DI ELODIE VUILLERMIN
Con la sua Commedia, divenuta in seguito Divina, Dante ha lasciato un grande dono all’umanità: un’opera incredibile ed indimenticabile, che a distanza di secoli continua a rendere più ricca la vita delle persone. E se questo l’ha detto pure il grande Alessandro Barbero, qualcosa vorrà significare.
La Commedia è rivoluzionaria per tante ragioni, una di queste è il modo in cui Dante l’ha scritta: in volgare con uno stile medio, in modo che fosse accessibile a tutti; cosa che nella sua epoca (1200-1300) era mal vista, dato che gli intellettuali leggevano solo in latino. Ma di tutte le sue cantiche, una ci è rimasta impressa più delle altre: l’Inferno.
Dell’oltretomba esistono tante declinazioni. Eppure quella dantesca resta la versione più celebre, più potente. Lui è il primo che rappresenta l’Inferno come un luogo fisico. Nessun altro, nemmeno la Bibbia, l’aveva mai fatto prima, limitandosi a definire l’oltretomba come una dimensione astratta e vaga. Dante è il primo a rendere reali, quasi tangibili, i peccati umani, descrivendo con minuzia le punizioni che le anime dannate subiscono, dai venti che flagellano i lussuriosi ai suicidi che diventano alberi, dai fraudolenti tramutati in fiamme che bruciano ai traditori conficcati in una palude ghiacciata.
La concezione dantesca dell’Inferno ha ispirato molti artisti negli anni a seguire. Basti pensare ad Auguste Rodin e alla sua Porta dell’Inferno, una scultura magnifica ma purtroppo incompleta. O alle illustrazioni di Gustave Doré. O a Michelangelo e al suo Giudizio universale. Stando a quanto dice Kate Bryan, storica dell’arte, colui che ha davvero capito Dante nel profondo è stato Botticelli: l’artista è stato infatti il primo a creare una vera e propria mappa dell’Inferno dantesco.

Sappiamo tutti come comincia l’Inferno e, in generale, la Commedia: con la selva oscura, simbolo di tutti i peccati del mondo, “nel mezzo del cammin di nostra vita”. Dante ci si ritrova quasi per caso, mentre smarrisce la via che stava percorrendo fino a poco fa. Invece non è un caso. “Il viaggio di Dante all’Inferno è deciso da Dio. Per salvare sé stesso, Dante attraverserà il regno dell’oltretomba e sarà testimone di peccati terribili e dei danni che possono provocare. Solo così potrà purificarsi e tornare al mondo dei vivi”, dichiara Martin McLaughlin, docente di letteratura italiana all’Università di Oxford.
Quindi quello smarrimento è parte di un disegno più grande, di una missione sacra voluta da una volontà superiore. Dante viene raggiunto da Virgilio, mandato per volere di Beatrice, Santa Lucia e la Madonna, che a loro volta rispondono al volere di Dio. Dante è un prescelto, una figura speciale. Salvando sé stesso salverà tutta l’umanità. Quella del prescelto che porta tutti alla salvezza è una narrazione affascinante, utilizzata ancora oggi.
La porta d’accesso all’Inferno invita chiunque osi entrare a “lasciare ogni speranza”. Simon Njami, curatore d’arte, definisce quella porta come un simbolo: “Nella psicanalisi, oltrepassare la porta significa cambiare. Quando entri, sai che stai superando un confine.” E Dante supera un confine preciso, tra mondo dei vivi e dei morti. Sta compiendo, come altri protagonisti prima e dopo di lui, quello che Vogler chiama il viaggio dell’eroe, quello che in narrativa comincia sempre superando una soglia.

Da quella porta in avanti ci sarà una discesa graduale verso peccati sempre più terribili e punizioni sempre più crude. Le pene sono eterne e assegnate a seconda del peccato commesso in vita: è la legge del contrappasso, per analogia o per opposizione. Dante ha lavorato molto sul rendere l’Inferno un luogo abitato, con diversi ambienti geografici: pareti di roccia, sabbie infuocate, due fiumi infernali (di cui uno di sangue), una palude ghiacciata, un’altra di fango e pece bollente, sepolcri infuocati da cui escono i lamenti degli eretici, una selva di alberi che urlano e sanguinano, e così via.
Virgilio è la guida perfetta in questo viaggio. Un uomo intelligente e saggio, il simbolo della razionalità umana che aiuta un confuso e smarrito Dante. La razionalità, dopotutto, è ciò che ci aiuta a resistere alle tentazioni, quel faro nella tempesta, la luce nei tunnel più bui della nostra esistenza.

Franco Cardini, storico medievalista, commenta a tal proposito: “Dante affronta questo viaggio come se fosse un pellegrino. Essendo un uomo, è egli stesso un peccatore, si riconosce nei vari peccati. Ha paura, perché è ancora in vita e sa che può peccare ancora di più, e che quindi gli può succedere, dopo morto, di entrare in uno di questi settori in cui i dannati soffrono per l’eternità.”
Tutti siamo come Dante in quella selva: persi nei nostri peccati, alla ricerca di noi stessi, in fuga dalle peggiori tentazioni, alla ricerca di un’ancora di salvezza. E tutti ci sentiamo spaventati dalla possibilità di peccare ancora, di essere giudicati più per i nostri sbagli che per gli atti di bontà da noi compiuti. Ecco perché l’Inferno è lo specchio perfetto dell’uomo di ogni epoca.
Questa selva oscura ha molto a che fare non solo con noi, ma anche con la vita di Dante. Che voglio dire? Facciamo un po’ di contesto storico: siamo in Italia tra fine 1200 e inizio 1300. A Firenze governano le Arti e Corporazioni e i nobili devono iscriversi a una di esse per partecipare alla vita politica. Sono inoltre diffusi e feroci gli scontri tra la fazione che sostiene l’imperatore e quella schierata con il papa, tra guelfi e ghibellini (a Firenze la lotta è tra guelfi bianchi e guelfi neri). Dante è un uomo distrutto: la sua amata Beatrice, la sua musa tanto guardata da lontano, muore giovanissima; lui viene accusato di corruzione e condannato all’esilio. L’idea per la sua Commedia nasce nel momento in cui è più smarrito, lontano dalla sua patria, senza appigli sicuri nella vita. Ecco perché ha senso che tutto cominci da una selva oscura, nella quale Dante si smarrisce.
“Penso che se Dante fosse rimasto a Firenze non avrebbe mai scritto il poema con questa forza e ricchezza”, afferma Martin McLaughlin. “Nell’Inferno c’è tutto il mondo dell’epoca”.
Tornando a Franco Cardini, egli descrive l’Inferno come un’opera provocatoria, dura e a volte pesante, è una vendetta per i torti che Dante ha dovuto subire. Si può leggere infatti questa cantica non solo come un riflesso dell’umanità, ma anche come uno sfogo personale di Dante nei confronti di chi in vita lo ha fatto soffrire. Non è infrequente trovare passaggi in cui egli si fa beffe di Firenze e della borghesia, in cui inserisce critiche verso la politica. Quando incontra Filippo Argenti, l’uomo che lo ha condannato all’esilio, si lascia prendere dal desiderio di vendetta e aizza gli altri iracondi contro di lui. Celestino V, il papa che con la sua abdicazione ha favorito l’ascesa al soglio pontificio di Bonifacio VIII il quale ha passato la vita a tormentare Dante, finisce negli ignavi, un gruppo che il poeta odia al punto da aver creato per loro l’Antinferno: sono così vili e incapaci di prendere scelte che nemmeno l’Inferno li vuole.
“Dante… non sappiamo se era una persona di specchiata onestà, certamente non era una persona di grande equità. Nella Divina Commedia non si atteggia mai a giudice, però di fatto lo è, e lo fa arbitrariamente. E questo, naturalmente, fa il bello dell’Inferno”.
(Franco Cardini)
Ma questo non significa che Dante disprezzi tutti coloro che mette all’Inferno. Non ha riservato alcun trattamento di favore a nessuno: Brunetto Latini, il suo maestro, lo avrebbe potuto mettere in Purgatorio o Paradiso perché gli era affezionato; e invece no, lo mette all’Inferno, tra i sodomiti. Perché lui ha creato delle regole precise e le rispetta. In vita hai commesso dei peccati gravi e non te ne sei pentito quando sei morto? Bene, finisci all’Inferno. Anche se sei stato un grande uomo, è una regola a cui nessuno può sfuggire, nemmeno il grande Ulisse.

Certi dannati, per quanto terribili siano stati in vita, suscitano comunque l’ammirazione di Dante, che si ferma a parlare con loro proprio perché curioso di conoscere la loro storia. Non è indifferente alla sofferenza di certe anime che non possono più vedere i loro cari. Ha una forte empatia con il loro dolore. Fa sue le loro pene. E tu, che ascolti le sue parole, senti anche tu il peso di quelle pene, la condanna di quegli sventurati pesa tanto su di loro quanto su di te. Tu diventi come Dante.
Quando Pier de la Vigna, nel cerchio dei suicidi, dice di essere stato giudicato colpevole pur avendo servito sempre fedelmente il suo signore Federico II, Dante si sente molto simile a lui: anch’egli, in vita, è stato tradito dal potere politico e dichiarato colpevole di qualcosa che non ha fatto. O quando Francesca lo accusa, in quanto poeta dello stil novo (quindi autore di poesie d’amore), di aver portato lei e Paolo alla morte, egli sente di avere una responsabilità nei confronti della donna.

Dante sceglie di rappresentare pochi momenti della vita di ogni dannato, quei singoli istanti per i quali saranno ricordati in eterno. Di Paolo e Francesca, l’istante in cui si scoprirono innamorati leggendo la storia di Lancillotto e Ginevra. Di Ulisse, quello in cui attraversò le colonne d’Ercole con i suoi compagni. E del conte Ugolino, la prigionia e i suoi ultimi istanti di vita, quelli più macabri e angoscianti: impossibile non immedesimarsi nello strazio dei figli che soffrono la fame, nella frustrazione di Ugolino che si morde le mani per non cedere agli istinti cannibaleschi, nel dolore dell’uomo che sopravvive ai suoi figli e alla fine, per istinto di sopravvivenza, si mangia i loro cadaveri, salvo morire a sua volta.
Ancora oggi l’influenza dell’Inferno dantesco si fa sentire, è una cantica che dura nell’eternità, più attuale che mai. Questo perché ci obbliga a metterci in discussione, a fare i conti con l’ossessione della morte, a riflettere su noi stessi come persone. Come dice Martin McLaughlin, “l’Inferno di Dante non è soltanto un poema su Dio e la religione, ma si concentra sulle debolezze umane e costringe a chiedersi quali peccati saremo in grado di comprendere e quali non perdoneremo mai”. Per conoscere la purificazione dobbiamo conoscere i peggiori mali del mondo e superarli.
Facciamo i conti con le nostre debolezze, siamo invitati a lavorare sui nostri difetti e capire fino a che punto una persona può essere giudicata davvero colpevole. Chi in vita sua non è mai stato incapace di prendere una scelta, non ha mai tradito, non si è mai lasciato travolgere da un desiderio d’amore o altro? L’Inferno, a distanza di secoli, suona come un monito per l’uomo moderno: lo esorta a comportarsi al meglio in vita. Qualche peccato, inevitabilmente, verrà compiuto, ma al tempo stesso bisogna essere consapevoli dello sbaglio commesso e fare il possibile per porvi rimedio. Lavorate sodo su voi stessi, miglioratevi, e non sarete ricordati per i vostri peccati ma per chi siete davvero. Il percorso di Dante verso la rinascita di sé stesso, verso la salvezza sia individuale che collettiva, è lo stesso che dobbiamo seguire anche noi. Solo una volta affrontati tutti i peccati più segreti dell’umanità potremo raggiungere l’alto dei cieli.


All’epoca Dante giudicava duramente le pene, ma perché era un uomo dei suoi tempi, credeva nella morale che esisteva allora: quella assoluta, che coincideva con quella cristiana, secondo la quale ogni peccato commesso (furto, tradimento, adulterio, omicidio e così via) è sempre sbagliato. Per noi è diverso, perché ognuno di noi ha la propria morale relativa: quindi il peccato dipende dalle circostanze, è la ragione (e non la fede) a dover stabilire caso per caso chi sia colpevole e chi no. Se per Dante rubare è sempre sbagliato, secondo la morale relativa un furto può essere una buona cosa se ti aiuta a tirarti fuori da una situazione difficile. Proprio perché ciascuno di noi ha la sua morale relativa, ci è difficile giudicare qualcuno colpevole al 100%. Certo, non tutti i dannati sono stati dei santi, su questo concordiamo, ma alcuni di loro davvero si meritavano l’Inferno?
Paolo e Francesca hanno sì commesso un peccato, ma si amavano, e che colpa può essere amare? A noi, in quest’epoca, suona ingiusta la sorte che è toccata ai due, mentre nell’epoca contemporanea a Dante il matrimonio era un sacramento, stabilito dalla Chiesa per mantenere l’eredità patrilineare, nel quale l’amore non c’entrava nulla, e infrangerlo era un sacrilegio. E il conte Ugolino? Per Dante ha tradito la sua patria ed è terribile, soprattutto perché Dante stesso è stato tradito da Firenze ed esiliato. Ma quel pover’uomo meritava davvero di vedere i suoi figli morire, mangiarli e poi morire di stenti a sua volta?


Di sicuro Dante ha avuto molta fantasia con le pene, alcune di queste sono intrise di sadismo e crudeltà. L’immagine del conte Ugolino che non solo mastica il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, ma addirittura si pulisce la bocca con i suoi capelli prima di parlare, ci rimarrà impressa nella mente a vita. Ma comunque l’opera di Dante è un messaggio di speranza: come lui è uscito dall’Inferno nonostante tutte le crudeltà che vi dimorano, anche noi possiamo farlo. Nella vita ci sono sempre i grandi Inferni (quali guerra, povertà, epidemie) e allo stesso modo esistono i piccoli Inferni quotidiani (i nostri problemi personali). I mali del mondo ci saranno sempre, ma per quanto brutti saranno si può sempre uscirne vincitori. Potremo sempre uscire per “vedere le stelle”.