La Brutta Bellezza da diverse angolazioni: The Elephant Man Vs The Substance Vs A Different Man

DI ALBERTO GROMETTO

Da che mondo è mondo, si sa, ciò che è bello è bello e quel che è brutto è brutto. E quel che è brutto non piace, mentre quel che è bello piace. Ora la vera domanda che sorge spontanea è: cosa è bello e cosa è brutto e chi stabilisce cosa sia cosa?

La Bruttezza o la Bellezza non sono un valore quantificabile e scientificamente indagabile, non si tratta di matematica o equazioni, ma siamo sicuri siano però esclusivamente soggettive? Un minimo di soggettività ci sarà anche, però di norma tutti o quasi siamo d’accordo di fronte ad un bel viso oppure ad una qualche deformità fisica. Oppure no? Magari dipende da chi guarda e non da chi è guardato, ci avete mai pensato? Cosa rende brutto un brutto e bello un bello? E la bellezza è sempre bella? Non ci può essere un che di bello nel brutto? Magari non sempre essere brutti è brutto, magari è bello esser brutto ed è brutto esser bello, magari non esistono il Brutto e il Bello, ma sono solo brutte costruzioni mentali. Oppure son belle? Ah, è troppo complicato!

Di tutto questo complesso pippone, una frase rimane, ed è anche quella che ci guiderà nell’arco del nostro articolo: Magari dipende da chi guarda e non da chi è guardato. A questo giro analizzeremo la Bella Bruttezza e la Brutta Bellezza da angolazioni diverse, punti di vista differenti e prospettive dissimili e lo faremo attraverso la Settima Arte, come mio solito. Perché credo sinceramente che la Vita possa essere spiegata attraverso il Narrare: là dove non arriva la Vita, ci arriva l’Immaginazione, lo strumento attraverso cui i Narratori ristabiliscono l’ordine e infondono speranza che un Significato sia possibile. Da sempre io mi spiego la Vita col Cinema, il Teatro, le Storie.

Passeremo dunque in rassegna tre film, tre capolavori, tre perle d’altissimo Cinema a mio modo di vedere. E cercheremo di dare un senso a questa Bellezza così come a questa Bruttezza. Procediamo in ordine cronologico!

(Il Maestro Lynch, eterno e immortale!, durante le riprese di «The Elephant Man»)

Il primo titolo è un grandissimo classicone cult che ha fatto la Storia, targato 1980, magistrale opera visiva e narrativa targata DAVID LYNCH. Compianto eroe cinefilo, il quale ha saputo attraverso la sua sconcertante e insieme assurda e meravigliosa follia ridisegnare i tracciati stessi del Cinema! Questo è considerato il film che lo ha consacrato, il primo per il quale ottenne una nomination ai Premi Oscar come Miglior Regista, la pellicola a seguito della quale tutti lo avrebbero chiamato “Maestro”. Nei decenni successivi avrebbe confezionato un’opera più fuori di testa dell’altra, ma in questo caso realizza un film più lineare di quelli a cui ci avrebbe abituati, anche se dentro vi son comunque tutte le caratteristiche lynchiane che avrebbero portato al conio del termine “lynchiano”: il senso del mistero, l’evocativa potenza di immagini e suoni e ancora il canto in onore del freak guardato dalla società e dal mondo con diffidenza e malignità, alla stregua di uno strambo da tenere lontano, anziché ammirato per come affronta la vita a dispetto delle dolorose difficoltà alle quali è stato costretto.

Ispirato alla stupefacente storia vera del deforme Joseph Merrick, vissuto nella bacchettona e snob e superficiale società inglese vittoriana tutta merletti e finezze, «THE ELEPHANT MAN» rappresenta un inno e insieme un’ode alla sofferenza del diverso, a come le apparenze non contano nulla e son nulla in confronto alla vera Umanità brutta o bella che sia, a come ciò che è davvero Bello non ha niente a che fare con la faccia che si ha. In un sontuoso e godurioso bianco e nero, quel che vediamo andare in scena è la parabola di un uomo che prima di ogni altra cosa è un uomo. Avrà una faccia orrida, un corpo menomato, un cranio e un viso deformi al punto da voler indossare un sacco bucato cucito ad un cappello così da coprirsi… ma rimane un essere umano. “L’Uomo Elefante”, così viene chiamato. Ed è tenuto prigioniero alla stregua di una bestiaccia animalesca pronta a doversi mostrare in un triste e squallido spettacolo di strada alla gente che vuole emozioni forti e rimanere scandalizzata, disgustata, orripilata. Ma lui è e rimane un essere umano, alla faccia di quello che possono pensare tutti gli altri. E verso la fine del film, in una delle scene più memorabili mai filmate, arriverà a gridarlo: «Io… non sono un elefante! Io non sono un animale, sono un essere umano! Un uomo… un uomo!». Elogio in maniera sperticata la sovrumana performance dell’umanissimo JOHN HURT, che ha reso quella pellicola e quel personaggio iconici.

Il film comincia quando ancora nulla sappiamo di lui, quando ancora non lo abbiamo visto parlare né emettere un suono articolato. Una sciagurata e sventurata bestia come lui, povero malcapitato, che ne può sapere delle parole? Verrà trovato dal dottor Frederick Treves, impersonato da uno dei miei interpreti preferiti in assoluto, un giovane ANTHONY HOPKINS, che infonde un calore impressionante ad un altro vero essere umano. Inizialmente tutti son convinti che non sappia né parlare né tantomeno pensare. Il dottore gli insegna qualche parola, nella speranza che egli possa ripeterle meccanicamente al suo superiore, onde convincerlo di non essere una causa persa. Ma poi arriva la sorpresa, sorprendente per noi come per tutti quanti: Joseph Merrick parla, eccome se parla!, ed è capace di pensieri di una sofisticata raffinatezza e una sensibile dolcezza e un’ineguagliabile profondità a dir poco disarmanti. La storia di Merrick dimostra come la gente ti guarda in faccia e, a seconda di che viso tu abbia, ti giudica. Se sei brutto, sarai anche stupido e incapace e “da buttare via”. Ma spesso è la gente che sarebbe “da buttare via”. E quando le vicende di Merrick diventeranno un caso nazionale e la gente inizierà ad interessarsi a lui, la maggior parte lo farà vedendolo però ancora come il diverso, lo strambo, il freak. Qualcosa di “lontano da loro”, di non-umano, e che va quasi studiato come un animale da laboratorio. Un fenomeno da baraccone.

V’è un detto: La Bellezza è negli occhi di chi guarda. Io, guardando a Joseph, dico: La Vera Bellezza è fuori dalla portata dei nostri occhi. Perché la gente lo vede e dice: Che brutto. Quando invece Lui era bellissimo. E di più: lo sarà per sempre, in eterno. Perché come ricorda Lynch attraverso lo spirito della defunta madre di Merrick che a sua volta cita il poeta a loro contemporaneo Alfred Tennyson: «Mai. Oh, mai. Niente morirà mai. L’acqua scorre. Il vento soffia. La nuvola fugge. Il cuore batte. Niente muore».

Dall’80 facciamo un balzo in avanti di oltre quarant’anni. Siamo nel 2024. Tempi recenti, recentissimi. Presentato in anteprima assoluta mondiale il 19 Maggio di quell’anno alla 77esima Edizione del Festival di Cannes, trattasi di una pellicola che lascia a bocca aperta per molti giorni dopo la sua visione, uno dei migliori prodotti cinematografici della passata stagione: «THE SUBSTANCE». Sceneggiatura originale e regia a cura della miracolosa rivelazione CORALIE FARGEAT, il film racconta di una bellissima diva fascinosa che però arriva a 50 anni e, a quanto pare, puoi essere meravigliosa quanto quella meraviglia di DEMI MOORE, ma se arrivi a cinquant’anni scadi, come fossi un budino. E vieni gettata via. Questo è quello che è capitato alla diva Elisabeth Sparkle, impersonata proprio da una paradisiaca Demi Moore in stato di grazia che firma una delle più grandiose performance attoriali nella Storia dell’Interpretazione: una volta giunta ai 50, il suo produttore Harvey, immortalato da un diabolico e mefistofelico e al tempo stesso comicissimo e gigantesco DENNIS QUAID, le dice: via! È dunque la fine per Elisabeth? Sì. Se non che s’affaccia nella sua vita una misteriosa formula, giunta a lei in maniera alquanto inquietante, che promette di regalarle una “versione migliore di lei”: più giovane, più bella, più… perfetta. E lei che farà? A dispetto di tutti i fortissimi campanelli d’allarme che accompagnano l’arrivo di questo siero, la usa. Eccome!

Come funziona in soldoni? Lei fa l’iniezione, cade per terra e dalla sua schiena esce (LETTERALMENTE!) un’altra tizia. La versione di cui sopra. Si chiama Sue, otterrà ingaggi televisivi e fama a non finire, ed è impersonata da una strepitosa MARGARET QUALLEY che son certo diverrà in futuro una delle massime attrici della sua generazione. C’è solo un problema, per Sue quanto per Elisabeth. Le due non vivono in contemporanea, ma quando una è viva, l’altra è come in coma. E ognuna delle due può rimanere “viva” solo per una settimana, prima di potersi scambiare con l’altra. E anche se ossessivamente vien detto e ripetuto e ricordato nel corso del film che loro due sono “una sola”, Sue ed Elisabeth finiranno per “litigare a distanza”. Strano ma vero, qualcosa andrà storto. Sue vorrà prendersi molto più tempo che una settimana. E la cosa non va bene. Non va bene perché quando “la copia” si prende più tempo del dovuto, quello “viene tolto” alla matrice. Che significa? Che quando Sue si prenderà un giorno in più di quello che le spetta, Elisabeth si troverà col dito indice deformato, menomato, come invecchiato di colpo. Che fare per evitare che questo accada di nuovo? Interrompere tutto. E secondo voi Elisabeth lo farà? Certo che no. E le cose andranno sempre peggio, Sue si prenderà sempre più tempo ed Elisabeth ne verrà orridamente e orribilmente prosciugata. Quello che vedremo andare in scena è una discesa negli inferi della bruttezza e del disgustoso e dell’obbrobrio, la sensualità delle due interpreti lascerà il posto a interiore, sangue, mostri. La Bellezza verra soffocata, strozzata e sgozzata dalla Bruttezza più brutta possibile. A questo punto vien da chiedersi: perché Elisabeth non ha fermato tutto quand’era ancora in tempo?

(Che trio meraviglioso!, da sinistra a destra: Margaret Qualley, Coralie Fargeat e Demi Moore)

La risposta ci viene fornita da una dolorosissima scena delle più strazianti terribili. Elisabeth di menomato ha ancora solo il dito indice. Ha chiesto ad un vecchio compagno di classe incontrato il giorno in cui venne scaricata dal network di uscire a cena con lui. Lui le aveva detto di trovarla bellissima, come sempre. E questo anche se lei, cinquantenne, “non valeva più nulla”. Elisabeth comunque si è preparata di tutto punto, vestita da capo a piedi, truccata nei minimi dettagli. È in procinto di uscire… ma poi accade qualcosa. Si ricorda di Sue. Di quanto sia bella e giovane, rispetto a lei. Il suo fresco viso perfetto, incarnato da un mega cartellone pubblicitario di fronte alle vetrate del mega-appartamento di Elisabeth, la guarda alle spalle con aria di sfida. Lei va in bagno, si strucca, mette dell’altro trucco per ringiovanire maggiormente il suo viso. Per assomigliare il più possibile alla… versione migliore di lei. Altro che una sola: Sue è Sue ed Elisabeth non sarà mai più così. Ogni volta è sul punto di uscire e ogni volta torna in bagno per tentare – vanamente – di ringiovanirsi meglio che può. Una scena lunga un paio di minuti che però si dilatano all’infinito, in uno straziante e sofferente e atroce grido di disperazione. Continua a non piacersi, continua a farsi schifo, continua a non essere come Sue. A farla capitolare infine è il riflesso del suo stesso viso sulla maniglia. Non importa se quella è Demi Moore e se lei è meravigliosa e stupenda e una donna bellissima (e sfido davvero chiunque a dire il contrario, per quanto Bruttezza e Bellezza siano – forse – soggettive!). Non ha alcuna importanza che lei sia bella come una statua dei tempi antichi. La società sessista e indecente attorno a lei vuole le giovani, e questo lo dimostrano le continue inquadrature che Fargeat ci regala del deretano di Sue quando danza innanzi alle telecamere: ossessive e insistenti e talmente ripetute da risultare volutamente eccessive. Elisabeth non uscirà quella sera. E il via alla marcia infernale dell’orrido nei recessi più deprecabili e schifidi dell’umano sarà una corsa all’atroce e all’inenarrabile. 

E questo ci porta al terzo titolo. Sul piano teorico, è un film uscito pochi mesi prima di «The Substance». Presentato in anteprima mondiale assoluta laggiù nel ridente Utah, il 21 Gennaio 2024, al Sundance Film Festival, tra le più importanti rassegne di Cinema Indipendente al Mondo, trattasi però di una pellicola che è uscita nelle sale italiane diversi mesi dopo rispetto all’opera della Fargeat, motivo per cui ho scelto di parlarne posteriormente. Dopo il Sundance, è approdato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, ove il suo splendido protagonista si è aggiudicato il meritatissimo Orso D’Argento per la Miglior Interpretazione da Protagonista. Ho sempre guardato a SEBASTIAN STAN come ad un attore fenomenale capace di regalarci perle interpretative di sublime grandezza, e con quella che è tra le più gloriose performance mai portate su schermo si riconferma in tal senso! Ma di che film sto parlando? «A DIFFERENT MAN».

Se «The Elephant Man» racconta una vicenda assolutamente classica come il suo bianco e nero (per quanto infarcita da alcuni momenti sospesi tra l’onirico e il lirico, “alla Lynch”) che narra della Vera Bellezza così come della raccapricciante Bruttezza albergante in tanti esseri cosiddetti “umani”, e «The Substance» sfrutta il body horror e il respingente disgustoso per confezionare un’inquietante narrazione raccapricciante che incarna un orrorifico quanto sensazionale spettacolo dell’atroce e del ripugnante suscitante scalpore, «A Different Man» narra un altro tipo di abominevole mostruosità. Stiamo parlando di un assoluto capolavoro del grottesco che unisce un’assurda comicità ridanciana ad un tragico dramma intriso di dolore e sofferenza con qualche ambigua spruzzata di simil-horror qui e là, specie in un momento ad essere sinceri. Una storia che fa della surreale stramberia narrativa ed emotiva ed estetica il suo marchio di fabbrica, una visione micidiale d’un pazzesco incredibile sovrumano, una trama che riecheggia quasi un’opera pirandelliana come «Il fu Mattia Pascal» che mette al centro della scena il dualismo e il desiderio di voler essere qualcuno che non si è.

Il protagonista è il timido e chiuso e schivo e solitario e introverso Edward, che vive nella ritrosia e quasi nell’ombra, benché si ritrovi paradossalmente a fare un lavoro che è tutto l’opposto, che lo vorrebbe sotto i riflettori e che – per di più – lo costringe ad utilizzare la faccia, quella sua faccia che odia e detesta e ripugna come non mai. E quel mestiere è l’attore. Se Edward vive in questo modo, odiando il suo viso e conseguentemente sé stesso, ciò lo si deve alla malattia da cui è affetto, la neurofibromatosi, la quale ha come risultato quella di procurargli tutta una serie di tumori non cancerosi che deturpano e deformano completamente la sua faccia. Sostanzialmente: lui è un brutto, brutto stando agli standard di bellezza a cui mira e punta la nostra società che vomita di continuo le sue fagocitanti idee su cosa dovrebbe essere ritenuto bello e cosa no. E lui è decisamente un no. Il suo viso lo frena, lo blocca, lo inibisce, gli impedisce di avere una vita sociale, o sana, o semplicemente normale. Il suo mestiere consiste nel recitare in una serie di spot di sensibilizzazione sulla sua condizione. Non ha mezzo amico che uno. E la sua vita amorosa è inesistente. Stringe un legame con la sua vicina di casa, un legame che lui vorrebbe fosse qualcosa di più, ma… ma ha quella faccia. Quindi niente. Poi, un giorno, la grande notizia: esiste una cura! Chissà se funzionerà… spoilerone: funziona! In una notte assai drammatica la sua faccia diventa normale. Diciamo pure: bella. Per forza!, è la faccia di Sebastian Stan!

E allora cosa ti combina lui? Scompare dalla faccia della Terra. Fa sapere al suo padrone di casa, al medico che lo aveva in cura e persino alla vicina di cui era innamorato che “Edward è morto”. Trascorre del tempo, Edward oramai non esiste più, al suo posto c’è Guy, un playboy d’agente immobiliare con una gran bella casa e donne ogni volta che le desidera. Non voglio scendere nei dettagli e fare troppi spoiler – già ne sto facendo – ma posso solo dirvi che tutto cambia quando arriva… lui: Oswald. Oswald ha la stessa identica patologia che aveva un tempo Guy, la sua faccia deforme, il suo aspetto ritenuto ripugnante. Solo Guy naturalmente sa che cosa aveva Guy, Oswald non può sapere né saprà che Guy “era come lui”. Ora, però, qual è il fatto? Che certe etichette quali “Brutto” o “Bello” o appunto “era come lui” non si applicano in alcun modo ad Oswald. E questo perché Oswald è tutto ciò che Edward non è. 

Certo, avrà il suo stesso identico aspetto, la sua stessa faccia, ma NON i suoi stessi problemi. A dire il vero, Oswald è completamente, totalmente, assolutamente diverso da Edward. Oswald ha successo, piace alla gente, fa ridere, è adorato e idolatrato e amato! Quando Edward saliva su una metro, a testa china e con la coda tra le gambe, tutti intorno lo guardavano schifati e disgustati. Quando Oswald sale per sua propria scelta sul palco a cantare il karaoke, la gente attorno a lui lo guarda ammaliata, affascinata, quasi in estasi. E Guy, che era appunto Edward una volta, è lì, in quel locale, e si guarda la scena e non capisce. Addirittura c’è chi arriva a dire a Guy che quell’Oswald è un tipo incredibile, fantastico, al punto che all’inizio era convinto che quella non fosse la sua vera faccia, che addosso aveva una maschera! Ma vi rendete conto di cosa questo significhi? Significa che Oswald è talmente carismatico che la sua – passatemi il termine – “bruttezza” può venire considerata addirittura costruita, al punto che lui diventa davvero “bello”. Ma come è possibile? La risposta a me sembra semplice. Perché non c’entra nulla il fisico o la faccia che hai, ma quello che hai dentro, come tu ti poni verso la vita.

(Adam Pearson & Sebastian Stan nei panni di Oswald ed Edward/Guy)

L’esplosivo ed entusiasta e divertentissimo e simpaticissimo e formidabile Oswald, impersonato da un ADAM PEARSON che meriterebbe premi a gogò per la performance che è stato capace di regalarci, si accetta in ogni suo aspetto, è una persona positivissima e sempre allegra, sicuro di sé e che se ne frega di quello che gli altri possano pensare di lui vedendolo in faccia. L’altro invece ha cambiato tutto, rivoluzionato il suo viso, chiuso col passato in linea definitiva e ha rifiutato sé stesso al punto da aver cambiato identità e non aver detto a nessuno della sua operazione proprio per non essere associato a quel tipo di faccia. Ma non ha lo stesso successo, nel professionale così come nel privato, di Oswald, che però ha quella faccia lì che era la causa di tutti i suoi mali! Ve la potete immaginare la sua orrenda, gretta e logorante frustrazione? Perché cazzo le cose stanno così? Lui ha dovuto ammazzare Edward e diventare Guy per avere qualcosa dalla Vita, perché Oswald invece no? Beh, vedete, il fatto è che Edward non è mai morto. Il fatto è che non esistono un Edward e un Guy. Perché il nostro voleva essere un uomo diverso, per riprendere il titolo. Ed era convinto di esserlo diventato. Ma non è così che stanno le cose. La possibilità di essere qualcun altro è davvero allettante: sarebbe bellissimo essere qualcuno che non si è, smettere una volta tanto di essere sé stessi, perché è faticoso e difficile essere sempre e comunque sé stessi! E se poi ci facciamo pure schifo? È una sorta di condanna, una maledizione eterna! Però la possibilità di essere qualcun altro non ce l’hai, non puoi essere qualcuno di diverso da te! Guy potrà pure essere bello, ma è ancora quel ragazzo con la faccia deforme che sceglieva di non vivere e non avere contatti con nessuno pur di “non rischiare”. È ancora Edward, ha solo cambiato pelle, non sé stesso. È ancora lui, lo sarà sempre. Oswald, quello con la faccia deforme, di fronte a chi lo giudica o lo prende in giro oppure lo insulta per il suo aspetto fisico, farebbe spallucce. Guy, o Edward, tanto è lo stesso, pur con la faccia “a posto”, ritenuto un Adone bellissimo, di fronte a qualcuno che parla male di chi è brutto, si sentirebbe chiamato in causa sempre, comunque, a prescindere. Per tutta la Vita. Non era la sua faccia che non andava, o che doveva essere cambiata. Ma era lui che non andava. Il suo non accettare sé stesso. 

Una genialata di perla che a ritmo di una forsennata musica a cura del sorprendente compositore UMBERTO SMERILLI, un incessante jazz tra il newyorchese e il frenetico, ti spinge lungo una storia sempre più eccitante ma anche tesa, cupa ma pure assurdamente umoristica, in una sola parola: umorale! Vergognosa e scellerata la scelta dell’Academy di nominare questo assoluto capolavoro d’originalità e autentica bellezza in una sola categoria agli Oscar, quella del Miglior Trucco e Acconciatura, invece che in ogni categoria possibile: interpretazioni dell’intero cast, colonna sonora, fotografia, sceneggiatura, regia, montaggio e ovviamente film. Rabbrividisco all’idea che in Italia sia rimasto in sala una sola settimana scarsa. Un gioiello che prende il vecchio concetto del “Non conta l’aspetto fisico” e te lo ribalta completamente, perché nel nostro immaginario questa frase vien detta a chi è bello affinché accetti coloro che sono brutti. E invece vale anche per i brutti che si vedono brutti e allora pensano di non valer niente e di doversi trasformare, demolire, distruggere per valere qualcosa. Ma le cose non stanno così. Applausi dei più fragorosi possibili spettano però al Genio Assoluto dietro questa meraviglia meravigliosa: il soggettista, sceneggiatore e regista AARON SCHIMBERG, nome ancora sconosciuto ma che sono certo che un domani – se continuerà a realizzare opere così uniche e ineguagliabili e straordinarie – verrà conosciuto e osannato e amato come merita!

(Un trio che si è consegnato alla Storia del Cinema: Sebastian Stan, il soggettista e sceneggiatore e regista Aaron Schimberg e Adam Pearson)

«The Elephant Man» racconta di un uomo bellissimo la cui Bellezza però è coperta, nascosta, celata dalla Bruttezza di fuori, poiché la sua è una Bellezza che non può essere goduta attraverso lo sguardo

«The Substance» invece racconta di come sia la Bruttezza che gli altri vedono in Noi a renderci brutti, perché ci convince a demolire l’autentica Bellezza che è in Noi, prosciugando la vera sostanza del nostro essere, solo per poter assomigliare il più possibile a quella finta versione “bella” ma in realtà “brutta” che gli altri attorno a Noi vorrebbero che Noi fossimo.

«A Different Man» racconta di un altro aspetto ancora della questione, e cioè di come la Bruttezza che Noi vediamo in Noi stessi ci rende il brutto specchio del brutto che pensiamo di essere e di avere in Noi, e siamo dunque Noi in persona con le nostre proprie mani a distruggerci e ad autosabotarci e a imbruttirci, non solo ai nostri stessi occhi, ma conseguentemente pure agli occhi di tutti gli altri! Siamo Noi che scegliamo di essere Belli, oppure Brutti.

E dunque, che rimane? Rimane che ancora una volta il Cinema, e più in generale la Narrativa, può davvero giungere là dove la Vita Vera non sa spiegare sé stessa. E allora che cosa possiamo dire di aver capito sulla Bruttezza e la Bellezza? 

La vera, autentica, reale Bellezza non dipende dalla faccia che hai, né da come ti vedono gli altri. Non sei bello, se cerchi a tutti i costi di essere qualcuno che non sei solo per piacere alla gente. Sei Tu che devi piacerti. Sei Tu che decidi se essere bello oppure no. Sei Tu nel momento in cui scegli come affrontare il Mondo e la Vita che scegli cosa essere. La Verità forse non è sempre bella, ma la Bellezza ha sempre dentro di sé Verità. Quindi siate voi stessi, e inseguite la Bellezza, al di là dei visi e dell’età e di qualsiasi altra stronzata. E perché dovreste inseguire la Vera Bellezza? Beh, semplice! Perché la Vera Bellezza è Bella, dico bene?

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