Dark Shadows: Avercelo Nel Sangue

DI ALBERTO GROMETTO

«Si dice che il sangue sia più denso dell’acqua. Ci definisce, ci lega, ci maledice». 

È con queste parole che si apre un film che nel giro di cinque minuti liquida la vita del suo protagonista, te la racconta tutta fino al momento in cui termina. Ed è solo quando finisce la vita che il film inizia per davvero.

Il sangue, signore e signori. 

Il sangue è l’elemento centrale della pellicola di cui sto per parlarvi. 

Il sangue di chi ti ha fatto del male e di cui desideri macchiarti le mani.

Il sangue di cui sei assetato nel momento in cui vieni reso vampiro.

Il sangue giovane che non hai più e che vorresti avere per essere come un tempo.

Il sangue che lega persone diverse in quella cosa chiamata “famiglia”.

(Johnny Depp nel ruolo di Barnabas Collins al suo ottavo film con Tim Burton, al momento attuale la loro ultima collaborazione)

Il protagonista è Barnabas Collins, impersonato da quell’interprete magistrale che è sempre stato JOHNNY DEPP e che anche in questo caso ci regala una performance magnetica capace di strappare numerose emozioni, e che ci fa scompisciare dall’inizio alla fine. Il suo modo di parlare forbito e la sua raffinata eleganza ricercata vanno assolutamente in contrasto con tutto l’ambiente intorno a lui. Riportiamo una sua spassosa citazione, tra tutte: 

«Ho già preparato la mia controproposta, che recita pertanto: Poni strategicamente le tue splendide labbra sul mio posteriore e bacialo ripetutamente!».

Abbiamo detto che quest’uomo è Barnabas Collins? Oppure sarebbe più giusto dire: ERA Barnabas Collins? Oramai è un morto vivente, reso una creatura della notte maledetta, un vampiro succhia-sangue che non vorrebbe essere un vampiro succhia-sangue e che invece lo è. Eppure, prima di essere un vampiro, prima di essere un uomo del Settecento, prima di essere qualsiasi altra cosa, lui è e rimane un Collins. Prima di tutto viene la sua famiglia e il suo farne parte. 

«La famiglia è l’unica, vera ricchezza».

Questo soleva ripetere sempre il padre di Barnabas. E lui non lo ha dimenticato. Nemmeno due secoli passati sottoterra, sconfitto e abbandonato da tutti, glielo hanno fatto scordare. E così, quando per una pura casualità fa il suo ritorno nel mondo dei vivi nel 1972, la sua famiglia è molto cambiata: maledetta come lui, piena di stramboidi cafoni uno peggio dell’altro. Ma anche se strambi, sfigati e un po’ insopportabili, lui non ha intenzione di smettere di essere uno di loro.  

Un altro Burton, un’altra sofisticata pellicola con dentro tutti i classici stilemi di Tim, un’altra fiaba cupa e gotica che ti racconta della Morte, della Vita e di cosa significhi essere diversi e sentirsi soli e incompresi. Sì, esatto, trattasi di un’opera targata TIMOTHY WALTER BURTON: il Maestro californiano più dark che ci sia e che, nonostante nel 2012 fosse già in circolazione da un po’, riesce ai miei occhi a realizzare un film che, pur dichiarandosi BURTONIANO AL 100% fino al midollo, risulta essere comunque frizzante, divertente, allegro, spensierato, emozionante, sontuoso e cool tutto insieme e al tempo stesso! 

Non sarà esattamente qualcosa di nuovo, ma è un comunque un grandissimo film, in cui si percepisce tutto quello che ha saputo rendere Tim un regista talmente idolatrato e amato da guadagnarsi il conio di un aggettivo tutto per lui: BURTONIANO. Ci sono la storia dark e tenebrosa ma comunque essenzialmente fiabesca, l’aurea gotica che in questo caso fa da contrappunto ad un’ambientazione che risulta invece essere molto pop come sono stati gli anni ’70, i personaggi eccentrici e folli di cui è impossibile non innamorarsi, il fattore favolistico-fantasy, il tema della solitudine e dell’emarginazione.

«Mi ha messo nel dimenticatoio perché era più facile che avere una figlia diversa, una figlia maledetta, maledetta perché io vedevo cose che le altre bambine non vedevano. Sono stati gli anni più solitari e dolorosi che una bambina può conoscere».

Queste parole le pronuncia un personaggio del film in merito alla sua infanzia, e racchiudono parte fondamentale e fondante del significato dietro svariate pellicole burtoniane. Anche Tim ha trascorso un’infanzia solitaria, in cui gli unici amici su cui poteva contare davvero erano la sua immaginazione, la sua creatività e il suo Cinema. Sarebbe stato più facile cambiare. Essere diversi da come si era. Ma lui ha preferito rimanere sé stesso. Rimanere fedele a quello che era. Ed è la stessa cosa che ha fatto in questo film qua.

(La maestosa Michelle Pfeiffer)

Menzioni speciali, oltre al già citato Depp, le merita l’intero cast al completo e che, come quasi sempre accade nei film di Burton, non potrebbe essere più indovinato di così. Da una MICHELLE PFEIFFER che incanta e conquista con uno sguardo fino ad arrivare ad un CHRISTOPHER LEE che apparirà mezzo minuto a dir tanto ma sa imprimersi indelebilmente dentro di noi pur avendo a sua disposizione un minuscolo cameo. 

(Il fantastico Christopher Lee)

E poi come non citare quella che è l’altro grande attore feticcio di Tim, oltre a Depp: HELENA BONHAM CARTER. Il suo non è uno dei personaggi principali, ma rimane comunque uno spettacolo a sé stante: ogni sua battuta e gesto sono profondamente divertenti, per quanto facciano trasparire una triste malinconia di fondo. Lei vorrebbe avere quello che Barnabas ha, l’eterna giovinezza, e nulla le importerebbe di essere maledetta o assetata di sangue se questo significasse rimanere così come è, per sempre. Non aggiungerò altro in merito, se non una sua citazione che dal mio punto di vista non può che essere ritenuta cult e che esprime appieno l’essenza del suo character:

«Ogni anno divento bella la metà e sbronza il doppio!».

(Helena Bonham Carter, storica collaboratrice di Burton e madre dei suoi figli, alla sua sesta e ultima collaborazione con Tim)

Un applauso a parte è dovuto però a colei che forse è la vera sorpresa-rivelazione a livello attoriale di questo gioiello: EVA GREEN. Lei ha saputo coniugare perfidia perversa e indole malvagia con fascino magnetico e una dolente sofferenza interiore. Quello di Angelique sa essere un personaggio di una sensualità esplosiva, e del resto l’intero film sa essere molto sensuale: nessuna pellicola burtoniana dai tempi di «Batman Returns» ha saputo essere così erotica. Il rischio che diventasse una macchietta in cui si mescolano sensualità e cattiveria c’era. Eppure, complici la scrittura formidabile e la performance attoriale, così non risulta: e questo perché l’interprete sa incarnare pure il dramma di questo character, e cioè non essere amata dall’uomo che ama. O che è convinta di amare. 

Sì, perché lei sa come stuzzicare il buon Barnabas, sa come farlo sentire vivo anche da morto, sa come scatenare in lui il desiderio di violare i suoi «più intimi e femminili anfratti». Ma l’amore è un’altra storia! E pure lei, che non potendo averlo ha voluto distruggerlo, lo hai mai davvero amato? Quando decidi di rovinare chi ami, allora si può davvero parlare di “amore”? Forse era solo desiderio di possessione? Forse lei non è in grado di amare, e questa è la sua maledizione più grande.

(La splendente Eva Green nel ruolo di Angelique)

È necessario ammettere come, dopo una prima parte di carriera durante la quale il Maestro ha saputo contraddistinguersi per uno stile iconico e caratterizzante e rivoluzionario tutto suo e diverso da qualsiasi altro, al punto che si capisce subito quando ci si trova dinanzi ad un pellicola burtoniana e quando no, il nostro Tim sia in qualche modo pervenuto ad una certa forma di arida riproposizione: la vecchiaia arriva per tutti, e quello che un tempo era un modo di essere nuovo e originale e apprezzato si è tramutato in una sorta di stanco ripetersi di idee già utilizzate e abusate. Come se in qualche modo la vena folle e rivoluzionaria si fosse esaurita, e non restasse altro che la mera riproposizione di vecchi cavalli di battaglia percepiti come invecchiati. In altre parole: remake, reboot, sequel, rifacimenti, film-fotocopia e via dicendo. 

C’è chi ha sostenuto che anche questo film qua, che risponde al nome di «DARK SHADOWS», sia in qualche modo una pellicola che manca di sostanza e che ripropone cose già viste. Ma in questo caso io non sono assolutamente d’accordo, non la penso così. È logico che un Autore abbia i suoi tratti distintivi e caratteristici, è naturale che i suoi film s’assomiglino, ma esiste una differenza, talvolta sottile e talvolta meno, tra realizzare prodotti in serie fatti con lo stampino oppure creare uno stile “tipico”. E se è vero che diversi cineasti, invecchiando, cadono nella trappola e rimangono imbrigliati in sé stessi, e la cosa capiterà del resto allo stesso Tim, in questo caso Burton ricorda a tutti chi è stato e quali sono le Storie che, volenti o nolenti, hanno meravigliato e affascinato generazioni di fans cinefili. 

E del resto: quante citazioni tratte dal film abbiamo fatto in questo articolo? Per quanto siamo andati avanti a parlare di questa pellicola? Quanti discorsi abbiamo fatto in merito? Un film privo di sostanza avrebbe fatto così tanto parlare di sé? Io credo proprio di no! 

In ultima analisi, il sangue alla fine è una metafora. Un modo per dire: 

Sei tu che determini chi sei, che decidi quali siano le tue maledizioni, che scegli chi vuoi faccia parte della tua esistenza. La tua famiglia è quella che ti scegli. Ciò che di brutto ti capita nella vita non puoi deciderlo, ma hai potere su come reagire. Non vi sono streghe o vampiri o sortilegi che tengano: sei sempre e solo tu ad avere l’ultima parola. E sei sempre tu che scegli il posto a cui appartenere.

E quindi puoi essere un uomo del Settecento che ha avuto la sfortuna di imbattersi in una malefica fattucchiera che lo ha maledetto, ucciso e reso un eterno vampiro. Così come puoi essere un cineasta il cui ultimo film ti fa considerare una pallida copia di quello che eri un tempo. L’ultima parola ce l’ha Barnabas. Ce l’ha Burton. Ce l’hai tu. 

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