La difficoltà di parlare tedesco

DI EDOARDO VALENTE

Per noi italiani pensare di parlare tedesco non è cosa facile.

È una lingua che si discosta da quelle romanze, assomiglia ben poco alla nostra; ha alcuni tratti in comune con l’inglese, ma presenta più complessità.

In tedesco coniugare i verbi è difficile, concordare generi (tre) e casi (quattro) rende il tutto ancora più complicato. 

E poi, diciamocelo: ha un suono sgradevole. Nulla in confronto alla morbidezza delle lingue mediterranee.

Chi nasce in una famiglia e in un luogo in cui già si parla tedesco, per certi versi, lo si può dunque considerare più avvantaggiato, perché imparare altre lingue risulterà sicuramente più semplice.

Ma se la difficoltà in questione fosse parlare il tedesco nonostante sia la propria lingua?

Immaginate che la vostra lingua, quella che parlate fin dalla nascita e che non avete difficoltà a parlare, da un momento all’altro diventi estremamente ostica.

Non si tratta, però, di una qualche modifica grammaticale, ma culturale.

Che effetto può aver fatto ad una persona che parla tedesco sentirsi dire che il modo in cui parla ricorda i nazisti?

Perché è questo che ci capita spesso, ancora oggi, di pensare: sentire parlare – o peggio, urlare – in tedesco ricorda i nazisti, riporta alla nostra mente l’immagine di Hitler che urla su un palco, davanti a migliaia di soldati.

Vi dirò di più. 

Se andate su YouTube e cercate “discorso in tedesco” (magari state studiando questa lingua e volete familiarizzare con il suono), compariranno subito delle registrazioni dei discorsi del Führer. 

Un ultimo esempio.

La parola führer era ed è rimasta comunemente usata. Il corrispettivo tedesco della figura aziendale del CEO è il Geschäftsführer. Questo è il modo giusto per indicare quel ruolo, ma la parola führer continua ad avere su di noi l’unico effetto che riusciamo, ormai, ad attribuirgli: il nazismo.

Ciò, ce ne rendiamo conto, è estremamente ingiusto nei confronti dei tedeschi.

In questo non hanno aiutato le centinaia, o migliaia, di rappresentazioni che sono state fatte, dal dopoguerra a oggi, dei nazisti. Soprattutto da parte della cultura americana, che non si è mai fatta scappare un’occasione per far parlare in tedesco i cattivi della storia (successivamente, in tempi di Guerra Fredda, l’ha fatto anche con i russi).

E gli italiani dell’epoca, che stavano da questa parte della cortina di ferro, hanno involontariamente assorbito questa impronta culturale.

I nostri fallibilissimi cervelli sono caduti in una fallacia logica, tale per cui è diventato vero che:

  • Nazisti = cattivi 

(e questo va bene)

  • Nazisti parlano tedesco
  • Tedeschi = nazisti

(e questo non va bene)

Non dico che sia vero per tutti, ma è indubbio che una tale deformazione pregiudizievole si è impiantata nel nostro modo di vedere il mondo.

Se questa associazione è avvenuta così facilmente (cosa che non è accaduta con l’italiano e il fascismo) è proprio perché era questo l’obiettivo dei nazisti.

Una persona che credeva al nazismo era fortemente convinta di essere dalla parte della ragione, e quindi doveva andare orgogliosa di parlare tedesco.

L’ideologia nazista si basava sul voler affermare una fortissima identità culturale. Le teorie che Hitler ha formulato nel Mein Kampf andavano a riprendere il concetto di pangermanesimo, ovvero riunire politicamente e territorialmente il popolo germanico, quindi le popolazioni di lingua tedesca.

È interessante, però, capire quale fosse la cultura in quella lingua che è stata ereditata (e travisata) e che veniva esaltata da Hitler e dai nazisti.

La Germania si è imposta come fondamentale centro culturale europeo dalla fine del Settecento. Da un lato il cosiddetto classicismo di Weimar di Goethe e Schiller, dall’altro Kant e la sua filosofia, hanno dato origine a questa esplosione culturale.

In quegli anni c’è una grandissima riscoperta della cultura classica, già a partire dagli studi di Winckelmann, che si può considerare tra i fondatori del neoclassicismo.

L’idea dominante era dunque quella di una rinascita (così come nell’Italia del Rinascimento) di quella antica cultura che apparteneva ai Greci antichi e alla Roma imperiale.

Letterariamente e filosoficamente mi piace avvicinare le figure di Goethe e Kant perché, chi per un motivo, chi per un altro, hanno fatto sì che potesse nascere il Romanticismo tedesco.

(Johann Wolfgang Von Goethe)

Ed è in questo periodo che si registra una proliferazione culturale senza pari: dal Circolo di Jena dei fratelli Schlegel, ai grandi filosofi Fichte, Schelling e Hegel, ai poeti come Novalis e Hölderlin, ai compositori come Beethoven, agli scienziati come Humboldt.

Questi, però, sono anche anni difficili.

Il forte sentimento di libertà che la Rivoluzione Francese aveva infuso nei romantici, viene presto schiacciato dalle invasioni napoleoniche.

È in opposizione a ciò che nasce un forte sentimento nazionale, il cui manifesto possono essere considerati i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte, il cui obiettivo era quello di risvegliare un sentimento nazionale che portasse alla creazione di uno Stato-Nazione, identificato con un popolo che condivide la stessa lingua e la stessa cultura.

(Johann Gottlieb Fichte)

Si sviluppano così le forti idee di nazionalismo tedesco e del già citato pangermanesimo; ideali che vengono però contraddetti dall’esito negativo del Congresso di Vienna, che rende la Germania una Confederazione.

Ci sono altri due elementi che si sviluppano nel XIX secolo, e che avranno un’influenza non indifferente su Hitler: l’idea della “Grande Germania” e la musica di Wagner.

La “Grande Germania” avrebbe dovuto annettere anche l’Austria (e quindi l’Impero Asburgico) allo Stato tedesco, cosa che non avvenne, finché non fu Hitler a farlo, seguendo il folle proposito di riunire tutte le popolazioni di lingua tedesca sotto la sua guida.

(Richard Wagner)

E Wagner?

Con la sua musica e i suoi libretti, che si ispiravano alla mitologia norrena e germanica, ha messo al centro l’idea di un certo eroismo tedesco, che si richiamava alle origini stesse di questo popolo.

Pare che dopo una rappresentazione di un’opera di Wagner, Hitler ne fu colpito al punto da condurre un amico fino ad una altura, e fargli discorsi sul suo futuro e su quello dei tedeschi.

Reincontrato quell’amico, quando ormai era da anni il Führer, gli avrebbe detto che tutto era iniziato in quel momento.

A ciò va aggiunto che Wagner seguiva una particolare tendenza di quegli anni: l’antisemitismo. In un saggio intitolato Il giudaismo nella musica, il compositore spiega (inventa) come gli ebrei si siano infiltrati nell’industria musicale non per talento, ma grazie – ovviamente –  al loro controllo delle risorse finanziarie.

A questo calderone (che sembra tanto, ma non è che una minuscola parte di ciò che ha portato al nazismo), si aggiunge la figura di Nietzsche.

Inizialmente amico e poi rivale di Wagner, anche il grande filosofo è esaltato dalla sua musica, tanto da affermare che le sue opere rappresentavano la rinascita dell’arte tragica in Europa.

(Friedrich Nietzsche)

Nietzsche, è bene ricordarlo, non era antisemita, anzi, in alcuni suoi scritti ha dimostrato maggiore ammirazione per gli ebrei che per i tedeschi.

Ma la sua idea di superuomo (Übermensch) finisce anch’essa per venire fraintesa e influenzare l’ideologia nazista.

Fu invece la sorella di Nietzsche, Elisabeth Förster-Nietzsche, ad essere dichiaratamente antisemita e nazista, al punto che modificò e riscrisse alcuni passaggi delle opere del fratello, per farli sembrare più affini al nazismo.

Questo excursus sulla cultura tedesca da Goethe a Nietzsche ci è utile per capire che davvero, per circa un secolo, la Germania ha vissuto una grande rinascita culturale.

Ed è molto interessante notare ciò che avviene col nazismo.

Hitler, come detto, era molto influenzato e suggestionato dalla grandezza dei tedeschi, ma il suo progetto di creare uno stato forte e dominante ha, definitivamente, ucciso quegli ultimi barlumi di grandezza.

Invece di essere l’apice di quella cultura ne è stato l’epilogo.

Questo è facile da immaginare se si pensa a come i totalitarismi trattano gli intellettuali.

Scrittori, pensatori, scienziati hanno abbandonato la Germania in quegli anni per sfuggire alla dittatura; gli artisti erano osteggiati e vennero anche fatte delle mostre di arte degenerata (tra i pittori figuravano anche Gustav Klimt, Paul Klee, Otto Dix).

E le conseguenze sono state infauste.

La Germania, faro culturale nell’Europa ottocentesca, si è spenta sotto le bombe della guerra, sotto i colpi violenti e brutali dell’ignoranza.

Da lingua della letteratura, della poesia, della filosofia, il tedesco è così diventato una lingua ostica, quella che molti – specialmente chi ha vissuto in prima persona lo scontro con i nazisti tedeschi – associano all’orrore, alla morte.

Con ciò non voglio dire che la cultura tedesca sia morta, né che nessuno voglia più averne a che fare; ma la battuta d’arresto gliel’ha data il nazismo.

Dopodiché, il testimone è passato agli americani, e questo si è concretizzato in tutte quelle parole anglofone entrate ormai nel nostro uso comune.

Eppure, nonostante in una ventina di anni un gruppo di folli al potere abbia macchiato per sempre la storia della Germania (e dell’umanità intera), è sempre nostro compito riportare alla mente quello splendore oscurato.

Ciò avveniva già in quegli anni.

Nel 1936 il filosofo Walter Benjamin pubblica un testo singolare dal titolo Deutsche Menschen: Uomini tedeschi; a cui segue il sottotitolo: una serie di lettere.

(Walter Benjamin)

Quello che Benjamin fa è un collage di lettere che si sono scambiati, appunto, degli uomini tedeschi. Ma questi sono, in realtà, tra i più importanti della cultura tedesca, e vanno (come quelli da me citati) da Goethe a Nietzsche. 

Benjamin a queste lettere aggiunge semplicemente una breve introduzione per dare un contesto al lettore, e poi lascia che siano le personalità da lui scelte a parlare.

Ma perché quest’opera? Perché questo titolo?

Innanzitutto, un titolo del genere non poteva che fare piacere ai possibili censori del Terzo Reich, anzi, sembrava un elogio dei tedeschi.

E, in effetti, lo è.

Ma quello che Benjamin fa emergere in maniera subliminale è che questi uomini tedeschi dei quali si esaltano le virtù, nulla hanno in comune con i governanti dell’epoca.

Nella geniale semplicità di questo gesto è racchiuso il senso di ciò che ho voluto spiegare e raccontare.

Ovvero che è solo nello studio, nell’approfondimento, nella curiosità insaziabile che si colloca la nostra più grande libertà, la nostra inespugnabile indipendenza.

Quella che permette di guardare oltre i pregiudizi, al di là delle convenzioni.

Quella che sconfigge l’ignoranza e, forse, anche la violenza.

Lascerò la conclusione alle parole non di un tedesco, questa volta, ma di uno che la lingua tedesca non l’ha trovata avversa, e l’ha studiata e ne ha saputo cogliere il fascino, gli insegnamenti, la vastissima cultura.

(Jorge Luis Borges)

I versi seguenti sono estratti dalla poesia Alla lingua tedesca, di Jorge Luis Borges.

[…]

Le mie notti son piene di Virgilio,

ho detto altrove, avrei potuto dire

di Hölderlin e di Angelus Silesius.

Heine mi ha dato i suoi alti usignoli;

Goethe, la sorte di un tardivo amore,

insieme mercenario e indulgente;

Keller, la rosa che una mano lascia

nella mano di un morto che l’amava

e che non saprà mai se è bianca o rossa.

Sei tu il tuo capolavoro, lingua

di Germania; per l’intrecciato amore

dei termini composti, le vocali

aperte, per i suoni che permettono

lo studioso esametro del greco

e il tuo rumore di selve e di notti.

[…]

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