DI GIOSUE’ TEDESCHI
La terra continua, lentamente, a girare. E tutti vivono nei sogni.
Questo libro racconta la storia di come un ragazzino di 15 anni, Tamura Kafka, diventi adulto. Se volessimo dire della trama parla di un ragazzo che scappa di casa il giorno del suo quindicesimo compleanno e, dopo aver passato un po’ di tempo in una biblioteca, ci ritorna.
Questo libro è stato per me una masterclass di scrittura. Praticamente una lezione frontale. Beh, quasi. Ovviamente non scrivo come Murakami, ma se mi ci mettessi davvero a imparare inizierei senz’altro da qui. Penso che il capitolo 12 in particolare illustri perfettamente la tecnica narrativa di Murakami. Qualcosa si può anche intuire dalla lettera che scrive Kafka, penso sia perché mentre lavorava a quella parte Murakami ha provato a semplificare il suo modo di parlare per adattarlo a quello di un quindicenne e qualcosa della tecnica è trapelato.
La storia è raccontata tramite un ponderato alternarsi di linee narrative, che sono tre: Kafka che scappa di casa, Nakata che parla con i gatti, e l’episodio dei bambini svenuti sulla montagna. Com’è ovvio mi aspettavo che queste tre narrazioni fossero collegate tra loro, anche se non avevo idea di come potessero esserlo. Così sono rimasto confuso per tutta la prima metà del libro, pensando addirittura che si trattasse di tre momenti separati nel tempo da anni. Così all’inizio ho rinunciato a cercare di capire tutto e intanto mi son goduto la semplicità con cui descrive le scene di sesso.
Diventare completamente parte di te mentre sono me stessa è la cosa più naturale che esista e una volta che ci fai l’abitudine avviene spontaneamente. È come volare nel cielo.
C’è questa cosa nei libri di Murakami, che leggendoli anche se ci sono trame diverse sembra che parlino della stessa cosa. Intuisci che sono collegate, intuisci il parallelismo, senti che sono quasi la stessa cosa, che un elemento ritorna. Come se fosse la stessa storia raccontata tre volte in modi diversi. E mentre questo ti dà un motivo per andare avanti allo stesso tempo confonde e non capisci bene dove voglia andare a parare.
Con questo libro ho capito che gli occhi sono la cosa più spaventosa.
Perché non puoi non essere di fronte a degli occhi che ti guardano. Non puoi nemmeno scegliere cosa essere di fronte a quegli occhi. Gli occhi che ti guardano decidono te, per te. Al tuo posto. Vedano quello che vogliono, loro vedono la verità, per quanto possa essere strana e assurda persino a loro stessi. Non crederanno mai di aver visto qualcosa che non c’è. Perché sono occhi, e vedendo definiscono chiunque gli capiti a tiro.
Nakata, il secondo personaggio più importante dopo Kafka, nonché l’assassino dell’assassino di gatti di Nakano, ha visto qualcosa. Qualcosa che a qualche livello di realtà era vero, reale e tangibile. Però dobbiamo chiederci: su quale livello, o quali livelli, viveva Nakata? Quanti strati di realtà vedevano i suoi occhi? Murakami non ci dà una risposta. Almeno non nel senso tradizionale della parola.
Poi a un tratto, da un capitolo all’altro, tutto ha improvvisamente senso. Tutto si chiarisce e le storie che sembravano scollegate, o di tempi diversi, si uniscono in un’unica narrazione, separata nello spazio e non nel tempo. E anche lì lo spazio va, per vie misteriose, rapidamente restringendosi.
C’è un continuo scambio tra naturale e sovrannaturale in tutte le storie di Murakami. Però non si tratta mai di fantascienza, tutte le cose inspiegabili hanno sempre uno scopo specifico in Murakami. Il mondo sovrannaturale, alla fine, sono le tenebre del nostro spirito.
Delle molte trame che porta avanti a volte una è più interessante dell’altra e vorrei leggere solo quella, a volte quella che mi interessa sta a un capitolo di distanza e devo aspettare per tornarci. Ma quando sono arrivato sono ormai preso da quella che stavo leggendo. Lo so che non si dovrebbero fare preferenze di trama, ma che posso farci. Non è certo colpa mia se scrive in un modo così coinvolgente da lasciarti sempre con la voglia di saperne di più.
Come il maestro di Eugen Herrigel in Lo zen e il tiro con l’arco, Murakami si pone dietro la voce del narratore conservando gelosamente tutte le risposte. Invece di lanciartele ti invita a cercare alla cieca la biglia rossa nel sacchetto di biglie bianche. E solo quando sei stremato e ammetti che non riesci a trovarla, ti confessa che non c’è mai stata una biglia rossa tra le biglie bianche di quel sacchetto. La biglia che cerchi pende dalla collana che porta.
All’improvviso mi sono chiesto: ma questa persona che si chiama Nakata, che cos’è?
Scrivere di vivere non è un gioco da ragazzi.
In maniera inevitabile e comunque inaspettata tante cose iniziano a convergere, sempre più in fretta, verso un’unica direzione. Senza lasciar perdere un certo umorismo, ricco di richiami. Prima Johnnie Walker, e poi il Colonnello Sanders in persona compaiono in questa storia. Ma che succede?
Che ci fanno il ragazzo del whisky e il vecchio del pollo fritto in un romanzo di formazione?
Murakami qui ci viene incontro e rende chiaro che i suoi personaggi non esistono. Sono solo dei segnaposti per qualcos’altro di cui non può parlare in maniera diretta. Cosa sia questo qualcosa d’altro non è facile da capire. Ci sono svariati simbolismi e strati lungo tutta la storia che si intrecciano tra loro rendendo tutto poco chiaro. In parole povere: il Colonnello Sanders è un concetto.
Ma in primo luogo non credo che volesse farsi capire scrivendo questo libro. Forse questo è uno di quei libri che hai bisogno di scrivere per te stesso, degli altri e della loro opinione ti importa poco.
Se posso dare un consiglio, a te che magari leggerai questo libro, fai attenzione alle cravatte. Non posso dirti altro se non questo: fai attenzione alle cravatte.
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