Cosa resta del Paradiso?

DI EDOARDO VALENTE

“Sembra di stare in paradiso…”

“Questo è il mio piccolo paradiso…”

“Quel posto è un paradiso terrestre…”

Ci sono alcune espressioni che utilizziamo abitualmente nella lingua parlata che, in qualche modo, hanno a che fare con l’idea di paradiso.

Sempre di più, inoltre, negli ultimi anni è presente nelle persone la tendenza a voler creare dei “paradisi personali”, delle condizioni di momentanea serenità e spensieratezza, per sopravvivere a quell’inferno che è la vita quotidiana.

 (Immagine che internet mi ha proposto in seguito alla ricerca “paradiso”)

Eppure, l’idea che ne abbiamo oggi è ridotta, in miniatura, lontana dalla grandiosità che l’avvolgeva in tempi ormai lontani.

Come ai tempi di Dante, in cui il Paradiso era quel luogo ben definito, riservato a chi in vita non aveva sporcato la propria anima con il peccato. 

Se oggi il Paradiso è come una chiusura rispetto al mondo, quel Paradiso appare, invece, come una grande apertura, un luogo immenso, pieno di eterna luce.

Certo, sono cambiate molte cose da allora, una fra tutte ce l’aveva annunciata Nietzsche alla fine dell’Ottocento: la morte di Dio. (Non volevo citarla, ma non posso non farlo).

Se Dio è morto, viene da sé che alcun Paradiso (per noi occidentali, per noi cristiani) può sussistere. L’ampiezza del nostro orizzonte, dunque, si restringe: il Paradiso viene relegato nei confini terrestri, umani, mortali.

E già Baudelaire parlava di quelli che sono i nostri attuali paradisi: i “paradisi artificiali”.

Alcol, droghe – questo già ai tempi del poeta parigino -, oggi anche internet.

Cos’altro si può fare, dopo una giornata stressante, dopo una settimana logorante, se non chiudersi in questo artificio?

Di così tanto abbiamo ridotto i confini del nostro mondo!

Per questo mi chiedo: cosa resta del Paradiso?

A causa di questa nostra riduzione materiale dei paradisi, e della sempre maggiore assenza di fede nelle persone, anche il Paradiso dantesco è stato messo da parte.

Mi vengono in mente diversi esempi in cui ciò accade.

Primo fra tutti a scuola, l’unico luogo in cui Dante viene insegnato a chiunque, ci si sofferma molto sull’Inferno, e sempre meno sul Paradiso.

Anche la recitazione si comporta così nei suoi confronti. Il grande Vittorio Gassman, che molto ci ha deliziati con le sue letture dei canti della Divina Commedia, del Paradiso ha letto solamente il canto terzo e il trentatreesimo.

Questa tendenza arriva anche da altre parti del mondo, e in altre forme espressive.

Il mangaka Go Nagai (noto soprattutto per Mazinga Z e Devilman) ha realizzato una trasposizione fumettistica del poema dantesco. Ma in quest’opera l’Inferno occupa i due terzi, e di quel terzo restante il Purgatorio ne occupa a sua volta due terzi, lasciando al Paradiso l’ultimissima parte.

Insomma: del Paradiso non sappiamo cosa farcene.

Eppure, non è certo un caso se la Divina Commedia è tripartita, e a ognuna delle tre cantiche è dedicato lo stesso numero di canti.

Ignorare il Paradiso significa ignorare buona parte del poema.

Il problema, per noi, di quest’ultima cantica è che viene collocata, appunto, oltre i confini dell’umano, oltre i confini della razionalità.

Dante ci arriva dopo un percorso imprescindibile.

Potremmo dire che il viaggio dantesco che riusciamo a comprendere meglio si interrompe con la fine del canto XXVII del Purgatorio.

Qui Virgilio pronuncia parole di rara bellezza:

“per ch’io te sovra te corono e mitrio.”

Dante è arrivato alla fine di un percorso, e noi con lui.

Il significato di queste parole è importantissimo, fondamentale: “ora sei padrone di te stesso”.

Non molto tempo dopo aver pronunciato queste parole, Virgilio scompare.

È stato la guida di Dante, ha rappresentato la Ragione, ma non può più proseguire, poiché il Paradiso è il luogo della Fede, personificata da Beatrice.

È la sfida della beatitudine.

Quello che Dante ci chiede di fare è un “salto della fede”, come secoli dopo lo avrebbe inteso Kierkegaard. Il filosofo danese associa questo salto al gesto di Abramo, che per dimostrare a Dio la propria fede sarebbe disposto a uccidere il suo stesso figlio, Isacco.

Nell’irrazionalità di questo gesto si trova la fede.

(Søren Kierkegaard)

L’idea del salto implica, dunque, uno spostamento in avanti, in alto, verso una dimensione diversa e superiore.

Per questo Dante sottolinea, nel primo canto del Paradiso:

“Trasumanar significar per verba

non si poria …”

Quello che avviene è il “trasumanare”, superare la condizione umana per accedere a quella della beatitudine, un passo più vicini alla divinità.

Questo ci è lontano.

Perciò dicevo che per noi il viaggio umanamente comprensibile di Dante finisce sulle soglie del Paradiso terrestre.

Ma tutto ciò che viene dopo, seppur lontano, è forse insignificante?

La lingua che Dante usa nella terza cantica è splendida, ricca, piena di luce come lo è il luogo che sta visitando. E le anime che incontra gli sorridono, risplendono, e sono felici di accogliere i suoi dubbi, di rispondergli.

E, soprattutto, in Paradiso c’è Beatrice.

Soprattutto c’è il suo sguardo, il suo sorriso, la sua lucentezza.

Gli innumerevoli modi che il Poeta trova per parlare di lei sono ogni volta sempre più sorprendenti, sempre più adoranti.

A questo punto mi chiedo: forse è qui che noi possiamo ancora trovare, oggi, un nostro paradiso che non sia artificiale. Nell’amore.

Nonostante poco ci appartengano le varie riflessioni teologiche che Dante affronta attraverso i Nove Cieli, qualcosa comunque ci resta. Lo slancio verso l’universalità lo si ritrova qui.

Mi torna di nuovo in mente Kierkegaard, quando ha scritto:

“Non importa sapere che Dio esiste; importa sapere che Dio è amore.”

E noi, che viviamo nel XXI secolo, che siamo figli della morte di Dio, a quest’ultimo possiamo anche non credere, ma siamo ancora in grado di credere all’amore.

Se si prendono le tre virtù teologali –  Fede, Speranza, Carità – queste possono essere valide anche al di fuori di una visione strettamente religiosa, se è una visione che non ci piace.

L’amore richiede Fede, fiducia, affidarsi agli altri.

L’amore richiede Speranza, confidare nel futuro, senza sospetti.

L’amore richiede Carità, che è essa stessa amore per gli altri.

Ora, non so voi, ma penso che siano poche quelle condizioni di vita che noi tendiamo a chiamare “paradiso” come quelle in cui si è circondati dall’amore.

Questo Dante ce lo mostra, perché tutto in Paradiso risplende d’amore. Ed è una conquista, qualcosa che si raggiunge solo se prima si è “padroni di se stessi”.

Il Sommo Poeta, grazie all’amore che prova per Beatrice, alla fine riesce a salvarsi, a elevarsi fino alla visione di Dio, che come sappiamo è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

Ma prima di arrivare alla fine, Dante vede Dio, e quello che non dobbiamo dimenticare è che in questa visione gli appare il volto umano.

Quella circulazion che sì concetta

pareva in te come lume reflesso,

da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta de la nostra effige:

per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

Fissando lo sguardo nella Trinità, Dante scorge “la nostra effige”, l’immagine dell’umanità.

Sembra un po’ troppo romantico dire che in realtà Dante non stava cercando di raggiungere Dio, ma l’Umano.

In realtà, non è tanto sbagliato.

Dio, in una precedente visione, viene così descritto:

Nel suo profondo vidi che s’interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l’universo si squaderna

Torna l’amore, che è il filo che tiene insieme quel volume dentro al quale è contenuta ogni cosa che esiste, e che si “squaderna” per tutto l’universo.

Di conseguenza, vedere tutto ciò che, nelle sue molteplici forme, esiste nell’universo, significa vedere Dio.

Per questo, quello di Dante è un percorso che non può prescindere dalle tappe precedenti.

Or questi, che da l’infima lacuna

de l’universo infin qui ha vedute

le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute

tanto, che possa con li occhi levarsi

più alto verso l’ultima salute.

Il Poeta, dall’”infima lacuna”, quindi dall’Inferno più profondo, è arrivato fino all’Empireo, al cospetto di Maria Vergine, e non aspetta altro se non poter infine volgere lo sguardo verso Dio.

È San Bernardo che intercede per lui, ma quando ottiene il consenso Dante, per la prima volta, non aspetta che gli si dica cosa fare: è sicuro, ha capito.

E questa visione divina gli è concessa proprio perché, in qualche modo, tutte le manifestazioni dell’umano (e quindi del divino) le ha già potute vedere.

Ora, soltanto ora non resta altro da fare, al Poeta, se non chiudere la sua opera e il suo viaggio con l’amore.

Da quando, diciottenne, gli apparve l’angelo dell’amore a dirgli che avrebbe governato il suo cuore; tramite lo sguardo di Beatrice, prima adorata, poi perduta; attraverso le pene infernali, le purificazioni purgatoriali; di nuovo insieme all’amata, irradiato dalla luce paradisiaca; infine mosso dalla più alta volontà esistente.

È una vita che, come quella di ognuno, in qualche modo, trova il proprio punto di arrivo in quello di partenza, poiché una stessa, inesauribile forza l’ha guidata.

Cosa ci resta del Paradiso?

L’amore.

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