DI EDOARDO VALENTE
“Ai primi di luglio, dopo giornate caldissime, verso sera, un giovane uscì dal buco che aveva in subaffitto nel vicolo S. e a passi lenti, come se fosse indeciso, si diresse verso il ponte K.”
È con questo splendido ed efficace incipit che Dostoevskij ci presenta uno dei personaggi più iconici della narrativa russa e non solo: Rodion Romanovič Raskol’nikov.
E come prima cosa ci dà un’informazione importantissima su di lui: vive in un buco in subaffitto.
Poche righe dopo dice che è più simile ad un armadio che ad un alloggio.
Ad un certo punto del romanzo lo paragona addirittura ad una bara.
Questo buco di Raskol’nikov è un luogo centrale per l’intera vicenda, non solo perché tendenzialmente, quando il nostro protagonista non è in giro, si trova sdraiato lì dentro, sul divano, ma anche perché se egli non avesse abitato in un buco, forse, non avrebbe commesso l’omicidio.
Per chi non conoscesse o non ricordasse cosa avviene in Delitto e castigo, il sunto è questo:
Un giovane, per convincersi di essere più forte delle leggi morali, uccide una vecchia usuraia cattiva. Per il resto del romanzo se ne pente.
Attorno a lui gravita un numero enorme di personaggi dalle storie assurde e affascinanti.
Si potrebbero scrivere libri interi su ogni singolo personaggio secondario che Dostoevskij sapientemente posiziona nella storia, ma per questa volta ci concentreremo su Raskol’nikov, sui motivi per i quali è diventato un assassino e su come non esserlo a nostra volta.
Raskol’nikov è un giovane studente, poco più che ventenne. Si è trasferito dal paese in cui viveva con la madre e la sorella per andare a studiare giurisprudenza a San Pietroburgo. Vive in povertà, e questa ristrettezza economica gli impedisce di continuare gli studi.
Smette di andare all’università, e si chiude nel suo buco. A pensare.
E quello a cui pensa, l’idea che partorisce, è il motore di tutto il romanzo. Si pone una domanda potentissima, che affonda in una profonda riflessione sull’essere umano: io sono un insetto o sono Napoleone?
Pensiamoci: nella Storia ci sono delle figure che spiccano più di altre, specialmente i condottieri, i re, gli imperatori. Figure alle quali era concesso fare qualsiasi cosa. Per la loro grandezza tutto era permesso. Sono coloro che Raskol’nikov chiama “grandi uomini”, che si ergono sull’ordinarietà umana con la loro straordinarietà.
E io cosa sono? Napoleone o un insetto?
A me cosa è concesso fare? Se coloro che ammazzano centinaia o migliaia di persone e vincono diventano “eroi di guerra”, perché non mi è concesso uccidere una sola persona, e per di più una vecchia cattiva?
Questi sono i ragionamenti di Raskol’nikov, che si è isolato da tutti “come una tartaruga nel suo guscio”, e quando gli chiedono cosa fa nelle sue giornate, ora che non studia e non lavora, lui risponde che un lavoro lo fa: “Penso”.
“[…] era la malattia a generare il delitto o era il delitto stesso che, in qualche modo, per sua stessa natura, era accompagnato sempre da qualcosa di simile a una malattia?”
Io ho riletto Delitto e castigo in un momento particolare della mia vita.
Avevo da poco deciso di abbandonare l’università (quel corso di laurea non faceva per me), e dunque passavo le mie giornate non studiando, non lavorando, chiuso nel mio buco.
E per qualche motivo mi era venuto in mente di rileggere questo romanzo.
La prima non è stata una vera lettura. Da quando l’avevo iniziato a quando l’avevo finito era passato un anno e mezzo, ero ancora troppo piccolo per capire i veri temi del romanzo, tutti quei nomi russi a cui non ero abituato mi mandavano in confusione e così via.
La rilettura è avvenuta nel momento giusto.
Mi è piaciuto molto, a un certo punto, leggere che Raskol’nikov chiamava sé stesso “ex studente”. Ecco, mi dicevo, sono io. Io, con le mie giornate vuote, la testa piena di pensieri, isolato nel mio buco.
Ma non sono diventato un assassino.
Perché?
Proprio per merito di Delitto e castigo.
Faticavo anche a concentrarmi sulle letture, ma questo romanzo me l’ero diviso in tappe da rispettare settimanalmente, e così facevo. E più lo leggevo, più lo riscoprivo, mi ci ritrovavo, comprendevo l’odio e la solitudine di Raskol’nikov, e capivo anche che il peso di un qualsiasi castigo è superiore a quello di ogni delitto.
Il delitto non va solo inteso come una terribile azione criminale commessa contro qualcun altro. Il primo delitto Raskol’nikov l’ha commesso contro sé stesso, in quel suo rincantucciarsi, fuggire da tutto e tutti. Era lo stesso delitto che commettevo io verso me stesso.
L’isolamento e l’inattività.
Non fare nulla e neppure riuscire a leggere, per un lettore, è terribile.
È infatti l’inattività a essere ancora più distruttiva dell’isolamento. Quando ho ripreso a leggere ero comunque isolato, ma qualcosa si riattivava in me. Qualcosa che oggi mi permette di scrivere queste parole.
L’inattività e l’isolamento.
Curata la prima si deve curare anche il secondo. È questo che cerca di fare Raskol’nikov, che, infatti, sa di non potersi salvare da solo. Lo aiuta Sonja, una giovane prostituta di cui si innamora, e che ricambia il suo amore.
Quando, alla fine, viene condannato per l’omicidio, deve scontare la sua pena in Siberia (luogo che Dostoevskij conosce bene, poiché anch’egli è stato spedito lì ai lavori forzati). E lì ci va con Sonja, lei decide di accompagnarlo.
Nella scena finale Dostoevskij li mette nella stessa stanza, ci mette il Vangelo, e ci mette la felicità.
“Ma era così immensamente felice che quasi si spaventò di quella sua felicità. Sette anni, solo sette anni! All’inizio di quel periodo di felicità, in certi momenti, entrambi erano pronti a considerare quei sette anni come se fossero sette giorni.”
Ora, non so voi, ma se mi dicessero che devo passare sette anni in Siberia ai lavori forzati, la prima cosa che mi viene in mente non è certo la felicità.
Eppure, loro sono felici. E la mia spiegazione è solo una: perché sono insieme.
Non solo: sono insieme, si amano, ma soprattutto si capiscono. Poche righe prima, grazie al già citato Vangelo, che è un elemento ricorrente nel loro rapporto, capiscono di capirsi.
Ecco: è questo che fa la differenza.
Non solo abbiamo bisogno di fare qualcosa (Raskol’nikov si ammala nella sua nullafacenza), non solo abbiamo bisogno di qualcuno con cui comunicare (Raskol’nikov non può non rivelare che è stato lui l’assassino), ma soprattutto abbiamo bisogno di essere compresi.
Sonja è la prima a sapere del delitto di Raskol’nikov, ma è anche l’unica a supportarlo, a stare al suo fianco, nonostante tutto.
È questo potere della condivisione e della comprensione che fa sì che, in fondo, sette anni di lavori forzati possano sembrare sette giorni. Possano essere un periodo felice.