DI ALBERTO GROMETTO
Avete mai sentito l’espressione: “Poche ma sentite parole”?
Da che ne ho memoria, a questo mondo non si fa altro che dire e ripetere quanto brevità e sintesi siano valori fondamentali, di imprescindibile grandezza, che andrebbero sempre protetti e difesi strenuamente a dispetto di tutto, quando invece lunghezza e prolissità costituiscono un orrido danno orrendo al punto che entrambi non possono che essere considerati alla stregua di un vero e acerrimo nemico da abbattere e sconfiggere a qualsiasi costo!
Io non mi trovo per niente d’accordo! Ma ammetto di essere di parte. Sapete: io sono un prolisso dei più prolissi possibili! Scrivo troppo, parlo troppo, dico troppo. Sempre stato così. È che ho tanto da dire, tutto qua. Che poi vorrei proprio sapere chi stabilisce cosa sia “troppo”! A questo riguardo, vi è un fatto divertente che mi viene in mente. Avete presente i Premi Oscar, no? Il candidato che vince prende posto sul palco e, stringendo in mano quella statuetta dorata, può lasciarsi andare commosso o felice oppure entrambe le cose e fare qualsiasi discorso voglia, che sia di ringraziamento oppure di rivalsa. È anche giusto, no? Io so già che parlerei per ore!
Magari sta attendendo da tutta la vita quel momento, quella consacrazione d’un sogno, e ora ha così tanto da dire al mondo intero, tante persone da ringraziare, tanti momenti da ricordare… bene, ma lo deve fare entro 45 secondi. Sì, proprio così: l’Academy ha stabilito cosa significhi “troppo” decretando che nessun discorso di nessun vincitore debba superare i 45 secondi. Questa decisione risale al 1943, quando l’attrice GREER GARSON, vincitrice della statuetta per la sua performance da protagonista ne «La signora Miniver» di William Wyler, passò alla Storia per aver fatto quello che ancora oggi è il più lungo discorso mai fatto agli Oscar: sette minuti abbondanti. Fu allora che venne deciso di imporre un tempo limite. Dire che lo rispettano tutti, sarebbe quanto di più lontano dalla verità.

Credevate davvero che in oltre ottant’anni ogni vincitore della Storia sarebbe rimasto sotto i 45 secondi? Illusi! E, francamente, ai miei occhi, questa è una gran bella cosa! Mi fa felice sapere che la buona, vecchia, cara prolissità ancora alberghi nell’essere umano, a dispetto delle brutte voci che circolano sul di lei conto. Certo, l’Academy ha i suoi biechi trucchetti per far sì che i discorsi che vanno oltre il limite non risultino “troppo”: staccare i microfoni e attaccare con la musica, ad esempio. Ovviamente l’Academy è classista e quindi non si permette di riservare lo stesso antipatico trattamento a tutti: il regista e gli attori, di norma, anche qualora sforassero parecchio, verrebbero comunque salvati da questo scenario. Ma tutti gli altri vincitori, invece, devono stare molto attenti.
Comunque c’è anche nel corso degli anni chi è rimasto addirittura sotto quel limite, stabilendo record opposti a quello della Garson. Primo esempio eclatante che mi viene in mente quel mattacchione irresistibile e soprattutto interprete straordinario che è JOE PESCI: quando nel 1991 vinse uno degli Oscar più meritati della Storia per la sua performance sublime nel film del Maestro Martin Scorsese «Quei Bravi Ragazzi», ritirando il Premio, disse solamente… «È un mio privilegio, grazie». E basta! Davvero: se ne andò, così.

Oh, va bene, ammettiamolo! Tutti quanti ricordano le singole frasi brevi e incisive, le poche parole fulminanti son quelle che fanno la Storia e segnano l’immaginario collettivo, anziché i lunghi discorsi pomposi e prolissi che non finiscono più! Questo lo so anch’io.
«Signor Gorbačëv, abbatta questo muro!» disse il Presidente Ronald Reagan dinanzi alla Porta di Brandeburgo auspicando l’abbattimento del Muro di Berlino.

«Alea iacta est!». Tradotto: «Il dado è tratto». Caio Giulio Cesare, destinato a diventare padrone di Roma e del Mondo, la pronunciò in sfida al Senato che più non lo voleva comandante delle truppe, quando attraversò il fiume Rubicone per entrare in Italia.

«Se gli uomini fossero belli e intelligenti, si chiamerebbero donne» pronunciata con arguzia e sagacia dalla scintillante attrice Audrey Hepburn, campionessa in ironia ed eleganza e talento.

«Sembra sempre impossibile farcela, finché non ce la fai». Questa è del Presidente Nelson Mandela, il quale realizzò ciò che un tempo non poteva nemmeno essere pensato: un Sudafrica libero e unito, senza apartheid né ghetti razziali, ove tutti fossero uguali.

«Non chiedetevi cosa il vostro Paese può fare per Voi, ma cosa Voi potete fare per il Vostro Paese!». Il Presidente John Fitzgerald Kennedy al suo discorso d’insediamento il 20 Gennaio 1961 a Washington D. C.

Parole belle, nobili, alte, profonde. E quel che davvero m’affascina delle parole è questo: tutti le conosciamo, ma non tutti sono capaci di combinarle tra loro così da andare a creare qualcosa di unico e memorabile ed eterno. Voi sapete quale fu la prima frase mai scritta nella Storia dell’Umanità?
«29.086 misure di orzo, 37 mesi».
Sotto vi è la firma: «Kushim».
È il documento più antico che conosciamo e ha 5.400 anni d’età. Ed è nei fatti un sorta di scontrino, o comunque un suo antenato. La transazione è firmata da questo tale Kushim, che è il personaggio celebre più antico che conosciamo. Tutto parte da lì (se non sostanzialmente, almeno “simbolicamente”).
E oggi ci ritroviamo con opere di una grandezza e una bellezza eterne e immortali. Ma rimane l’annosa questione: quali sono alla fin fine le frasi che han fatto la Storia? Quelle brevi, corte, fulminee. Quelle cosiddette “laconiche”, aggettivo che significa “essenziale”, “breve”, “sintetico” e che deriva dalla regione nota come “Laconia”, ove vissero gli Spartani. Essi erano ben noti per il loro stile conciso, pronto ad andare al punto. Quando Re Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, scrisse a loro una lettera piena di minacce in cui esordì dicendo qualcosa del tipo Se invaderò la Laconia, vi distruggerò e farò questo e quest’altro e ancora questo… gli Spartani semplicemente risposero con una sola parola, un’unica sillaba, due lettere: «Se».

Ma io no, non mi arrendo così facilmente. La prolissità è troppo importante per me, perché possa dichiarare la resa. Vi racconterò in breve (ma poi sarò davvero breve?) chi fu WILLIAM HENRY HARRISON. Lo conoscete tutti? No? Non mi sorprende!
Prima ho citato due Presidenti degli Stati Uniti D’America, non a caso. Anche lui fu Presidente. Venne eletto nel 1840. La cerimonia di insediamento ebbe luogo Giovedì 4 Marzo 1841, passata alla storia come una delle giornate più fredde, umide e piovose nell’esistenza di Washington D. C. Tirava un vento fortissimo accompagnato da una pioggia battente e incessante. Harrison decise comunque di tenere la cerimonia davanti al Campidoglio, all’esterno, dove avrebbe giurato, come da tradizione, facendo a meno sia del cappotto sia del cappello. Raggiunta la cerimonia in sella al suo destriero e non su una carrozza chiusa, quando arrivò finalmente il momento di pronunciare il discorso inaugurale, il momento che tanto aspettava, Harrison decise di goderselo appieno. Ebbene, Egli detiene ancora oggi due record storici che difficilmente un altro Presidente potrebbe mai strappargli.
Primo: fra tutti i discorsi di insediamento mai pronunciati in tutta la storia presidenziale americana, il suo rimane il più lungo. Negli ultimi anni, in media, il discorso inaugurale si è attestato intorno ai 15-20 minuti. Però vi sono discorsi arrivati anche a 45-50 minuti. Quello di Harrison durò oltre due ore. Sotto la pioggia.


Secondo record: la sua presidenza fu la più breve di tutta la storia americana, un mese esatto. Poco dopo il giorno dell’insediamento contrasse infatti una polmonite fulminante che lo costrinse a letto per un mese esatto prima di morire.
La prima volta che lessi questa storia, la figura di Harrison mi suscitò una profonda ilarità. Mi fece ridere. Mi sembrava una comica che però era accaduta realmente. Ma in verità anche se non lo capii da subito, era qualcosa di più di semplice ilarità. Non sapevo ancora perché, ma ne rimasi ossessionato. Pensate che andai persino a leggere il suo discorso di insediamento per intero. Nel corso degli anni ho provato a darmi una risposta. E forse la risposta sta proprio nella mia prolissità, nel fatto che tutti quanti mi dicono che parlo e scrivo troppo. Qualcuno potrebbe definirlo “difetto”. Io personalmente preferisco “caratteristica”. Figuratevi che alle scuole medie la mia insegnante e io, prima di ogni tema, passavamo mezz’ora a contrattare sul numero delle pagine. Ogni volta che ho dovuto tenere un discorso o produrre uno scritto, mi sono dovuto scontrare con un inesorabile limite, di tempo o battute o parole. Sempre. E sulla mia strada ho trovato davvero tante persone che passavano ore ad elogiare e quasi divinizzare la sintesi e a condannare la prolissità definendola addirittura “mortale”. Certo, questo prima di conoscere la storia di William Henry Harrison, perché fino a quel momento non avevo mai sentito di nessuno morto di prolissità!
Ma perché ho raccontato questa storia con la quale sembra che io mi contraddica, o che comunque non mi aiuti per nulla a difendere la prolissità, di cui sarò sempre un fervente ammiratore e accanito sostenitore?
È questo il fatto. L’ho fatto per il gusto del racconto. Perché non potevo fare a meno di parlarne. Perché, ancora una volta, ho sforato il limite di pagine che mi ero imposto per un articolo. Perché sono io. E io sono un prolisso. E sapete che c’è? Mi va bene così. È bello essere così. Adoro essere così.
E ora mi fermo, perché potrei andare avanti di altre mille e passa pagine.


Ti piacerebbe, dopo tante parole, avere silenzio? Allora pigia qui!!!