DI ALBERTO GROMETTO
Da che Mondo è Mondo, sono sempre esistite le tragedie. E insieme a queste, il racconto che ne si fa. Forse la prima volta in cui si narrò una tragedia, aveva appena avuto luogo proprio la prima tragedia della Storia. Forse le due cose, la tragedia e la prima volta che venne raccontata, accaddero quasi in contemporanea, addirittura. Chi può dirlo?
Si può invece dire questo, che una tragedia esiste davvero solo quando la racconti, a partire dal momento in cui la si racconta. Il nostro Mondo, la nostra Storia e mi verrebbe da dire la nostra Vita racchiudono in loro tragedie immani, sporche, fetide, oscure, di proporzioni indescrivibili. Ma se non le racconti, allora è come non fossero mai esistite. Un qualcosa accade solo quando lo si racconta. Anche se si tratta dell’orrore più orrido, più atroce, più nefasto possibile. Pur trattandosi di qualcosa di impensabile, di talmente lontano dai territori del reale e del possibile, talmente distante da questa nostra realtà, di un qualcosa che non solo non si pensava potesse essere, ma che nemmeno era mai stato immaginato. Eppure, anche qualcosa che non era mai stato neanche pensato, nel preciso istante in cui lo narri inizia ad esistere.
E questo vale anche quando si tratta di raccontare qualcosa che nessuno aveva mai osato raccontare. E quando lo racconti, ci sarà chi strepiterà, chi piangerà, chi si dispererà. Chi anche non ci crederà, magari. E chi griderà all’orrore. Ma a quel punto i giochi saranno fatti, perché quel qualcosa comincerà ad esistere. Per far esistere qualcosa, devi raccontarlo.
Quello che alcuni uomini (anche uno solo, sarebbe stato troppo!) commisero negli anni ’40 del secolo scorso, quel che oggi viene chiamato “Shoah”, è uno di quegli orrori che nemmeno poteva essere immaginato. E che eppure è accaduto. E che ancora oggi fa sanguinare il Mondo. E che ti fa riflettere se ci sia davvero qualcosa di Umano, nell’Umano. Tuttavia quella stessa identica violenza atroce e meschina ha avuto luogo più e più volte nell’arco della nostra Storia. Come ad esempio negli Stati Uniti D’America, sì, proprio nel grembo di quella terra da cui giunsero i cosiddetti salvatori, coloro che (e non a torto, badate bene!) salutati come degli Eroi nel momento in cui misero piede in Europa, posero fine alla Seconda Guerra Mondiale e portarono alla cessazione dell’attività di quei posti che son quanto di più vicino all’Inferno in Terra. I campi di concentramento. Eppure quegli stessi campi ce li avevano anche a casa loro, e quelle stesse atrocità abominevoli e orripilanti le commettevano pure loro.
Certo, nel loro caso non erano Ebrei. Erano Afroamericani. E non li chiamavano “campi di concentramento”, ma erano proprio la stessa identica fottuta cosa.

«I RAGAZZI DELLA NICKEL» è un film “per tutti”. Non importa se sei bianco, nero o giallo. Se hai vissuto nel Novecento o se invece il XX secolo non l’hai mai visto. Perché non è un film che parla di cosa significhi essere dei giovani afroamericani negli USA razzisti e segregazionisti e schifosi degli anni ’60. Non ti narra di quel che ti succede quando capisci di dover a che fare ogni giorno con gente che non ti considera nemmeno un essere umano. Non ti racconta di cosa si provi quando, solo per il colore della tua pelle, ti prendono un giorno di punto in bianco la Vita e non te la ridanno più. No, non fa niente di tutto ciò. Quello che fa è fartelo vivere: tu diventi il ragazzino nero sedicenne che da un un giorno all’altro, per qualcosa che non ha commesso, viene preso e sbattuto in un posto dal quale non uscirà mai più.
Sì, perché anche quando effettivamente uscirai dal riformatorio per ragazzi criminali (o meglio, ritenuti criminali) della Nickel Academy, sarà come essere rimasto lì dentro. Quando vivi l’Inferno, ci rimani. E quel posto è l’Inferno. Peggio: è il Male Assoluto, la vera incarnazione del Male più macabro e raccapricciante di cui è capace l’Uomo. E quando decideranno, senza ragione, tranne che per la sua pelle, che il sedicenne nero Elwood Curtis (ma è importante conoscerne il nome e cognome dato che l’intento è togliergli l’identità?) dovrà stare lì dentro fino al compimento della maggiore età, sarà tutto il suo Destino ad essere deciso. Nel momento in cui ci entri, non uscirai più di lì. Anche quando avrai scontato la tua pena, ti cercherai un lavoro, metterai su famiglia e ti rifarai una vita. Perché non ci sarà nessuna vita “da rifarsi”. Quella se la saranno presa per sempre, e non te la restituiranno più. Non esisterà più alcuna Vita.
È il debito che devi pagare, dicono. Sei in debito con lo Stato, ti ripetono. Potrai andartene quando avrai saldato il tuo debito, ti sbraitano in faccia. Ma in cosa consiste esattamente questo debito, che in effetti non hai anche se ti dicono il contrario? Consiste nella tua esistenza. Perché come si potrà mai essere davvero di nuovo felici, come lo si sarebbe potuti essere prima di entrare là dentro, quando hai vissuto dei mesi, forse anni, ogni giorno tutti i giorni in un posto in cui ti fanno mangiare lampadine, ti infilano dentro le lavatrici, ti danno in pasto agli alligatori, ti pestano a sangue fino a quando non ti reggi più in piedi sulle tue gambe da solo e ti obbligano a farti la doccia insieme agli altri col rischio di scivolare come su della pelle, della carne, qualcosa che non si capisce ma si può intuire che cosa sia?

Elwood è il “classico errore giudiziario”. Chissà quanti altri ragazzi neri là dentro sono “classici errori giudiziari” che non meritano di stare lì dentro. Ma in realtà, anche qualora avessero commesso quel che i bianchi dicono che hanno commesso, non lo meriterebbero. Non esiste essere vivente, umano o non umano, che può meritare una cosa del genere. Però sapete cosa ci meritiamo tutti Noi? Ci meritiamo questa visione. Che ci possa ricordare chi siamo stati, chi forse siamo ancora oggi. Fino a che punto è possibile arrivare ad essere. Soprattutto perché questa non è solamente una visione. O un racconto, come dicevamo prima. Ma è un’esperienza.
Applaudiamo al talento e all’ingegno del regista RAMELL ROSS (anche autore insieme a JOSLYN BARNES della sceneggiatura non originale in quanto tratta da un romanzo) al suo film “fiction” d’esordio (il suo vero debutto è infatti stato nel 2018 con un documentario) che decide di compiere una scelta delle più coraggiose e azzardate possibili realizzando un film che però è insieme un esperimento: confezionare una pellicola che è perlopiù quasi interamente girata in “POV”. Cosa significa POV? “Point Of View”. “Punto Di Vista”. È quel tipo di ripresa “in soggettiva”, cioè come se la telecamera “fosse negli occhi” di un personaggio. I nostri e i suoi occhi diventano gli stessi. Le scene sono inquadrate dal punto di vista di un personaggio, come se fossimo dentro i suoi bulbi oculari. E così Noi tutti diventiamo Elwood. Elwood e Turner.

Sì, Elwood non è completamente solo. Quando vien messo lì dentro perde la nonna, l’amato insegnante, tutti coloro che gli erano cari quando ancora aveva una vita. Perde tutti, perché quando finisci alla Nickel sono “loro”, i bianchi, i padroni a decidere chi puoi e chi non puoi vedere. Elwood potrebbe forse sentirsi più abbandonato di così? Va aggiunto che nemmeno “quelli come lui”, gli altri ragazzi della Nickel, sono amici, bensì delle bestie spregevoli rese tali dal sistema schifoso del quale fanno parte e che s’azzannano tra loro come non ci fosse un domani. Ma alla fine, fateci caso!, da sempre l’Umano anche quando si trova nella melma fino alla punta dei capelli e senza nessuno e sta affogando, qualcuno lo trova. Un altro Umano. E così Elwood trova Turner. E Turner Elwood, mi verrebbe da dire.
Turner sta alla Nickel da molto più tempo e a differenza di Elwood non ha una nonna da cui tornare. Non ha niente. E sono anche i suoi occhi quelli attraverso cui guardiamo tutto quell’orrore rancido e disgustoso e obbrobrioso. Il rischio di fare un film tutto (o quasi) in soggettiva era questo, cadere nel cosiddetto “effetto videogioco”. Ma questo pericolo viene scongiurato abilmente. Perché nel mezzo delle soggettive, vi sono piccole inquadrature di dettagli, di piccole cose. Come le mani della nonna, oppure un filo d’erba. Quelle piccole cose di cui è fatta la Vita e che porteremo sempre con Noi, anche quando la Vita ce la rubano. In mezzo vi sono momenti molto particolari e veramente brillanti in semi-soggettiva, quando riprendono sia quello che il soggetto guarda ma pure lo stesso soggetto, come fossimo dietro di lui, precisamente alle sue spalle, dietro la sua nuca, senza vederlo in faccia. In mezzo vi sono filmati di repertorio, che raccontano la Storia con la “S” maiuscola, quella di quegli anni, quando ad esempio un reverendo afroamericano originario di Atlanta in Georgia decise di dire basta. Quell’uomo era il Dottor MARTIN LUTHER KING JUNIOR. La Storia con la “S” maiuscola, ci ricorda il film, è fatta da uomini, ognuno con le proprie storie, quelle con la “s” minuscola, le nostre storie. E poi il pericolo del “videogame effect” è scongiurato proprio da questa doppia prospettiva, quella di Elwood e quella di Turner, da cui vediamo quel che vediamo. O sarebbe giusto dire “viviamo quel che viviamo”, dal momento che grazie a questa sensazionale regia indovinata Noi diventiamo loro due. E non a caso, perché Elwood è Turner e Turner è Elwood. Quei due sono quello stesso ragazzino nero a cui hanno distrutto tutto, e Noi siamo loro. E in tal senso il finale a sorpresa è una perla geniale che merita un’ovazione a parte, e che meglio ci fa comprendere cosa intendiamo quando diciamo “Elwood è Turner e Turner è Elwood”.

Noi diventiamo proprio come loro due, siamo loro due, nel mentre del film. Ma questo non significa che quei due, per quanto figli dello stesso dolore, siano uguali. Perché se anche è vero che una volta dentro la Nickel perdi la Vita, è altrettanto vero che la puoi perdere solo se sei Tu a cedere e decidere di dargliela. Elwood è forse il solo ragazzo della Nickel a cui la Vita non la prendono, né la possono prendere. Perché lui non cede, non s’abbatte, non s’arrende. Mai, neanche per un momento soltanto. Nessuno ti tirerà fuori di qui, gli dice l’amico. Solo tu puoi. Ed Elwood decide che può. Elwood continua a credere nel Sogno del dottor King che è anche il suo Sogno, nella sua lotta e nella Giustizia. A dispetto di tutto quello che gli è accaduto. La sua identità resta sua, ed è indistruttibile, e anche qualora decidessero di ammazzarlo il suo nome rimarrà talmente forte da non poter essere cancellato, né eliminato.
Turner non è così. Lui è tutto l’opposto. Non crede a niente, non vede nulla di bello o sognante o per cui valga la pena lottare in questa Vita. Niente merita di essere salvato, perché non c’è niente da salvare. La Libertà non esiste, non è mai esistita. Non c’è legge o morale o religione o divinità o salvezza, nulla! Basta fingere che ci sia qualcosa, dice lui. Perché tanto il mondo là fuori non è poi diverso da quello lì dentro. Il bianco dice che fai schifo e che devi stare sotto il suo piede e il nero ubbidisce. Lo schifo e le ingiustizie “del fuori” sono le stesse “del dentro”. Ma almeno lì alla Nickel, afferma Turner, nessuno deve fingere che non sia così. Eppure sapete che anche Turner infine lotterà? Se non altro, per la sola cosa che abbia davvero contato qualcosa nella sua Vita. L’amico Elwood. Che diventa una parte di lui, e viceversa.
Le disgrazie sono orrende, ma ci ricordano talvolta che esiste l’altro e che è quanto di più prezioso e meraviglioso si abbia. Perché le disgrazie continueranno ad esistere, ma almeno sai che vale la pena affrontarle se questo significa stare insieme a quella persona.
Poetico, commovente, una denuncia fortissima che non scade nella solita critica o nel mostrare sofferenza e basta. Ma te la fa vivere. La Nickel nella realtà storica non esiste, ma è la rappresentazione immaginaria di tanti e più luoghi come quello che sono esistiti davvero. Ma come è possibile siano esistiti per davvero? Forse se lo chiederanno pure quei ragazzi, che se non vengono ammazzati (perché sì, alla Nickel possono anche fare questo, ucciderti e far sparire il tuo corpo, se così vogliono), comunque non diverranno mai davvero adulti. Nemmeno quando avranno quaranta e passa anni sulle spalle. C’è chi diventerà un alcolista, chi un drogato, chi ancora non sarà mai in grado di lavorare. Anche chi avrebbe potuto fare tanto, nella Vita. Ma tutti quanti rimarranno quegli eterni ragazzini spaventati, offesi, insultati, picchiati, martoriati che avrebbero solamente voluto vivere.

Vi sono quattro modi per uscire di qui, spiega Turner a Elwood. O scontando la pena fino al diploma. Che è l’Ingiustizia peggiore. O sperando che intervenga il Tribunale, che sarebbe la strada della Giustizia, che però ti deve piovere dal Cielo. O morendo, che è la Fine della Lotta e di Tutto. Oppure la fuga, che è la via della disperazione. Ma ce n’è un quinto, dice Elwood. Far chiudere la Nickel. E questa è la strada della Vera Giustizia, non quella che ti cade in grembo, ma quella per cui scendi in campo e lotti. Come farla chiudere? Raccontando la sua Storia. E qui si ritorna all’inizio dell’articolo.
Un sensazionale esperimento straordinario, dicevamo prima. Forse non sempre riuscitissimo, soprattutto nella prima metà, alquanto frammentaria e lenta. Un uso così innovativo del mezzo cinematografico può portare il ritmo a risentirne. Però non solo un esperimento, sottolineo. Ma anche un film audace e temerario che dimostra fino a quali magistrali vette di potenzialità puoi giungere attraverso la tua cinepresa; che dimostra come la Regia è tanto più eccelsa quanto più s’adegua a quello che racconta mettendosi al servizio delle vicende narrate.
Solo per un unico momento in tutto il film, li vediamo insieme, quei due, Elwood e Turner. Dico: nella stessa inquadratura. Li vediamo dall’alto, mentre loro ci guardano in faccia, proprio perché stanno guardando in alto. Come alla ricerca di qualcosa che non appartiene a quel Mondo. Come se per un breve, fulgido momento ci potesse essere qualcosa di meglio. Ma è solo un momento. Perché per il resto del tempo, questo film fa una cosa che è la più importante di tutte: ti impedisce di guardare dall’altra parte. Tutto dai loro occhi. Che sono anche tuoi. E la Vita che loro “devono” allo Stato, diviene anche la Tua. Il loro debito diventa il Tuo. Come è giusto che sia, perché siamo tutti Esseri Umani e quando l’inenarrabile accade a chi è come Te, quel qualcosa accade anche a Te. E allora devi narrarlo.
“Se tutti guardiamo dall’altra parte, allora diventiamo complici. Se io guardo dall’altra parte, sono colpevole quanto gli altri. Non dovrebbe essere così” dice Elwood a Turner. E Turner risponde: “A nessuno importa di come dovrebbe essere”.
Ma forse, se ancora si fanno perle del genere e ancora vogliamo vivere storie di questo tipo vivendole come fossero la Nostra, dopotutto a qualcuno deve pur importare di come dovrebbe essere.


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