DI ELODIE VUILLERMIN
Ebbi la fortuna e insieme sfortuna di leggere quest’opera anni fa. Fortuna perché la storia mi rapì e divenne una delle mie preferite. Sfortuna perché era l’edizione ridotta della Black Cat, quei libri creati apposta per le letture obbligatorie in inglese, con la trama molto stringata e accelerata, per intenderci. Per questo mi sono detta: “Devo cercare l’opera integrale”. Così ho fatto e ho amato ancora di più il romanzo della Burnett, che ad oggi resta uno dei miei libri preferiti in assoluto.

UNA STRADA IN SALITA
La storia, fin dalla primissima frase, ci fa capire il tipo di protagonista: Mary è viziata, egoista, resa irritabile dalla perdita dei genitori e dal fatto di trovarsi in un ambiente così diverso dall’India, il suo Paese natale. Infatti si ritrova catapultata, da un momento all’altro, dallo zio Archibald Craven in Inghilterra, senza nessuno che si prenda cura di lei. Il fatto di essere una bambina non rende meno sgradevole il suo atteggiamento, come nota la servitù di Craven.
Credo che la mossa vincente sia stata proprio quella di far apparire Mary come un’acida insopportabile. I personaggi principali, di norma, sono eroi amabili e simpatici, che ti conquistano sin dalle prime pagine, nei quali sai immedesimarti con più facilità. Ma anche quelli odiosi sono ugualmente affascinanti a livello narrativo. Più un protagonista ti sta sulle scatole, maggiori sono le speranze di un’evoluzione caratteriale. Più si rendono antipatici, maggiori saranno gli sforzi che dovranno compiere per far cambiare idea al lettore, dimostrare che sono cambiati e che sono molto più di quello che appaiono. Così il character development diventa più succoso.
È superficiale fermarsi al comportamento viziato e burbero di Mary. In fin dei conti, è umana anche lei. La colpa di certi atteggiamenti, molto spesso, è da ricercarsi nell’ambiente in cui un personaggio ha vissuto o nell’educazione che gli è stata impartita. Infatti Mary è una bambina sola, già trascurata dai genitori che nemmeno volevano una figlia o stavano troppo male per curarsi di lei. Se i servitori indiani sono sempre stati accomodanti con lei, è stato proprio per compensare tutto ciò che i genitori non hanno mai potuto darle. Ma la servitù dello zio inglese è diversa: dà ordini e lascia Mary a sé stessa. I ruoli si ribaltano. Perciò la bimba è sconvolta.
Quando la madre e il padre muoiono, Mary si sente persa. Perché, seppure non avessero tempo da dedicarle, restavano i suoi genitori, le sue figure di riferimento nella vita. Venute a mancare quelle certezze, quegli appigli sicuri, la bimba è spaesata. Finge che non le importi nulla di loro, ma (almeno secondo me) mente a sé stessa per non soffrire: l’autoinganno è uno dei trucchi più usati per evitare i traumi. L’accettazione di un lutto non è cosa facile, soprattutto per una bambina.
Il suo essere capricciosa, chiedere attenzioni e pretendere tutto è manifestazione della sua insofferenza. Chiede l’affetto di un vero genitore, qualcosa di autentico, non avere a che fare con gente che la sopporta perché quello è il suo mestiere. Tratta gli altri come servi perché quello è il rapporto con cui chiunque le si è rivolto per molto tempo. Finora nessuno l’ha approcciata con l’intento di esserle amico o per affetto sincero nei suoi confronti. Perciò agli inizi fatica ad accettare la gentilezza di persone come la cameriera Martha, sempre positiva, di mentalità semplice e pura, senza alcuna paura di dire quello che pensa. Guardandola in quest’ottica, alla fine non ho potuto che provare pena per Mary.
La bimba è sì odiosa e fa di tutto per esserlo, ma quella è solo una maschera, che non sa nemmeno di indossare. È così piccola che non si rende conto delle sue azioni e di come la vedono gli altri.
Man mano che prosegue la storia, il suo carattere migliora. Diventa più consapevole dei suoi difetti e si sforza di correggerli. Mette sé stessa in discussione in più occasioni.
Da quando si era trovata a vivere in casa d’altri e senza nessuna Ayah, aveva cominciato a sentirsi piuttosto sola e ad avere strani pensieri, del tutto nuovi per lei. Si chiedeva perché non aveva mai avuto la sensazione di appartenere a qualcuno, nemmeno quando sua madre e suo padre erano ancora vivi. Degli altri bambini si vedeva che appartenevano ai loro padri e alle loro madri, mentre lei era come se non fosse stata la bambina di nessuno.
Si addolcisce e impara a interessarsi dei problemi altrui, non più solo di sé stessa. Apprende concetti a cui finora non aveva fatto caso, per esempio che i giochi all’aria aperta rinvigoriscono il fisico e che quando hai del cibo non dovresti rifiutarlo, soprattutto se a differenza di altre persone puoi permetterti di mangiarlo in abbondanza. Capisce che, se vuole cambiare le cose, non può aspettare che siano gli altri a farlo al suo posto, ma deve prendere lei l’iniziativa. Si fa pian piano degli amici: Martha, con la sua voglia di parlare e il carattere comprensivo; Dickon, il fratello di Martha, che parla agli animali; un pettirosso che si aggira per i giardini e sembra capire chi è buono di cuore; il malaticcio Colin; perfino Ben, il giardiniere rude ma a tratti sensibile.
Alla crescita personale della bimba si aggiungono due misteri che danno pepe alla storia, interconnessi tra di loro: un giardino abbandonato a sé stesso e un pianto misterioso che si sente nel cuore della notte in tutta la magione di Craven.

IL GIARDINO CHE È IN TUTTI NOI
Mary scopre che nascosto tra le mura si trova un giardino. Un luogo stupendo, ma trascurato. Potrebbe fiorire di nuovo, se qualcuno se ne prendesse cura. Mary decide di essere lei quel qualcuno. Come mai? Perché, dal primo istante in cui l’ha visto, ha avuto una connessione istantanea con quel luogo: quel giardino è lei.
Il giardino è un simbolo potente. Un angolo di paradiso. Una comfort zone. Quel posto che come lo vedi senti essere casa tua, anche se non l’hai mai visto prima. Qualcosa che è tuo e soltanto tuo. Quel posto dove puoi esprimerti al meglio, essere te stesso senza alcun limite. Pin aveva il suo sentiero dei nidi di ragno, Lucy Heartphilia aveva la gilda di Fairy Tail, io ho avuto la Scuola Holden e ho i Mercuziani.
Ma il giardino non è magico se lo abiti solo tu. La vera magia arriva quando lo condividi con le persone, ovviamente le più fidate, quelle che sanno come farlo fiorire al meglio. Meglio invece tenersi alla larga da chi ha un’influenza tossica su di voi, quelli che faranno appassire il giardino fino a trasformarlo in deserto.
Trovo che tutti abbiano, nella vita, il loro giardino segreto. Può essere un luogo fisico o mentale. Che sia una dispensa di idee o elementi di ispirazione per una storia, una lista di buoni propositi per l’anno nuovo, l’elenco di passioni che tieni segrete a tutti tranne che a pochi intimi o altro ancora. Comunque il tuo giardino va curato in continuazione. Bisogna trarre forza da ciò che si coltiva. D’altronde, come suggerisce Ben, la terra è viva e sa percepire la noia o il buonumore.
Il giardino diventa una metafora perfetta non solo di Mary, ma di tutti: coltivare il giardino per coltivare sé stessi, per far fiorire il meglio di noi che credevamo essere appassito dopo le tragedie della vita. È infatti grazie alla cura del giardino che Mary impara a curare i rapporti con le altre persone, ad averle a cuore e non sottovalutare la loro importanza. Allo stesso modo altri personaggi riescono a tornare loro stessi grazie a questo luogo magico.

DOLORI AFFINI
Il disagio iniziale di Mary viene amplificato dalla freddezza dello zio Craven, che dopo la morte della moglie è diventato scostante e burbero. Minimizza il contatto con tutto e tutti. Non si cura mai di nessuno. Vive in una magione vasta ma quasi vuota, dalla quale si allontana regolarmente, preferendo i suoi viaggi d’affari: è un uomo in fuga dal passato e dal dolore. Ha trascurato il giardino segreto, che si è impoverito al pari del suo spirito. La servitù ha dovuto adattarsi a nuove regole: mai fare nulla che possa disturbarlo, mai fargli vedere quello che non vuole vedere. In realtà c’è un lato gentile in lui, di cui Mary si accorge in fretta.
Poi c’è Colin, il figlio di Craven, rinnegato dal suo stesso genitore. La malattia lo ha reso nervoso, irritabile e solo. È vissuto lontano da tutti, dal mondo e da una vita normale. Mary lo guarda e ci vede il riflesso della vecchia sé stessa; scorge un bambino così spocchioso e viziato da convincersi di avere il mondo ai suoi piedi. Nonostante il suo essere malaticcio e debole, Colin crede davvero di avere il potere di comandare tutto e tutti. Allo stesso tempo, tuttavia, è consapevole che morirà e vive come se fosse già spacciato. Ma in fondo tutto quel che desidera è un po’ di compagnia, qualcuno che si accorga di lui e riconosca la sua esistenza. Mary lo capisce appena lo guarda negli occhi, ecco perché rivela del giardino segreto anche a lui. A furia di godere della sua compagnia, Colin comincia a sentirsi più vivo e a credere nella magia con cui Dickon sembra attirare a sé gli animali.
Mary non è soltanto simile al giardino segreto. In un certo senso, lo è anche allo zio Craven e a Colin. Il loro carattere è frutto di gravi perdite personali e traumi che li hanno segnati. Per buona parte della storia, danno ad altri la colpa del loro dolore. Si considerano le vittime assolute, senza riconoscere i lati peggiori del loro carattere. Mary è la prima a capire, dopo un lungo percorso di redenzione, che si è sbagliata. Le disgrazie capitano nella vita e non le puoi prevedere. Cercare un capro espiatorio non è mai la soluzione per alleviare il tuo dolore, perché ne togli a te per aggiungerlo ad altri, e alla fine è peggio. Nemmeno mettere sottochiave i ricordi più belli e fingere che le cose non siano mai esistite è la soluzione. Craven non può dare a Colin la colpa di quanto successo a sua moglie al punto da negare la sua esistenza; allo stesso modo lui non può chiudersi nel vittimismo e basta, non può rinunciare così facilmente alla voglia di vivere e usare la malattia come uno strumento per impietosire gli altri.
Un punto in comune c’è anche tra Mary e il pettirosso con cui il giardiniere conversa. Entrambi sono soli, separati dalle proprie famiglie. Inoltre il pettirosso simboleggia la gioia, quella che Mary ritroverà poco a poco e farà ritrovare agli altri. Una gioia che si cela nell’armonia con la natura, come insegna Dickon. Non una natura qualsiasi: quella della brughiera inglese, fredda e desolata solo all’apparenza, ma brulicante di vita se si è disposti a conoscerla meglio.


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