempre e per sempre. Iniziano allora a comportarsi peggio di quanto già non facessero e… solo dopo tanti Natali capiranno dove stava il loro errore. Pensavano che quel giorno fosse fatto di regali, quando invece la sola cosa che conta è stare insieme a chi ami. Il finale non lo sveliamo, anche se è abbastanza intuibile. Non particolarmente originale o grandioso come corto, l’idea del giorno che si ripete sempre uguale deriva da quell’eccezionale capolavoro che è il film «RICOMINCIO DA CAPO» (in originale «GROUNDHOG DAY», e cioè “Il Giorno Della Marmotta”, anno 1993) diretto dal brillante Harold Ramis e con protagonista quel fenomenale e dolcissimo mattacchione di Bill Murray. Trattasi comunque di un piccolo, tenero pezzettino d’animazione disneyana.
E quindi, in conclusione? Il rimanere bloccati senza poterne uscire. Nel caso di SHINING si tratta di un luogo fisico, e cioè l’Overlook Hotel. Per i tre pasticcioni nipotini di Paperino trattasi di uno spazio temporale, ovvero il Giorno di Natale. Ma alla fine sia Jack Torrance sia Qui, Quo e Qua si sono ritrovati imprigionati. E non tanto in un albergo o dentro il 25 Dicembre. Ma in sé stessi. Jack nel suo cervello e nelle sue ossessioni e nelle sue follie tra le quali si è smarrito. I tre dentro un comportamento sbagliato che non sapevano essere sbagliato e che li ha portati a non rendersi conto di cosa fosse davvero importante. Si erano persi tutti e quattro, tutti e quattro senza più comprendere la realtà delle cose.
Non ritengo necessario dire chi vinca la sfida. Credo sia chiaro. E se sorprendentemente non lo fosse: non lo dirò comunque. Meglio rimanere nel dubbio. Il Mistero è quel che in parte dà senso e significato alla Vita, del resto. L’importante è non rimanerne ossessionati, altrimenti potresti finire per correre con un’ascia in mano stile Jack Torrance. Perché, ricordate: se rimanete intrappolati in un labirinto o sotto l’Albero di Natale, un modo di scappare c’è sempre… ma se rimani intrappolato in te stesso, ecco, quello è il solo caso in cui una via di fuga non esiste.
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