DI LAURA PICCIONE
TW: violenza domestica, abusi sessuali e verbali
It ends with us, in italiano It ends with us: siamo noi a dire basta, è un libro pubblicato dalla scrittrice americana Colleen Hoover per la prima volta nel 2016, e che ha visto un improvviso decollo di fama intorno al 2021, grazie alla nicchia di persone che condividono le loro letture su TikTok. In seguito all’improvviso successo, il libro è stato adattato a film, è uscito ufficialmente il 9 agosto ma nelle sale italiane è disponibile dal 21 agosto (non che vi stia incoraggiando ad andarlo a vedere).

I problemi in questione sono tanti, affondano già le radici in un libro che non avrebbe mai dovuto vedere la luce del sole perché pieno come una zampogna di messaggi sbagliati, nonostante abbia le pretese di fare l’opposto. Colleen Hoover oggi ha 44 anni, ha lavorato in passato sia come assistente sociale che come insegnante. Di libri, purtroppo, Colleen ne ha pubblicati ben ventisei: menziono brevemente solo l’esistenza di un altro romanzo, Slammed. Tutto ciò che sappiamo dell’amore, dove viene romanticizzata l’ennesima relazione tra un professore e una studentessa liceale. Non mi dilungo sul perché questo sia problematico da cima a fondo.
Nonostante Colleen abbia scritto It ends with us a trent’anni suonati e oltre, la scrittura è oggettivamente atroce e sembra non aver mai superato lo stadio di una quattordicenne che pubblica per la prima volta fanfiction su Wattpad. La trama è goffa nel migliore dei casi e pericolosa nel peggiore: per dichiarazione della stessa Colleen prende ispirazione dalla sua esperienza personale, dopo aver vissuto un’infanzia dove era costretta a guardare il padre picchiare sua madre. Posso empatizzare con il suo trauma, ma la scrittura del libro, che in un modo o nell’altro finisce per romanticizzare proprio questo tema, è imperdonabile.
La protagonista del racconto è Lily Blossom Bloom, e già qui il nome riecheggia delle Destiny, Hope, Sunshine del già citato Wattpad: una giovane ragazza che si trasferisce a Boston e apre il negozio dei suoi sogni che, ironia della sorte, vende proprio fiori. Durante un incontro del tutto casuale sul tetto di un palazzo, incontra Ryle Kincaid, un neurochirurgo affermato: tra i due inizia una relazione passionale da pacchetto young-adult completo tutto rose e fiori (pun intended, più o meno). Dopo sei mesi di frequentazione Lily e Ryle non solo vanno a vivere insieme, addirittura in un momento di spontaneità sclerotica decidono di sposarsi su due piedi. Insomma, ogni cosa sembra andare per il verso giusto, finchè un giorno un incidente da nulla fa perdere le staffe a Ryle, il quale, preso dalla rabbia, si scaglia per la prima volta contro Lily, spintonandola a terra: una volta che l’incantesimo si rompe, inizia a trasparire la vera natura violenta di Ryle. Il film mostra principalmente la sua aggressività dal punto di vista fisico, ma nel libro è altrettanto abusivo dal punto di vista verbale: attacca Lily ripetutamente accusandola di infedeltà, di averlo tradito con il suo primo amore, Atlas, che ha incontrato dopo tanti anni a Boston, cosa che però non è accaduta.
Atlas è il preparato in busta del classico personaggio maschile bravo e buono che si oppone a quello negativo. Esiste anche un sequel al libro, It stars with us, in cui inizia a frequentarsi con Lily, con momenti altrettanto aberranti in cui Atlas stesso sembra provare empatia e quasi dispiacere nei confronti di Ryle. Lily ha divorziato, sta per andare a vivere con lui, e segue questo dialogo dal punto di vista di Atlas:
Marshall lancia un’occhiata alla macchina. «Scusa se Ryle non scende. Tutto questo è ancora un po’ strano per lui. Lei che viene a vivere con te». Quando Marshall dice lei, non si riferisce a Lily, ma a Emerson. Annuisco, perché capisco benissimo. «Non c’è problema. Posso immaginare quanto sia difficile per lui».
In tutto questo, una delle prime frasi che Ryle pronuncia a Lily durante il loro incontro sul tetto, un preambolo sinistro al lato violento che dimostrerà più in avanti, sembra ancora una volta mettere le mani avanti e in qualche modo redimerlo in anticipo:
«Le persone cattive non esistono. Siamo semplicemente persone che a volte fanno cose cattive». Apro la bocca per rispondere, ma le sue parole mi zittiscono. Siamo semplicemente persone che a volte fanno cose cattive. Suppongo sia vero, in un certo senso. Nessuno è esclusivamente buono o cattivo. Alcuni sono soltanto costretti a impegnarsi di più per soffocare la cattiveria.
Perdonatemi il francesismo, ma non esiste una stronzata, una banalizzazione più grande per giustificare le azioni di quel gran pezzo di merda che è Ryle.

Nella versione cinematografica vengono persi due aspetti importanti, quelli dell’età e della stabilità finanziaria: nel libro Lily ha appena ventitré anni e Ryle ne ha trenta, nel film l’età di Lily non viene specificata e l’attrice Blake Lively sicuramente ne dà una versione più matura, che probabilmente si aggira sulla trentina; inoltre nel film Lily fa sfoggio di numerosi outfit diversi e abiti dall’aspetto costoso, che lasciano presupporre una certa agiatezza economica. In questo modo viene meno una sfumatura che nel libro (forse) è intenzionale, ovvero quella di una relazione dai rapporti di potere fortemente sbilanciati a favore di Ryle: non solo è un uomo più grande di Lily, rispettivamente più giovane e influenzabile, ma è anche affermato nella sua carriera da neurochirurgo, socialmente e economicamente parlando. Questo fattore è importante dal momento che la Lily del libro, come molte altre vittime, si trova in una condizione di vulnerabilità e, una volta sposata, la decisione di lasciare Ryle diventa molto più complessa perché significherebbe trovarsi anche in un’eventuale condizione di difficoltà finanziaria. Ora che Lily si trova in una situazione di abusi, non può fare altro che tracciare un triste parallelo con la sua infanzia: quando era piccola, infatti, assisteva frequentemente alle violenze che il suo stesso padre infliggeva alla madre (come la stessa Colleen).
Dopo l’ennesimo scoppio di violenza in cui Ryle cerca di stuprare la moglie, Lily si reca all’ospedale e durante la visita le comunicano che è incinta. Un cambio nella trasposizione cinematografica che grazie al cielo migliora la situazione (nei limiti del possibile) riguarda il finale: nel libro Lily decide, dopo aver partorito, di chiedere il divorzio a Ryle, ma nonostante tutto, di permettergli di essere parte della vita di sua figlia. Per giustificare questa scelta Lily ricorda che, nonostante gli abusi sopportati da sua madre, suo padre non aveva mai alzato un dito su di lei.
Mio padre era violento unicamente con mia madre. Ci sono molti uomini – e persino donne – che picchiano la moglie o il marito senza mai perdere le staffe con nessun altro.
A volte i genitori devono superare le divergenze e dimostrare maturità per il bene dei figli. È esattamente ciò che stiamo facendo: imparare a gestire la situazione prima di accogliere il bambino nella nostra vita.
Non tutti gli uomini violenti seguono lo stesso pattern, non tutti gli uomini violenti picchiano “solo” la partner risparmiando i figli: il libro manca di riconoscere le sfumature di situazioni così spaventose e abusive.
Aggiungo una parentesi, perché c’è un altro scambio di battute che mi fa uscire dai gangheri, che mette in mezzo la solita retorica trita e ritrita del “potrebbe essere tua sorella/madre”: per motivare la richiesta di divorzio, Lily chiede a Ryle cosa risponderebbe a sua figlia se un giorno venisse da lui a raccontargli che è stata picchiata o che il suo fidanzato ha cercato di stuprarla.
Perché ancora una volta, quando si tratta di violenza sulle donne, non bisogna educare al rispetto della donna come persona autonoma in sé, deve essere comunque oggettificata e resa l’“x di”: si riesce a coinvolgere l’uomo solo se ha un legame diretto con la donna in questione, altrimenti sia mai che si predichi la non violenza a prescindere.
Come preannunciavo prima, il film prende fortunatamente un’altra direzione nel finale: Lily taglia completamente fuori Ryle sia dalla sua vita che da quella di sua figlia, mettendo fine così al ciclo di violenza.

Il film cerca di fare quel che può con un tema serio che però non viene davvero preso sul serio come dovrebbe. Già in seguito allo scoppio di fama del libro, Colleen aveva preso delle scelte di marketing senz’altro discutibili, promuovendo una linea di smalti (sì, avete letto bene) con delle tinte che presumibilmente avrebbero dovuto ricordare i fiori di Lily, così come un libro da colorare.
I problemi purtroppo non si limitano alla trama e alla regia del film, ma vanno oltre. Iniziando dal trailer, guardandolo senza essere a conoscenza della trama avrete l’impressione di trovarvi davanti ad una semplice rom-com senza troppe pretese, sdolcinata e prevedibile: non c’è un trigger warning all’inizio né si intuisce quali temi andranno affrontati. Immaginate di entrare in sala, aspettarvi una commediola a cuor leggero e trovarvi davanti ad un prodotto completamente diverso, che risveglia in voi traumi o ricordi di esperienze passate che non avreste voluto rivivere in maniera così brusca e inaspettata.

I vari press tour e red carpet che si sono svolti non hanno aiutato a correggere l’impressione di un film romantico spensierato. Il cast sembra essersi completamente diviso in due gruppi: Blake Lively (Lily), Isabela Ferrer (versione più giovane di Lily), Brandon Sklenar (Atlas) e la stessa autrice Colleen da un lato; Justin Baldoni (Ryle) da un altro. Paradossalmente, Justin Baldoni che recita la parte del marito violento, è stato fino ad ora l’unico ad interessarsi al vero tema del film. Nelle sue interviste, in cui è sempre solo, è stato l’unico ad affrontare l’argomento apertamente, impegnandosi a sottolineare che molto spesso la prima domanda che viene in mente quando si parla di violenza domestica è “perché lei è rimasta e non è andata via?” quando invece il focus dovrebbe spostarsi dal colpevolizzare la donna a riconoscere il crimine commesso dall’uomo.
Il resto del cast sembra mettercela tutta per dare l’impressione che il film riguardi altro: i red carpet e le interviste sono diventati un’occasione per Blake Lively di far sfoggio dei suoi vestiti a tema floreale come se stesse percorrendo una sfilata (ad uno dei red carpet ha anche sfoggiato un vestito indossato da Britney Spears nel 2002); Blake ne ha approfittato per sponsorizzare anche la sua linea di cocktail in lattina Betty Booze e simultaneamente la nuova collezione, sempre lanciata da lei, di prodotti per la cura dei capelli. Alle domande più “serie” ha risposto spesso in maniera superficiale: tra le frasi più infelici spicca una clip in cui promuove l’uscita del film nei cinema con tono spensierato incoraggiando ad andare a guardarlo con un’amica e ad indossare qualcosa a tema floreale (grab your friend and wear your florals). Ancora una volta il film viene banalizzato al livello di una rom com sempliciotta e niente più.
Come se non bastasse, il terzo film di Deadpool, Deadpool & Wolverine, è uscito nelle sale qualche settimana prima di It ends with us, e Blake essendo la moglie di Ryan Reynolds, l’attore di Deadpool, ha pensato che invitare sul red carpet di It ends with us Ryan e Hugh Jackman fosse un’idea del tutto adeguata all’atmosfera. Ma le goffe invasioni del marito non si sono fermate al red carpet, perché in un video è intento a intervistare Brandon Sklenar, l’interprete di Atlas, giocando la parte del marito geloso che mostra in primo piano una foto di Brandon e Blake insieme: rivolgendogli un sorrisetto, gli chiede se c’è qualcosa di cui dovrebbe preoccuparsi.


L’impressione è quella di assistere ad un terribile tentativo di ricreare un hype mediatico simile a quello dell’anno scorso per Barbenheimer, ma il risultato è solo inopportuno e di cattivo gusto: chi ha pensato che fosse appropriato far fare la parte del marito sospettoso e possessivo, anche solo per scherzo, a Ryan in un film che tratta precisamente di un uomo violento, aggressivo e prepotente?
Insomma, il libro fa acqua da tutte le parti e carta è stata sprecata per stamparlo. Il film ci prova a salvare il salvabile, ma fallisce a sua volta. La morale della favola è la solita retorica del “se vuoi puoi” (mettere fine all’abuso) che ignora tutte le sfaccettature presenti in una situazione così complessa: le donne in situazioni del genere molto spesso non possono permettersi di abbandonare tutto e tutti perché magari sono sole e non hanno supporti né economici né affettivi; oppure se denunciano il supporto fornito non è adeguato o, ancora peggio, non vengono credute.

