DI GIACOMO CAMISASCA
Siamo piccole particelle che viaggiano a una velocità indefinita verso il buio che cattura ogni cosa e quel buio è la mente di uno dei più grandi fisici e scienziati della nostra storia, J. Robert Oppenheimer.
Christopher Nolan consegna a noi il ritratto di un uomo tormentato dal suo percorso di vita, professionale e morale. Ci consegna una pellicola di 200 kg e ci rende testimoni di quello che è stato uno dei momenti più alti ma allo stesso tempo più bassi del genere umano.
Questo è un film horror, uno dei più belli che siano mai usciti negli ultimi vent’anni. Già, un horror, perché in molte sequenze si respira quell’ansia che solo la paura e il senso di terrore sanno trasmettere. Le visioni oniriche di Oppenheimer sono la miccia che viene accesa per quello che poi si scatenerà più avanti e quello che ancora dovrà, forse, accadere al genere umano.
Kubrick aveva utilizzato l’ironia di Peter Sellers, Nolan utilizza le rughe e gli occhi scavati di Cillian Murphy.
Murphy non è proprio la copia esatta di Oppenheimer, ma forse è meglio così, perché l’effetto del camaleonte ha una sua evoluzione esponenziale, perché Murphy non solo, man mano che il film procede, riesce a trasformarsi in Oppy ma diventa in tutto e per tutto lui, in ogni sua espressione, in ogni suo gesto.
Questo mi ricorda molto quello che era successo nel film “Steve Jobs” diretto da Danny Boyle.
Michael Fassbender arriva all’ultimo atto completamente trasformato nel genio della Silicon Valley.
Per quasi tre ore seguiamo l’attore irlandese in ogni scena, siamo lui e lui è in qualche maniera sia lo scienziato americano che noi spettatori e spettatrici, una cosa strana, una fusione che ci fa vivere a 360° ogni minimo dettaglio, perfino il pulviscolo che si alza da una scrivania, il calore di un’esplosione o le lenzuola che si asciugano al vento.
La storia è quella, quella della creazione della bomba atomica, quella di Los Alamos del Trinity Test e del processo farsa ad Oppenheimer perpetrato, nell’ombra, da Lewis Strauss, interpretato da un Robert Downey Junior che si scrolla di dosso Tony Stark e ricorda a noi tutti che lui è, prima di ogni altra cosa, un grande attore.
Luce e ombra, colore e bianco-e-nero, fissione e fusione.
È un classico del linguaggio cinematografico, dividere in due e assegnare ad ogni ruolo il proprio spazio di manovra. Solitamente i cattivi stanno nell’ombra e i buoni cercano di sconfiggerli con la luce che emanano e che li circonda.
Qui il linguaggio che usa Nolan è diverso, perché nella realtà dei fatti tutti sono allo stesso tempo sia buoni che cattivi, non c’è una vera e propria distinzione, sì ci sono Lewis Strauss e Oppenheimer ma è un duello alla Mozart e Salieri, come nel film di Miloš Forman.
Ma non sono solo Murphy e Downey a prendersi la scena, ogni personaggio è interpretato in maniera magistrale, su tutti Emily Blunt nel ruolo di Kitty Oppenheimer e Benny Safdie che veste i panni di Edward Teller.
E poi c’è lui, il suono, una presenza costante nelle nostre piccole vite e che qui enfatizza, con una potenza primordiale, ogni singolo momento.
È presente dall’inizio, chiuso nelle gocce di pioggia, alla fine, nell’urlo distruttivo che sentiremo chissà quando.
Christopher Nolan ci consegna il suo prestigio, il suo film più maturo e completo, anche se “Dunkirk” e “The Prestige” ci avevano fatto urlare di meraviglia, qui la formula cambia, si allontana dai suoi dogmi e ne crea di nuovi, si mette in gioco e vince a mani basse. Nolan prende la storia di un fisico e la rende fruibile a tutti, e, se siete scettici, guardate gli incassi di questo biopic di tre ore, non crederete ai vostri occhi.
Ma non voglio finire parlando di soldi e dell’impatto generazionale che questo film, secondo me, avrà. Voglio finire parlando di una frase che viene detta da Kitty Oppenheimer e che spero non passi in sordina, una frase potente detta a Robert nel deserto, riferendosi ad un suo precedente marito morto nella rivoluzione spagnola.
“È morto nella maniera più stupida, prendendo un proiettile nel petto, destinato al fango, per cosa?”
Oppenheimer è un film sulla guerra, ma la guerra in sé non si vede.
Oppenheimer è un film su un uomo straordinario che prende il fuoco degli dei e lo consegna ai suoi simili.
Oppenheimer è un film su una mente fragile e tormentata che vede al di là di ciò che normalmente appare.
Oppenheimer è un film che ci guarda negli occhi, che ci mostra ciò di cui siamo stati capaci, ed è doloroso pensare a tutto il male che ci abita.
E così, dato che non sono bravo a trovare una conclusione alle cose, prenderò in prestito Kurt Vonnegut e il suo, sempre attuale, “Mattatoio numero 5”:
… perché non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non abbiano più niente da dire o da pretendere. Dopo un massacro tutto dovrebbe tacere, e infatti tutto tace, sempre, tranne gli uccelli. E gli uccelli cosa dicono? Tutto quello che c’è da dire su un massacro, cose come “Puu-tii-uiit?”.
Se ti interessa la fisica e insieme la guerra, riteniamo che questo pezzo faccia al caso tuo!!!