Drive My Car: Il Controllo Che Ti Controlla

DI ALBERTO GROMETTO


Se dovessimo riassumere in un solo, singolo termine la varia molteplicità e molteplice varietà dentro la complessità profonda e profondità complessa di codesta pellicola, dovessimo rintracciare il tema portante e centrale di questa sovrastante perla di altissima cinematografia, quella parola sarebbe senz’altro: CONTROLLO.

Bastano cinque secondi per capire di trovarsi dentro un film che, non sarà per tutti, sarà lento, avrà un ritmo nipponico, ma è destinato ad essere una delle più mirabili visioni a cui si potrebbe desiderare di avere l’immenso e inestimabile privilegio di assistere. E allora sia benedetta la lentezza, implacabile e giusta, di questa eccezionale pellicola che non sembra nemmeno essere fatta da esseri umani tanto è bella, e che invece è tale proprio perché è fatta da umani. Bisogna solo essere disposti a immergersi nella storia raccontata totalmente, completamente.

L’inizio: Lui e Lei fanno l’amore e nel farlo Lei racconta a Lui delle storie. Meraviglioso. Lui è Yūsuke, eminente regista e attore teatrale di grandi opere quali “Aspettando Godot” di Samuel Beckett e “Zio Vanja” di Anton Čechov. Lei è la sceneggiatrice Oto. Si amano. Si amano? Così sembra, eppure un giorno Lui torna a casa e la trova a letto con un giovane, forse un attore con cui Lei collabora, tale Kōji. Né Lei né l’amante si accorgono che Lui è in casa. E così, in silenzio, senza dire nulla, Lui se ne va. E non le parlerà della cosa. Tempo dopo, prima di andare al lavoro, Lei dice a Lui che gli vuole parlare quella sera stessa. Quando tornerà, Lei sarà morta per un’emorragia celebrale. Ora di sicuro Lui non le parlerà più. Sono trascorsi quaranta minuti e solo adesso arrivano i titoli di testa. Geniale.

Passati due anni, Yūsuke sceglie di dirigere un’opera teatrale. Tra gli attori vi è anche Kōji. Lui vorrebbe recarsi al lavoro guidando la sua amata auto, ma la compagnia teatrale ha una rigida politica a riguardo e, pur consentendogli di utilizzare la sua inseparabile macchina, gli impone un’autista che lo accompagni. La giovanissima Misaki è una guidatrice di straordinario talento e tormentata, come Yūsuke, da fantasmi appartenenti al passato. Un bizzarro legame nasce tra i due.

Questo è un film sul controllo. Il controllo che noi abbiamo sulla nostra vita e i nostri ricordi, ma anche sul controllo che la nostra vita e i nostri ricordi hanno su di noi. Il controllo che noi abbiamo su quello che proviamo e su come vorremmo che le cose andassero. E ovviamente l’assenza di controllo. Il controllo che noi vorremmo avere sugli altri e che fondamentalmente mai avremo perché, come dice il giovane attore Kōji al nostro protagonista quando sono in macchina, in quella che forse è la più grande e strabiliante scena climatica di tutto il film, Yūsuke avrà conosciuto sua moglie meglio di chiunque altro, ma nessuno può dire di sapere veramente cosa ci sia dentro il cuore e l’anima di un’altra persona, semplicemente perché non può. È impossibile. E questo porta ad una totale, spesso spaventosa, assenza di controllo. 

Un’assenza di controllo alla quale dovremmo, in parte, tristemente rassegnarci. Ma alla quale dovremmo anche abbandonarci, come un viaggio in macchina in cui non sei tu che guidi, ma al volante c’è qualcun altro. Anche se quell’auto è la tua. 

Di fatto avere il controllo può essere deleterio e logorante. Ti può portare a fare cose che non vorresti fare. Paradossalmente: cercare di avere il controllo ti porta a essere controllato. Il voler mantenere il controllo finisce per avere controllo su di te. La reazione, o meglio, la NON-reazione del nostro al tradimento della moglie è la dimostrazione di questo. Perché lui non dice niente? Perché fa finta di niente? Perché non vuole che le cose cambino, perché vuole continuare a rimanere con sua moglie, perché vuole continuare a guidare la sua auto, quell’auto. L’auto della loro relazione. E dunque è disposto a non reagire. Il suo desiderio di controllo lo controlla, il suo voler continuare a controllare la sua esistenza e il suo rapporto con la moglie lo controlla e lo porta a non reagire dinanzi ad una cosa alla quale avrebbe voluto/dovuto/potuto reagire. 

Questo discorso sulla presenza e assenza di controllo si rispecchia perfettamente nel potere delle Storie, del Racconto e del Teatro. Raccontare una storia significa avere in qualche modo il controllo, significa guidare tu l’auto, portare la persona che è sulla tua auto dove vuoi tu. Il racconto è una forma di controllo. Narrare una storia significa dare un senso e un significato a qualcosa che nella vita vera e reale un senso e un significato spesso non ce l’ha. Non è un caso se di “Aspettando Godot” viene citata proprio la scena nella quale i due protagonisti, Didi e Gogo, si chiedono se forse non sarebbe meglio separarsi, ma poi non si separano. Didi e Gogo sono Yūsuke e Oto. L’attesa di Godot trasmette la sensazione di malinconica tristezza dinanzi al NON-senso della Vita, e la disperata ricerca di un significato che, chissà, forse c’è o forse no.

Ma al tempo stesso raccontare una storia significa anche assenza di controllo. Perché spesso, quando si inizia a raccontare, nemmeno tu che guidi l’auto sai esattamente dove andrai a finire. Dove ti ritroverai alla fine della corsa in macchina. Narrando la storia, finisci per andare in un posto che non ti aspettavi nemmeno tu. Questo è raccontare una storia: il controllo e la sua assenza. E questo naturalmente vale anche per il teatro. Nel Teatro il controllo è fondamentale: le prove continue, conoscere le battute a memoria, il sapere come andrà a finire la storia. Ma è anche assenza di controllo: abbandonarti completamente al tuo personaggio e alle emozioni e sentimenti che prova. Emblematico in questo senso il fatto che gli attori teatrali all’interno del film si lamentano perché il nostro protagonista dedica tantissimo tempo alla lettura delle battute senza emozioni: egli vuole il controllo e non il suo contrario. Ma il Teatro ha bisogno anche dell’assenza di controllo. Da qui si spiega perfettamente la paura del nostro di recitare nello “Zio Vanjia”

E poi vi è la totale assenza di controllo che noi abbiamo su chi non c’è più. Su chi c’è stato e ora non possiamo più abbracciare e vedere. Persone alle quali non possiamo più chiedere quelle cose che non avevamo capito di loro quand’erano in vita. Perché ogni persona ha degli aspetti INSONDABILI che non potremmo mai capire e comprendere. Era quello che dicevamo prima parlando del fatto che nessuno può sapere cosa ci sia dentro il cuore e l’anima di qualcuno. Ma quando quel qualcuno è in vita, quantomeno c’è l’illusoria speranza di poter comprendere i misteriosi “perché” dietro l’insondabile, tipico dell’animo umano. Ora che invece quel qualcuno non c’è più, non si potrà mai più comprendere e capire. L’assenza di controllo, in questo caso, diventa agghiacciante e terrificante. 

La sceneggiatura a dir poco straordinaria è tratta da un racconto di quel Maestro di Scrittura che è Haruki Murakami. La regia disarmante è di Ryūsuke Hamaguchi. Le interpretazioni magistrali. E poi c’è Cinema, Teatro, Letteratura, tutto: c’è la Vita. Pensieri di un’intima profondità allucinante che lasciano senza fiato. Se proprio devi lasciare la guida dell’auto a qualcuno, allora non potrai essere più felice di prendere le chiavi e consegnarle immediatamente a chi ha saputo raccontare qualcosa di così bello. 

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Se invece sei un appassionato de «Lo Zio Vanja», allora non potrai non voler leggere questo articolo!!!

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