Suggestioni – Sterminio. Roberto Benigni, Primo Levi e Ruta Sepetys attraverso l’umanità annientata e resiliente

DI SARA NOEMI SCATOLA

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

In apertura del libro Se questo è un uomo, troviamo questa poesia, scritta da Primo Levi. La prima parola che vediamo è voi. Voi, che non avete percepito la morte strisciare lentamente e grondare sulla vostra pelle giorno dopo giorno. Voi, che siete rientrati stanchi – felici – sollevati – affranti – allegri nelle vostre case calde alla fine della giornata. Voi. Voi che il << campo di annientamento >> non lo avete vissuto. Oh no. Non lo avete vissuto affatto. 

Quel voi, suona quasi come un’accusa, una rabbia affaticata verso noi, noi che non ne sappiamo nulla, che sostiamo nell’agio e nella sicurezza delle nostre abitazioni e non dobbiamo vivere nel dubbio di quel che sarà dei nostri corpi e delle nostre vite l’indomani.

Così scrive Primo Levi nelle pagine del suo libro:

“Il bisogno di raccontare agli <<altri>>, di fare gli <<altri>> partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza […]. Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato”.

Il Lager sembra ormai parte della sua identità. Levi non può più considerarsi un uomo come prima, perché adesso è un uomo che ha vissuto il campo di sterminio. E raccontare il dolore, e condividerlo con chi ha fatto esperienza delle medesime atrocità, è l’unica cosa che può rendere il dolore meno amaro.

Quel voi all’inizio della poesia – così come quell’altri inserito tra le virgolette nelle parole di Levi – vuole quasi forgiare una netta distinzione dell’umanità in due categorie ben distinte: chi ha vissuto il campo di sterminio, e chi non lo ha vissuto. Non c’è altra distinzione che abbia importanza. E noi, in quanto parte del gruppo di chi non ha vissuto il campo di sterminio, abbiamo il dovere di ricordare.

È affascinante riflettere sulle parole. Ricordare. Nel mezzo del ricordare sta il –cor, che in latino significa cuore. In inglese, ricordare si dice remember. Spesso, nelle conversazioni, mi viene da usare una storpiatura – o forse, chissà, una meravigliosa unione – della parola inglese e di quella italiana: rimembrare. Ecco, questo termine, rimembrare, suona giusto al mio ascolto. Riportare alle membra. 

Qualunque di questi tre termini vi risuoni più vicino all’anima – ricordare, remember, rimembrare –, il significato è sempre questo: riavvicinare al cuore e al corpo qualcosa che non va allontanato, che non va lasciato alla deriva come un relitto o una vecchia carcassa di un qualcosa che c’è stato e che se n’è andato. 

“Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo […]. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato di <<Campo di annientamento>>, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo”.

Il nostro compito dalle nostre case accoglienti è quello di ricordare a noi stessi e agli altri che – come ha detto Calvino – tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un giorno all’altro.

E se questa possibilità costante di disgregazione ci viene quasi augurata e scagliata addosso come una maledizione da Primo Levi nella sua poesia – o vi si sfaccia la casa/la malattia vi impedisca – per costringerci a guardare a tutte le grazie che abbiamo nella vita e che diamo per scontate, io invece voglio vederla in un altro modo: siamo grati, per tutte le grazie che la vita ci dona e per tutti i miracoli che l’universo nasconde.

(Primo Levi)

Il Buddha diceva:

“Se potessimo vedere il miracolo di un singolo fiore, l’intera nostra vita cambierebbe”. 

Nel caso dei <<campi di annientamento>>, cogliere e accorgersi delle piccole cose diventa una conseguenza del trovare, scovare o ricercare una gioia inaspettata in mezzo alle atrocità.

“Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia”.

E se il pensiero che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro può suonare come una cruda sentenza, allo stesso tempo ha insito il potere spettacolare di elevare a un piano aureo e divino la caducità e l’impermanenza umana. Perché, se davvero tutto ci può essere tolto, sprecare tempo a tormentarsi al pensiero della perdita? Perché, proprio per via della brevità delle cose, non valorizzare al massimo ogni istante di tempo che ci è concesso e ogni cosa scontata su questo mondo? In verità, nulla è scontato. E ce ne rendiamo conto solamente confrontando la nostra vita – una singola goccia nel mare dell’esistenza – con l’immensità del cosmo. In quest’ottica, nulla è scontato, tutto è miracolo. E la Vita – intesa come evento più grande e ancestrale della nostra presenza sulla Terra – allora, anche nel dolore, diviene stramaledettamente bella. Tanto bella che a pensarci, paradossalmente, il petto dole di una fitta pungente, consapevole di tutti i miracoli che l’uomo ignora nella sua vita, sempre in cerca di un miracolo più grande.

Nel film La vita è bella, il grande Roberto Benigni interpreta Guido Orefice, uomo dalla vitalità traboccante. La sua gioia per la vita straborda dagli argini della sua persona, è incontenibile, è contagiosa. La vita è bella e non c’è tempo per disprezzarla. La vita è bella e non c’è tempo per lasciar vincere in battaglia la paura

Guido trasforma tutto in gioco, persino il campo di sterminio. 

Insieme a suo figlio Giosuè, Guido – in quanto ebreo – viene portato via sul treno diretto al campo di concentramento. Inizialmente, non ci accorgiamo né pensiamo che Guido e la sua famiglia saranno prelevati a forza e spediti al campo. Il presagio della deportazione si insinua gradualmente nel film, e noi rimaniamo quasi confusi e dimentichi dei messaggi di allarme di fronte alla gioia di Guido, al suo amore per la vita, per la sua principessa – Dora – e per suo figlio Giosuè.

Guido non poteva lasciare che suo figlio fosse divorato dal timore della morte una volta giunto al campo di concentramento. E così, inventa. Finge. Scappa, se non con il corpo, con la mente. In quel posto grigio con gli uomini cattivi che urlano si gioca a un gioco, e alla fine del gioco si vince un carro armato. 

E così Giosuè gioca, e, alla fine, il carro armato arriva davvero.

In questa resilienza e voracità di vita di Benigni, La vita è bella mi ricorda una frase di Albert Camus, che l’autrice Ruta Sepetys cita all’interno del suo libro Avevano spento anche la luna, il quale racconta la storia di una giovane disegnatrice deportata dalla Lituania nei gulag staliniani:

“Alla fine ho imparato che, anche nel profondo dell’inverno, dentro di me, regnava un’invincibile estate”.

A leggerla così, forse, può suonare un po’ come le frasi che si leggevano un tempo su Tumblr, ma concentratevi sul significato, sulla forza che queste parole sono in grado di infondere a un animo perso e stanco. Provate a ripeterlo nella vostra testa, oppure ad alta voce, come preferite: dentro di me regna un’invincibile estate, dentro di me regna un’invincibile estate, dentro di me regna un’invincibile estate. Ripetetelo con consapevolezza e credeteci. Vedrete che sentirete qualcosa smuoversi dentro di voi e, piano piano, sorgere un sorriso sulle vostre labbra, magari sottile come uno spicchio della Luna all’inizio del suo ciclo celeste, ma lo sentirete, e sarete sereni, anche solo per un attimo.

Lina – la protagonista di Avevano spento anche la luna -, sua madre Elena e suo fratello Jonas sono disorientati e disarmati di fronte all’improvvisa irruzione delle guardie russe nella loro casa. Il viaggio nei vagoni del bestiame verso una meta sconosciuta pare interminabile, asfissiante, soffocante. In queste condizioni disumane, assistiamo a due tendenze opposte nei comportamenti delle persone deportate: un istinto all’altruismo e all’unione nella disgrazia, e un protettivo egoismo volto alla preservazione personale. 

(Ruta Sepetys)

A ogni visione di speranza corrisponde una risposta scettica e rovinosa:

“Mi svegliai di soprassalto accanto a Jonas e Andrius. Il portellone del nostro vagone era stato chiuso e sbarrato. Fummo presi tutti dal panico […].

<< Signora dei Libri, ci racconta una storia? >> domandò la ragazzina con la bambola.

<< Mamma >>, piagnucolò una vocina. <<Ho paura. Accendi la luce. >>

<< Qualcuno ha portato una lanterna? >> chiese uno.

<< Certo, e in tasca ho anche un pasto di quattro portate >>, disse il calvo.

<< Signor Stalas >>, replicò la mamma, << la prego, stiamo facendo tutti del nostro meglio. >>

<< Ragazza >>, mi ordinò lui, << guarda un po’ fuori da quella piccola feritoia e dicci cosa vedi. >>

Mi spostai nella parte anteriore del vagone e mi issai. << Il sole sta sorgendo >>, dissi.

<< Risparmiaci la poesia >>, sbottò il calvo.

Essere combattuti tra il bisogno di sperare e la tentazione di cedere di fronte alla realtà che prende a schiaffi. 

La prima volta che ho letto Avevano spento anche la luna avevo tredici anni, andavo alle medie ed ero ancora una bambina. Adesso, dieci anni dopo, per scrivere questo articolo, l’ho letto una seconda volta. Era una cosa che volevo già fare da tempo, ma avendo un numero non indifferente di libri che ancora dovevano essere letti, ho sempre rimandato questo momento. Dieci anni fa lo consideravo uno dei miei libri preferiti. A dieci anni di distanza, questo libro ha ancora lo stesso impatto emotivo che ha avuto sulla me bambina. Sarà davvero questo, il potere delle belle storie, di quelle storie che ci portiamo dentro per tutta la vita.

Questa però, non è solo una storia. Nessuna delle storie descritte in questo articolo è davvero solo una storia. 

Queste storie sono realtà. Realtà che ci sono state. E che non possiamo ignorare o dimenticare. Lasciamo dunque aperto uno spazio nella nostra memoria per il ricordo del passato, che non è un nemico giudicante, ma piuttosto uno spiraglio su quello che abbiamo la possibilità di cambiare.

Se credi anche tu che raccontare Storie serva a dare un senso a quello che nella Vita vita forse senso non ha, devi per forza leggere questo articolo!!!

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