DI ELISA MORETTO
In mezzo a tutte le cose inquietanti che noi esseri umani abbiamo ricevuto in dotazione dalla nascita c’è uno strumento particolarmente piacevole che è quello dell’immaginazione. Senza troppi giri di parole, vi chiederò da adesso in poi di utilizzarla. Immaginate un omino o una donnina minuscola accovacciati in una parte casuale del vostro corpo. Metteteli su un piede, in mezzo agli intestini, incastrati in un alveolo o a cavalcioni sull’orecchio. Ora immaginate che vi parlino, perché tutti gli omini e tutte le donnine hanno una voce. Che cosa vi raccontano? Che cosa dicono di voi, del mondo, degli altri?
Ognuno di noi convive con un romanziere più o meno affermato.
Per quanto si sia sviluppato nel tempo un allarmismo generale sul mutismo delle persone e della letteratura nella società contemporanea, la verità è che non possiamo fare a meno di parlare, non possiamo fare a meno di leggerci dentro. Ci avete mai pensato a cosa succede quando chiamate qualcuno al telefono, quando incontrate un’amica al bar, quando parlate con un collega di lavoro? In quei momenti state inconsapevolmente inventando la versione migliore della vostra storia. Tutto ciò che crediamo di sapere di noi, infatti, è frutto di una faticosa e meticolosa rielaborazione romanzata che mette insieme esperienze, memorie e vissuti.
Nel lontano agosto del 1853, Gustave Flaubert scriveva alla sua Louise Colet di aver vissuto un’esperienza sorprendente. Nel corso di una passeggiata si era imbattuto nei resti di un picnic che avevano rievocato nella sua mente l’immagine di un’esperienza passata e all’apparenza realmente accaduta. Rimanendo focalizzato sull’impressione iniziale, tuttavia, Flaubert si era reso ben presto conto di aver mescolato involontariamente realtà e finzione. La scena ricordata, infatti, non apparteneva a un pezzo di vita vera e vissuta ma proveniva dal suo romanzo intitolato Novembre e da lui scritto ben dodici anni prima. La sua riflessione, dunque, si concludeva con l’idea secondo cui tutto ciò che è frutto dell’invenzione, in fin dei conti, diventa anche portatore nascosto di una verità destinata prima o poi a realizzarsi.
“Everything you invent is true: you can be sure of that”.
Narratore libresco e omino/donnina dunque sembrerebbero essere in buoni rapporti. E pensare che non troppo tempo fa Roland Barthes dichiarava a gran voce la morte dell’autore… Ma no! Oggi l’autore è vivo e – oscenità – si serve di un esserino accovacciato su uno dei suoi organi per raccontare tutto quello che altrimenti rimarrebbe rinchiuso nell’indicibile. In altre parole, la letteratura è voce e noi siamo letteratura.
Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di constatare che esiste una tendenza generalizzata dei lettori odierni a ricercare nei libri una congiunzione fra la voce del narratore finzionale e quella di chi scrive. Questo non significa che il narratore-assassino di un giallo corrisponda a un autore-assassino nella realtà. Piuttosto tradisce un bisogno di andare a scovare nei narratori letterari quei tratti che appartengono al nostro narratore interiore e che riconosciamo proprio in quanto presenti dentro di noi.
In un bellissimo libro intitolato Il senso di una fine, l’autore inglese Julian Barnes scrive:
Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita? Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici? E più avanti si va negli anni, meno corriamo il rischio che qualcuno intorno a noi ci possa contestare quella versione dei fatti, ricordandoci che la nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato. Agli altri, ma soprattutto a noi stessi.
Ecco allora che letteratura e vita vissuta si vengono a congiungere. Da una parte ci siamo noi, individui di vita vera, che pensiamo di ideare, tagliare, cucire insieme pezzi di memoria e di storie realmente accadute; dall’altra ci sono i narratori, omini e donnine di vita finzionale, che pensano, creano e si nutrono di parole inventante. Il risultato, tuttavia, è lo stesso:
si continuano a raccontare storie
e in ognuna di esse c’è una dose di finzione, una dose di verità.
Da questo punto di vista si può pensare a una nuova strada intrapresa dalla letteratura. Sembrerebbe esserci alla base un’idea di urgenza condivisa. È l’urgenza di raccontare in modo diretto ciò che altrimenti rimarrebbe ingabbiato nella trappola mediatica. È la necessità di aderire a una realtà che paradossalmente ma non casualmente sembrerebbe apparire proprio all’interno della finzione letteraria. È l’esigenza di ricercare una significativa forma di autenticità che nel mondo delle apparenze viene messa costantemente in discussione.
Sebbene l’ipotesi di una congiunzione fra autore e narratore non sia affatto nuova nel mondo letterario, oggi sembrerebbe apparire in una forma diversa di esperienza e consapevolezza, di ricerca e di apertura; si tratta di una nuova idea di incontro che trova nella verità della narrazione la mano di chi scrive per raccontare sé stesso; nell’invenzione letteraria, la voce di chi narra per conoscere gli altri.