DI EDOARDO VALENTE
Mi è capitato di recente di rileggere un breve tema che scrissi in quinta elementare. La traccia da sviluppare era la seguente:
“Ho dieci anni, un papà e una mamma, in testa tante domande e poche risposte.”
Io ho saltato a piè pari la parte sui genitori, e ho parlato solo delle mie domande senza risposta.
Si sa, i bambini sono spesso curiosi, non vedono ancora la realtà con la patina di quotidianità alla quale la vita ci abitua. Ma in queste domande era già presente quella che sarebbe stata, evidentemente, la mia curiosità nei confronti delle parole, della lingua, delle etimologie ecc.; nonché su ciò che sta all’origine di ogni cosa.
La prima di queste domande, infatti, era: “Perché ogni oggetto ha un nome?”
(Cosa c’entra tutto ciò con Solaris?, vi starete chiedendo. Un attimo e ci arrivo).
Mi interessava sapere perché ogni cosa che esiste è chiamata così com’è chiamata, e mi domandavo anche perché ci sono lingue diverse, perché i numeri sono infiniti, perché esistono i pianeti.
Mi colpisce però il fatto che la prima di queste domande riguardava il nome delle cose.
Partendo da quelle curiosità del me a dieci anni, si può arrivare ad una risposta, tracciando una linea che passa per Solaris. O forse è questa la sua destinazione finale.
La prima risposta che darei a quel bambino è: ogni cosa ha il nome che ha perché siamo stati noi a darglielo.
Poi, se si volesse approfondire parola per parola, il discorso diventerebbe decisamente più lungo e impegnativo.
Ma già questa banalità, se ci si riflette un po’ di più, ha dello sconcertante: la realtà esisteva già prima dell’arrivo degli umani, ma sono stati gli umani a dare alla realtà dei nomi che solo l’umanità stessa può capire. Dei versi prima, delle scritte poi, in cui incapsulare l’informità del reale.
È a questo punto che mi viene in mente la frase, letta all’interno del romanzo Solaris, dello scrittore polacco Stanisław Lem.
“Ti rendi conto che abbiamo dato un nome a tutte le stelle e pianeti, e che quelli un nome magari ce l’avevano già? Che usurpazione!”
Già: che usurpazione.
Abbiamo deciso che il tavolo si chiama tavolo, la scuola si chiama scuola, la pianta si chiama pianta.
“Perché?”, mi chiedevo a dieci anni. “Perché ogni oggetto ha un nome?”
Certo, le parole sono nate sicuramente con un’utilità pratica. Dire “passami il coltello”, invece di gridare “aaaaah” indicando l’oggetto che si usa per tagliare, è sicuramente più comodo.
Ma le parole, con questo loro essere aeree, impalpabili, hanno condotto l’essere umano verso la sua destinazione migliore: la metafisica.
Le parole non solo hanno iniziato ad essere usate per dire meglio le cose, per abbellirle, ma anche per descrivere ciò che non si può vedere, ciò che non esiste.
Le parole servono per andare al di là. Servono per conquistare mondi.
Solaris è stato pubblicato nel 1961, in piena Guerra Fredda, nonché durante il periodo della corsa allo spazio. Lem negli anni Cinquanta si era scontrato con il regime dell’Unione Sovietica, a causa dei suoi scritti, e per alcuni anni aveva smesso di pubblicare.
È facile intravedere, tra i numerosissimi elementi che compongono questo impareggiabile romanzo, anche una critica proprio alla corsa allo spazio, in cui l’URSS, ovviamente, era uno dei due concorrenti in gara.
“Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto: alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte. Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce, spesso siamo convinti di essere persone straordinarie. In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo, ma estendere la Terra fino alle sue frontiere.”
In un momento così drammatico per la storia dell’umanità, come mai così tante risorse, sforzi, vite, erano occupate per andare sulla Luna?
Perché lo abbiamo sempre fatto: abbiamo sempre desiderato andare oltre.
Gli antichi greci (che a dare i nomi alle cose erano molto bravi), per descrivere questa nostra tendenza avevano inventato questa splendida parola: hybris.
In italiano viene tendenzialmente tradotta con tracotanza, e indica, appunto, l’orgoglio degli esseri umani, l’insolenza, l’arroganza; l’andare contro il volere divino.
Nella letteratura italiana abbiamo uno degli esempi più belli che ci siano. Quando Dante, nell’Inferno, canto XXVI, incontra Ulisse.
L’eroe dell’Odissea si trova tra i consiglieri fraudolenti, ma il motivo per cui è stato spedito all’inferno sembra essere anche un altro.
Agitando quella lingua di fuoco che è ormai la sua forma, Ulisse racconta che, spinto dalla sua insaziabile voglia di scoprire, invece di tornare a Itaca si era rimesso per mare. Il suo viaggio, questa volta, lo ha portato di fronte alle Colonne d’Ercole, varco insuperabile secondo gli antichi.
Eppure, la sete di sapere è troppa, e allora, con la sua “orazion picciola”, Ulisse sprona i suoi, pronunciando le famose parole: “fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”.
Così, con il loro folle volo, superano le colonne, ma vengono ben presto risucchiati in un vortice che li farà cadere dritti all’inferno.
Cosa ha spinto Ulisse a compiere questo gesto di hybris?
La sete di conoscenza. Ma cosa voleva davvero conoscere? Cosa sperava di trovare oltre quelle colonne?
Lem ha una sua risposta anche a questa domanda.
“… la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi.”
Andiamo altrove per cercare di meglio, per cercare civiltà superiori, maggiore cultura. Ma ovunque andiamo c’è sempre qualcosa che resta uguale: quello che ci portiamo dietro. Il nostro sguardo sulle cose.
Cerchiamo il contatto con altre civiltà:
“e adesso che ce l’abbiamo, vediamo che si tratta solo della nostra mostruosa bruttezza, della nostra follia e della nostra vergogna ingrandite al microscopio!”
Non abbiamo mai cercato altro, ma sempre e solo noi stessi.
“Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi.”
Cerchiamo sempre e solo di capire ciò che siamo. E allora, il linguaggio, le parole, nel momento in cui servono per conquistare mondi, non significa che si espandano solo verso l’esterno: servono per capire ciò che sta dentro di noi.
Perché abbiamo dato quello specifico nome agli oggetti, ai pianeti, alle stelle?
È stata una scelta interiore, dall’umanità per l’umanità. E una volta che sono state fatte le prime scelte, quelle necessarie per sopravvivere, tutto il resto è stato fatto per capire che cosa siamo.
Il romanzo di Lem è una delle migliori indagini su ciò che siamo.
Ed è per questo che è così difficile parlarne. Per farlo devo fare riferimento ad un tema scritto quando avevo dieci anni, alla cultura degli antichi greci, alla Divina Commedia.
Come se si potesse parlare di quest’opera solo parlando di altro. Che è, alla fine, ciò che facciamo nei confronti di tutte le cose importanti.
La straordinarietà delle parole è anche quella di produrre metafore. Siamo in grado di descrivere qualcosa descrivendo tutt’altro, e ciononostante possiamo capirlo.
E allora Solaris, (non ho ancora detto di cosa parla, ma a questo punto la trama è di secondaria importanza), che è un romanzo, può essere descritto in tantissimi altri modi.
È un’indagine, una narrazione, una riflessione. È un viaggio incredibile, un percorso ad ostacoli, uno specchio.
Il fascino di questa storia ha anche fatto sì che da essa siano derivate altre opere. La più celebre è sicuramente la versione cinematografica del regista Andrej Tarkovskij. E anch’essa era parte della Guerra Fredda, in quanto duellava con l’altro grande film fantascientifico di quegli anni: 2001: A Space Odissey, del regista statunitense Stanley Kubrick.
Anche in tempi recenti, però, il romanzo di Lem ha prodotto i suoi frutti.
Al Teatro Astra di Torino si è da poco conclusa la settimana in cui è andato in scena l’adattamento teatrale di Solaris. Da un’idea di Andrea De Rosa, il regista, e con l’adattamento scritto da David Greig, ha preso vita sul palco il dramma di quattro personaggi, chiusi in una stazione spaziale, alle prese con un pianeta molto particolare, che è proprio il nostro Solaris.
La dottoressa Kelvin (nell’originale il dottor Kelvin), arriva alla stazione spaziale, dove erano già presenti tre scienziati che si stavano occupando della missione per instaurare un contatto con il pianeta. Il capo della missione, Gibarian, è però da poco deceduto, e rimangono in vita Snaut e Sartorius. Ma c’è qualcosa di strano nel loro comportamento.
Ben presto, anche Kelvin scoprirà cos’è che rende così i suoi colleghi: ricevono delle visite. Kelvin riceve la visita di Harey, che era stata la sua fidanzata, la quale, però, era anche deceduta da anni. Come faceva a trovarsi lì?
È così che viene introdotto il vero protagonista della vicenda: l’oceano. Solaris è coperto da un oceano senziente, che sta giocando con loro, che si introduce nelle loro menti e conduce a loro delle copie delle persone amate, ricavate dai loro ricordi.
Chi sono, dunque, queste persone? Che grado di realtà hanno? Si possono considerare reali pur essendo fatte della stessa sostanza dell’oceano?
Sono davvero le persone che erano da vive? Come possono esserlo, se sono state riprodotte dai ricordi di qualcun altro? Allora, forse, quel che sono non riguarda più le persone che erano, ma riguarda i ricordi da cui sono nate.
Insomma: entrando in contatto con loro chi si conosce? Kelvin entrando in contatto con la Harey creata da Solaris sta entrando in contatto con lei o con sé stessa?
Eccolo qua, lo scacco matto di Lem.
Vale la pena studiare il pianeta Solaris?, si chiedono gli scienziati.
“Chissà. Potrebbe valerne la pena. Non tanto per scoprire qualcosa su di lui… quanto, forse, su noi stessi…”
La scenografia dello spettacolo, con l’aiuto del sonoro e di uno schermo circolare che poteva anche muoversi, come a chiudere o aprire un portellone, ha permesso di immergersi maggiormente nell’esperienza. Molto bello era l’effetto oblò che faceva lo schermo, fuori dal quale sembravano passare i due soli (uno rosso e l’altro blu) attorno ai quali ruota Solaris.
Ma, nel momento in cui un’opera è riuscita, al di là del supporto tecnico, a colpire sono le parole degli attori.
Specialmente, verso la fine, viene ripreso uno dei discorsi conclusivi del romanzo di Lem, in cui la riflessione acquista tinte teologiche. Viene immaginato un “Dio imperfetto”.
“[…] ma sai per caso se sia mai esistita una fede in un Dio… imperfetto?
[…] Mi riferisco a un Dio la cui imperfezione non derivi dall’ingenuità degli uomini che l’hanno creato, ma rappresenti una sua fondamentale caratteristica. […] Uno che ha costruito gli orologi, ma non il tempo da essi misurato.”
Solaris, l’oceano senziente, diventa come un bambino, che sta nascendo, che sta scoprendo sé stesso e le creature attorno a sé. È lui il Dio imperfetto, che governerà l’universo a suo piacimento, e noi “ce ne accorgeremo solo tra qualche tempo”.
O, forse, aggiungo io, solo quando sarà troppo tardi. Probabilmente è già troppo tardi, ma di questa nascente divinità ancora non sappiamo cogliere il segnale.
Solaris ci parla anche di ciò a cui l’essere umano è in grado di credere, e non c’è nulla che richieda maggior fede delle parole. In esse si trova tutto ciò che non possiamo constatare, ma a cui siamo costretti ad affidarci.
Anche nel momento in cui cerchiamo di capire perché l’umanità ha fatto determinate scelte, quando cerchiamo di capire chi sono gli altri, chi siamo noi, alla fine, approdiamo sempre a una definizione, a delle parole.
E se tutto ciò che si fa è sempre improntato alla ricerca di una maggiore comprensione, di un sapere più grande, di una conoscenza interiore, di uno specchio, arriverà il momento in cui ci dovremo chiedere: cosa vedo davvero in questo specchio?
E bisognerà usare la convenzione delle parole per poter tentare di descriversi.
Infine, Solaris si chiude con uno slancio verso il futuro (viene da dire che si chiude con un’apertura). Kelvin rimane lì, di fronte all’oceano, sperando che il contatto possa far sviluppare questa ipotetica divinità. Ma lo spera solo perché così potrebbe avere ancora la sua versione di Harey. Eppure, ancora una volta, sperare di incontrare l’altro è l’ultima scusa con cui ci si nasconde, per non dire che si spera di incontrare, finalmente, sé stessi.
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