DI ELODIE VUILLERMIN
Prima di tutto è doveroso un ringraziamento all’Onorevole e Augusto Direttore, Capitano di questa nave chiamata Mercuzio and Friends: il mio caro amico Alberto Grometto. Lo ringrazio per esserci sempre per me e per tutti i suoi compari in generale, per l’impegno che ci mette in tutto quello che fa e per avermi accolta, mesi fa, in questo web magazine che è ormai diventato una terza casa per me (la prima è in Valle d’Aosta, la seconda è la Holden). Ma soprattutto, un grazie a lui per avermi fatto riscoprire le emozioni del grande schermo, il piacere di tornare al cinema, cosa che avevo smesso di fare anni e anni fa ma nella cui bellezza lui mi ha restituito fiducia tutte le volte che scendevo a Torino.
Ed è infatti merito di Albertone se ho potuto godere di capolavori come questo che vado ora ad analizzare: L’ultima volta che siamo stati bambini, tratto dal libro di Fabio Bartolomei. Alla regia, Claudio Bisio, ed è la sua prima esperienza in tal senso. Un debutto magistrale da parte di chi finora era noto come un bravissimo attore, un comico affermato e di talento. Ha dimostrato che, quando non fa ridere il suo pubblico, può strapparti qualche lacrima. Come appunto è successo a me, verso la fine di questo film.
LA FORZA DEI FANCIULLI
I protagonisti sono quattro ragazzini, di cui uno ebreo (Riccardo), legati da un patto di sputo e da un’amicizia senza confini. Quando Riccardo viene deportato, la reazione dei suoi tre amici è immediata: c’è sicuramente un malinteso, andiamo a cercarlo e liberiamolo.
I bambini sono così: nella loro fantasia tutto è possibile. Non sanno cosa sia davvero la guerra, vi si approcciano come se fosse un gioco anche quando provano a prenderla sul serio. Seppur nel loro piccolo, riescono a sentirsi degli eroi. Si immaginano di poter davvero abbattere degli aerei a colpi di fionda e di poter davvero liberare un bambino ebreo da un campo di concentramento con una fotografia. Per loro non esistono differenze. Se hanno pregiudizi, è perché sono stati gli adulti a contaminarli con i loro pensieri.
Questo è il messaggio del film: la contaminazione. Si parla di ingenuità spezzata, di innocenza perduta, di una consapevolezza arrivata troppo tardi. E in un certo senso è meglio così. Se avessero capito fin da subito cosa significava essere un Balilla e l’alleanza con la Germania, quei bambini avrebbero sofferto di più.
La fanciullezza è quell’età che molti ricordano a volte con gioia, a volte con amarezza. Quante volte abbiamo sentito dire “eh, quand’ero bambino io era un’altra cosa” o “era meglio quand’ero piccolo”? I bambini sono quella fase della vita che non andrebbe mai abbandonata, neanche una volta cresciuti. E invece ci insegnano a crescere troppo in fretta, diventando così troppi cinici e poco sognatori. Beati sono stati i protagonisti a restare ancora bambini finché hanno potuto, perché solo così hanno saputo creare un’amicizia che non vede confini di razza, vivere senza accusare troppo il peso dei grandi problemi, credere nell’impossibile. Mentre molti adulti al giorno d’oggi si lasciano fagocitare dal pessimismo. Si lamentano della cruda realtà senza fare nulla per cambiarla. Rinunciano ai propri sogni prima ancora di aver cominciato a lottare. Si tirano indietro alle prime difficoltà, convinti che le sfide da affrontare siano troppo grandi.
Nutrite il fanciullo che c’è in voi. Siate come i protagonisti. Coraggiosi nell’incoscienza. Forti nonostante l’ingenuità. Siate consapevoli dei cambiamenti avvenuti attorno a voi, come ogni adulto, ma al tempo stesso determinati a credere nei vostri sogni, come fanciulli. Perché i bambini hanno l’immaginazione, la forza di buttarsi a capofitto nelle sfide, l’istinto di agire senza curarsi della portata del problema. Basta che lo risolvano, e prendono l’iniziativa. E si lanciano spediti sull’obiettivo, disposti a tutto pur di raggiungerlo.
Anche se la tragica e cruda realtà ha la meglio, resta innegabile e indelebile il coraggio dei bambini, capaci di lanciarsi in un’avventura a cui gli adulti non avrebbero mai pensato, perché frenati da mille preconcetti e responsabilità. Noncuranti della guerra, dei rischi e di tutto il resto sono andati avanti. E questo va premiato, poco importa come va a finire.
PERSONAGGI FANTASTICI
Si parla sì di bambini, in questo film, ma bambini che seppur piccoli si stanno avvicinando alle crudeltà dei grandi, come Pin ne Il sentiero dei nidi di ragno. C’è Cosimo, segnato dall’avere un disertore come padre, al punto che pensa: forse sarebbe stato meglio non avere un genitore piuttosto che averlo e perderlo d’un tratto. Poi c’è Vanda, che dietro la sua spigliatezza nasconde il desiderio di avere una famiglia e la paura di non trovare quella giusta per lei. Italo fa ridere quando cerca ogni volta di fare il comandante e nessuno lo ascolta, poi dopo si capisce che in fondo vuole solo essere amato, vuole che gli altri si accorgano di lui e non solo di suo fratello. Infine Riccardo sa cosa significa essere ebreo e quale peso comporta avere quella stella di David cucita sui vestiti.
La mentalità di questo gruppetto oscilla tra beata ingenuità e maturità mentale. Per esempio passano dal convincersi che un semplice disegno su carta sia una mappa per trovare Riccardo a capire la povertà in cui versano i villaggi contadini a causa della guerra.
Interessante la sottotrama di Vittorio, fratello di Italo e fiero soldato, e di suor Agnese, la figura genitoriale che Vanda ha sempre sognato. Stanno sempre a battibeccare e lanciarsi frecciatine, ma finiscono per imparare molto l’uno dall’altra. Lui comprende che la guerra non crea eroi e che la violenza non è il modo per trasformare il fratello minore in un vero uomo. Lei si rende conto, invece, che il Dio che tanto prega ha dei limiti e non basta avere un po’ di fede a spiegare la crudeltà della guerra mondiale, delle deportazioni e dei divieti.
Lodevole anche l’interpretazione, seppur breve, di Bisio, ben calato nel suo ruolo di padre un po’ ridicolo ma al tempo stesso pretenzioso.
DALLE RISATE AL PIANTO
Tante sono le scene comiche, dai bambini che rubano un gallo inseguiti dalla “morte” con la falce in mano alla notte in tenda per sfuggire a uno stregone, dalla cottura del verme nell’olio (spacciato per guanciale) al rapporto cane e gatto tra Vittorio e suor Agnese. Non ricordo di aver mai riso così tanto per un film come nei tre quarti di questa perla.
Poi arriva quella scena, la conclusione. Ed è qui che l’ilarità svanisce. Il finale è un pugno nello stomaco che ti perfora e ti fa sanguinare. Una voragine si apre dentro di te, come una ferita che non si rimargina e che, per quanto provi a ricucire, non si chiuderà mai. Questo è il vero senso dell’olocausto, racchiuso negli sguardi finali di alcuni di quei bambini, ormai anziani. Ti senti fragile, come denudato, davanti ai loro occhi che guardano in camera. C’è tutta una serie di perché senza risposta, in quegli occhi. E tu non puoi che sentirti trafitto nell’anima e piangere, mentre quegli sguardi ti implorano di non scordare. Perché il male si nutre dell’oblio e non c’è arma migliore per combatterlo della memoria.
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