DI CHRISTIAN PAROLIN
Sta per arrivare mio nipote. Ha otto anni, di altezza media e bello paffuto. Ogni volta che mi salta sulle ginocchia per cingermi il collo e darmi un bacio sulla guancia stringo gli occhi e vedo una serie di piccolissimi fulmini bianchi e neri. Orbitano in uno schermo viola e poi cominciano a scendere, fino a scomparire. Io li osservo e più lo faccio più aumenta la loro velocità di picchiata. A essere franco, la sua tenerezza fa più male che bene al mio corpo, ma per la mente e il cuore l’effetto è quello di una fetta di torta di carote fatta in casa da mia figlia. Non ci mette zucchero, niente uova né dolcificanti; solo un pizzico di aroma all’arancia. E sopra una spolverata di mandorle tritate. Il mio stomaco non può più reggere un pasto completo a base di panini abbrustoliti con hamburger di maiale e peperoni con contorno di costolette e patatine fritte, però un buon piatto di carne bollita e una fetta di torta con una tazza di tè è quasi meglio.
Gianluca è l’unico nipote che Viviana mi abbia donato e potete immaginare con quanta facilità io e mia moglie l’abbiamo viziato. È buono come il pane, sensibile, timido fino al midollo e ha il cuore più grande di tutta la famiglia Baggio messa insieme. Non so come lo trattino i suoi coetanei a scuola, ma so che, tutte le volte che lo vedo, non riesco a trattenere il pianto negli occhi. È più forte di me; devo strizzare quel fagotto di carne e ringraziare il Signore per la Benedizione che mi ha concesso.
La domenica pranziamo tutti insieme qui da noi: Viviana e suo marito Andrea portano la torta e una bottiglia di vino, Gianluca porta il suo zainetto rosso pieno di soldatini e carri armati e jeep e Cargo e Bomber e mia moglie Carla prepara la carne lessa, con contorno di verdure al vapore.
Mangiamo a mezzogiorno spaccato, non un minuto prima né uno dopo, e per l’una siamo già al tè e al caffè con la torta di mia figlia al centro del tavolo. Non va mai mangiata tutta a pranzo, ed è una pacchia perché l’avanzo resta tutto a me.
Sono le undici e venti di domenica e mio nipote sta per arrivare. Gli piace venire in anticipo perché prima di pranzo gli racconto una storia. La maggior parte di esse sono inventate: una volta gli ho detto che da bambino ho sorpreso Babbo Natale a parcheggiare la slitta dietro casa, dove adesso la sua mamma mette l’auto; un’altra volta che ho visto il cielo riempirsi di farfalle di tutti i colori, ed è rimasto buio per diversi minuti, finché lo stormo non si è sciolto e sono tutte volate di nuovo tra i fiori (la sera prima della storiella avevo mangiato così tanto che faticavo a tenere gli occhi aperti). Un’altra storia ancora è quella della talpa con un martello che spunta dalla terra ogni volta che si lancia una cartaccia. Questa credo sia una delle mie invenzioni più azzeccate, perché non mi risulta di avere un vandalo per nipote.
Altre volte capita che gli racconti delle storie vere o che lo sono in parte. Spesso risalgono a quand’ero ragazzo, o sono aneddoti della mia vita matrimoniale, come quando gli ho riferito che ho sentito la nonna parlare da sola. Gianluca era scoppiato a ridere e aveva ripetuto instancabile: «La nonna parla da sola!». Non sono sicuro li capisca fino in fondo, almeno non tutti, ma lo fanno ridere e nei suoi occhi leggo fame di sapere e di immergersi a fondo nella storia.
Appena entra, grida: «Nonno!» e mi salta in braccio.
«Ciao, Giangi».
«Come stanno le ginocchia?» mi chiede.
«Meglio di ieri, Giangi» gli dico tutte le volte.
Lui si stringe su di me un’altra volta, con la piccola testa morbida appoggiata alla mia gabbia toracica sporgente, poi si rialza e mi guarda come se non servissero nemmeno le parole.
«Che storia verrà fuori oggi dal gran tascone del nonno?».
Gianluca si illumina mentre frugo nelle tasche del gilet. Tiro fuori una Galatina.
«To’! Cos’ho trovato!». Se la mette in bocca e so che la succhierà il più possibile prima di masticarla, perché gli piace il gusto del latte in polvere.
«Che storia c’è?» mi chiede con la voce pastosa.
Che storia c’è, questa volta? Dopo due anni e circa un centinaio di storie, mi viene sempre più difficile estrarre qualcosa dal taschino del mio gilet. Potrei raccontargli di quella volta che sono salito sull’albero di ciliegie delle scuole elementari e che ho dormito su quell’albero perché avevo paura che mi scoprissero e lo dicessero a mio padre; potrei raccontargli di come la nonna ha mangiato cinque Polaretti uno dietro l’altro per impedire a me di mangiarli e poi non si è alzata dal water per quattro ore. Erano i miei preferiti, all’arancia, al limone e alla ciliegia, e ancora adesso, a distanza di mesi, mi arrabbio con Carla se ci ripenso.
«Oggi, Giangi, c’è la storia del ragazzino gigante».
Lui smette per un momento di succhiare la pastiglietta bianca e mi guarda. Forse si aspettava un titolo più accattivante, forse il mio è tiepido. Spero non peggiori quando si renderà conto che, effettivamente, è una storia tiepida. Non c’è nessun mostro, nessun fantasma e nessun oggetto che si muove da solo e che sussurra cose brutte a chi lo prende in mano. Tuttavia, ho deciso che gli racconterò proprio questo perché mi è rimasto impresso nella memoria e mi capita di pensarci tutt’oggi. È un episodio che non ho mai raccontato a nessuno. Gianluca è a cavalcioni sulle mie gambe e ha il viso di un angelo che ho paura sia troppo delicato per questo mondo bastardo.
«Allora, sei pronto?».
Ci sono questi due signori che osservano il progredire di un cantiere. Si chiamano Guglielmo e Battisto. Tengono le mani dietro la schiena e non le muovono nemmeno per fumare la sigaretta; lasciano che siano le labbra a occuparsi di tutto. È fine giugno e il sole brucia le loro teste pelate. Siamo appena fuori città e quel cantiere diverrà un palazzo condominiale di dodici piani.
«I lavori procedono a rilento» commenta Guglielmo.
«Di questo passo, lo finiranno per Natale» dice Battisto.
Guglielmo si mette a contare con le dita.
«Ascoltami qua, hanno appena gettato le fondamenta. Per Natale mi sembra che sarà difficile in ogni caso, no?».
Battisto scrolla le spalle. «Ti sembro un carpentiere?».
Guglielmo si guarda le scarpe, pulisce le suole sul cordolo del marciapiede e nota un ragazzino. Sulle prime, lo scambia per una palla demolitrice sporca di vernice bianca.
«Ti interessano i cantieri?» gli domanda.
Il ragazzino si volta verso di lui e annuisce senza però guardarlo in faccia.
«Stai parlando con me?» gli chiede Battisto.
Guglielmo gli dice di no e fa un passo indietro.
«Parlo con lui. Cominciano sempre prima a saltare la scuola. Almeno noialtri scappavamo dal recinto del cortile».
«Abbiamo rifatto la quarta elementare tre volte, però».
Si accorsero che il ragazzino aveva qualcosa in mano.
«Vuoi diventare un carpentiere, da grande?» gli chiede Battisto.
Il ragazzino fa un cenno di diniego.
«E perché stai qua con due vecchi invece di andare a giocare con i tuoi amici?».
Il ragazzino rimane immobile, tanto che i due signori temono di aver detto qualcosa di grave. Solo quando alza il braccio e dà un morso alla barretta che tiene in mano, i due si rendono conto che il tempo si era cristallizzato.
«Ragazzo, guardami un attimo» dice Battisto. «Non sono tuo padre, ma mi sembra giusto dirti che sei in sovrappeso. Quella roba che stai mangiando non ti fa bene».
Il ragazzino gliela fa vedere, quasi gliela lancia in faccia. «È proteica. La mamma dice che fa bene».
Battisto sputa la sigaretta oltre la rete arancione e inforca gli occhiali appesi al collo.
«Scusa, me la fai vedere bene? È una barretta al cioccolato come un’altra. Se guardi dietro, ci sono i valori nutrizionali. Questi li devi guardare ogni volta che compri un qualcosa da mangiare. Ascolta: tutta questa barretta ha più di duecentosettanta calorie, tutti carboidrati e zuccheri e grassi saturi, cioè cattivi. Le proteine qui dentro non sono rilevanti; non soffermarti sulla grammatura, pensa piuttosto alla fonte dalla quale sono ricavate: polvere di latte, è sterile. Un panino con il petto di pollo ti fa decisamente meglio di questa porcheria».
Guglielmo nota che il ragazzino ha gli occhi lucidi.
«Ridagliela» dice a Battisto.
Battisto gli restituisce la barretta e si volta verso il cantiere. Guglielmo fa lo stesso.
Passa un’ora. Sul naso di Guglielmo si posa una mosca e questo lo distrae; guarda alla sua destra e vede che il ragazzino tiene una barretta per mano e che morde prima una e poi l’altra, con pause non più lunghe di due secondi. Poveretto, pensa, e nel momento in cui fa per voltarsi verso Battisto ed esprimere il suo disappunto, il ragazzino comincia ad allungarsi e allargarsi e diventa così alto che copre il sole. Entra nel cantiere e comincia a montare il palazzo piano per piano. Mette le finestre, le porte, le grondaie, i balconi. I macchinari si fermano e gli operai rimangono di stucco. Una macchina umana che splende nel primo pomeriggio. Nel giro di quindici minuti il palazzo è pronto. Il ragazzino esce dal cantiere e si siede su un pezzo di terra vuoto, e lentamente torna alle dimensioni consuete. Guglielmo e Battisto gli si avvicinano a passo di formica, con la bocca aperta. La mosca è entrata in bocca a Guglielmo e lui l’ha ingoiata senza nemmeno accorgersene.
Scoprono che il ragazzino russa, con la faccia sporca di cioccolato e uno sguardo molto triste.
Lo svegliano a ceffoni.
«Stai bene?» chiede Battisto. «Sono le otto di sera, hai dormito sette ore».
Il ragazzino sembra scosso; tenta di alzarsi ma la ciccia gli fa da ostacolo. Guglielmo e Battisto lo aiutano, anche se costerà loro una notte di dolori alle braccia.
Il ragazzino si pulisce la faccia con la maglia bianca, lascia una macchia grossa quanto la sua faccia.
«La mamma si arrabbia tanto se non mangio» dice e si mette a correre.
«Che schifo veder correre un ciccione» dice Guglielmo.
Un mese più tardi iniziano i lavori per un cantiere poco distante dal precedente. Si tratta di un palazzo di trenta piani. Guglielmo e Battisto sono in prima fila, appesi alle reti, con occhi e bocche spalancate: nessun macchinario, nessun operaio; solo il ragazzino, con la testa che tocca il cielo.
«Ha fatto strada, non c’è che dire» dice Guglielmo.
«Questa storia non mi piace» risponde Battisto.
Quando il ragazzino rimpicciolisce, i due fanno il giro della rete finché non trovano un buco da cui poterlo chiamare. Il ragazzino li raggiunge.
«Si può sapere cosa fai?» gli chiede Battisto.
Il ragazzino non lo guarda. Dalle tasche degli stessi pantaloncini della volta prima spuntano barrette proteiche.
«Allora? Sei così stanco di lavorare che ti sei mangiato la lingua?».
Il ragazzino scuote la testa.
«Un uomo è venuto a casa e ha detto alla mamma che vuole assumermi. La mamma ha chiesto quanti soldi le avrebbe dato e lui le ha detto cinque euro all’ora. Lei ha detto che ne vuole almeno sette e lui ha detto va bene, che tanto io avrei costruito il palazzo in meno di due. La mamma era così felice che mi ha ricompensato portandomi al McDonald’s».
Battisto borbotta.
«Com’è possibile che diventi un gigante?» chiede Guglielmo.
«Quando mangio tanto sono felice e a volte succede che mi allungo. Più mangio e più probabilità ci sono che succeda. Se mangio cose sporche le probabilità calano. Se però mangio queste barrette mi allungo sempre. Me ne bastano tre, divento grande, lavoro per quindici minuti, a volte venti, poi torno piccolo, dormo per trenta minuti, mangio altre tre barrette e torno grande. Qualche volta succede che vomito dopo essere tornato piccolo, ma solo quando mi sforzo troppo. L’uomo che mi ha assunto mi ha comprato cinquanta barrette».
«Caporale» ringhia Guglielmo.
«Io sono felice perché la mamma non mi urla più addosso e non mi dice più che sono un ciccione. Non è più arrabbiata con me e qualche volte mi dà una carezza sui capelli, dopo che me li sono lavati».
Battisto gli posa le mani sulle spalle.
«Come ti chiami?».
Il ragazzino si chiude in sé stesso.
«Rispondi, ragazzo. Come ti chiami?».
«Leo».
«Leo, smettila immediatamente di mangiare questa porcheria. Distruggerà il tuo stomaco, il tuo fegato e la tua vita. Dì alla mamma di portarti da un nutrizionista, dille di comprarti cinquanta chili di verdura, non cinquanta barrette. Scegli uno sport che ti piace e fallo tutti i giorni. Ascolta un uomo più vecchio, Leo, uno che sa di cosa parla».
«Una volta ho detto alla mamma che volevo giocare a calcio. Ho fatto il primo allenamento e lei a metà mi ha preso e mi ha portato a casa dicendo che fa schifo veder correre un ciccione. Mi ha portato in un bar, mi ha comprato un tramezzino e una brioche e mi ha lasciato là perché doveva andare al lavoro. Io mi annoiavo e allora ho preso tramezzini e brioches finché non è tornata. In macchina mi ha dato uno schiaffo perché aveva speso troppi soldi per colpa mia che ero un ciccione. Io allora ho preso dei biscotti che nascondo in camera mia e ho mangiato perché mangiare non mi fa sentire il dolore. Anche se a volte vomito. Quando sono molto triste non mi allungo».
Guglielmo e Battisto rimangono di sasso. Le mani di Battisto non sono più appoggiate sulle spalle di Leo, fluttuano a mezz’aria.
«Ehi, ragazzino!» grida qualcuno dal cantiere. «Muoviti, è finita la pausa.»
Leo si strofina gli occhi. «Non ho dormito!» e piange ancora più forte. Corre al cantiere e intanto mangia barrette.
«Non gli hanno nemmeno insegnato a piangere» dice Battisto.
«Che schifo dev’essere la sua vita» dice Guglielmo. «Vuoi una sigaretta?».
«Dobbiamo aiutarlo».
«Perché?».
«Guardalo. Non arriverà all’adolescenza se continua così». Nel frattempo, Leo si è messo all’opera. «Sua madre è una carogna e l’imprenditore che lo ha “assunto” … ridicolo… è anche peggio».
«E cosa vorresti fare? Rapirlo?».
Battisto si accende una sigaretta. «Sì».
Il giorno dopo si presentano al cantiere di primo mattino e aspettano Leo. Lo vedono arrivare con le tasche piene e le mascelle in movimento, testa china e gli stessi vestiti di tutti i giorni. Battisto avverte un brontolio allo stomaco e scuote la testa. Guglielmo è nella macchina accesa posteggiata qualche metro più indietro.
Leo scorge i due signori, rallenta, poi riprende a camminare.
«Ciao, ragazzo».
«Ciao».
«Sei a buon punto, vedo».
«Mi mancano gli ultimi sei piani. Il capo si è arrabbiato perché ci sto mettendo più del previsto e ha detto che se oggi non finisco le ore extra me le paga la metà. La mamma si è arrabbiata ed è da ieri che non mi parla».
«E papà che ne pensa?».
«Io non ho un papà».
Leo scarta una barretta.
«Ma perché rimani in quella casa? Perché non prendi due stracci, due soldi e due scarpe e non te ne vai?».
Leo si acciglia.
«Parlo sul serio. Vattene da lì. Chiedi rifugio alla Caritas, per un po’ ti possono ospitare. O ai servizi sociali. Io ti posso aiutare».
Leo comincia ad arretrare e Battisto tenta di fermarlo, ma Guglielmo gli si presenta accanto.
«C’è la polizia!».
Battisto alza gli occhi e vede una volante svoltare e fermarsi dietro la loro auto. Frattanto, due operai si fanno appresso a Leo.
«È ora di cominciare, ragazzo».
«Siete autorizzati?» domanda l’agente a Battisto e Guglielmo.
«Stiamo solo guardando» dice Battisto. «Non è reato».
«Stavate parlando con un minorenne».
«Potrebbe essere mio nipote, tu che ne sai?».
«So che non è suo nipote. So che abbiamo già ricevuto una lamentela su due “strani uomini” che avvicinano un bambino. So che potrei portarvi in centrale e trattenervi per molestie».
Guglielmo afferra il gomito di Battisto. «Dai, andiamo a giocare a carte».
«Lasciami. E io potrei denunciare te per acconsentire che un minore venga sfruttato in questo modo. Avrà al massimo dieci anni ed è in cantiere, e ce l’avrà un contratto? Sarà in regola?».
«Potrei chiamare quelli dell’ispettorato e fare un controllo. Dopo aver portato voi due in centrale con l’accusa di molestie».
«Robe da matti. Maledetto tu e maledetto questo schifoso Paese».
«Un Paese dove due vecchi avvicinano un bambino con chiari intenti di rapimento. Quella macchina è accesa da quando siete qui, sbaglio?».
Battisto sta per replicare, ma Guglielmo lo blocca e lo spinge verso l’auto.
«Quel bambino va salvato! Guardalo, tra poco le gambe non lo reggeranno più! Vai a casa sua, accertati che le sue condizioni di vita siano adeguate a un bambino!».
«Basta, Cristo Santo!» gli dice Guglielmo. Parte in seconda e la macchina stride.
Battisto si volta, vede due operai imponenti scagliarsi contro un piccolo Leo, l’agente che risale sull’auto e poi la strada verso il bar.
Ci riprovano il pomeriggio, su insistenza di Battisto.
«Sono certo che sia ancora lì, se non a lavorare, perlomeno a riposare.»
Leo posa l’ultimo piano. Si vede soltanto un brillante pastrocchio bianco, azzurro e rosa. Nessun carabiniere.
Leo ha una finestra in mano, ma il suo corpo comincia a rimpicciolire.
«Gesù Cristo» dice Guglielmo. «Giù la testa!».
La finestra si schianta al suolo. A ruota si odono le grida degli operai.
«Ci tocca ricomprarla!».
«Muoviti, mangia ancora».
Battisto parte verso l’entrata del cantiere, ma Guglielmo lo ferma.
«Aspetta che si allontanino».
Aspettano. Gli operai si sfogano sul ragazzino e alla fine salgono sul loro furgone e se ne vanno.
«Forza» dice Battisto. «Non staranno via per molto. Saranno andati a comprare altre barrette».
Leo è in dormiveglia. Battisto lo schiaffeggia con il dorso della mano.
«Per oggi hai finito di lavorare. Dammi una mano a sollevarlo».
Il dolore è più intenso della prima volta.
«No!» si lamenta Leo. «Devo lavorare. La mamma dice che devo lavorare».
«Tua madre ti sfrutta per una miseria» dice Battisto. «È più nociva che salutare per te».
«Non voglio venire con voi, voglio la mia mamma!».
Leo ci prova, ma non è nelle condizioni di ribellarsi. Battisto e Guglielmo lo caricano sui sedili posteriori e lasciano il cantiere.
Leo comincia a piangere.
«Dove lo portiamo?» chiede Guglielmo.
«Non lo so».
«Mi hai fatto fare tutta ’sta fatica e manco sai cosa bisogna fare adesso?».
«Io volevo portarlo via da quell’inferno».
«Per buttarlo in un altro inferno?».
Leo tira calci e pugni alle portiere e ai sedili. Ne dà uno così forte a quello di Guglielmo che l’uomo perde il controllo dell’auto e per poco non sbatte contro un lampione.
«Fallo stare zitto!» dice.
«E come?».
«Dagli da mangiare».
«Non ho niente da mangiare!».
Guglielmo bestemmia. «Guarda nel cruscotto. Forse c’è qualcosa».
«Non c’è niente».
Leo adesso se la prende con i finestrini.
«Mi distruggerà la macchina! Devi chiudergli quella bocca!».
Battisto si volta e tenta di calmarlo, ma Leo è ormai una pietra. Ha la bocca pasticciata di cioccolato, il viso tutto rosso, i capelli appiccicati alla fronte e un’espressioni porcina. Battisto non riesce a trattenersi.
Leo smette di piangere.
«Gli hai dato una sberla?».
«Non sapevo in che altro modo fare. Fermiamoci al supermercato. Gli prendiamo qualcosa da mangiare».
Stabiliscono che solo Guglielmo entrerà.
«Prendi una confezione di prosciutto crudo, dei crackers, del formaggio grana e una mela».
Guglielmo arriccia il naso e si guarda intorno. «Non direi che è così sano».
«Allora prendigli anche una barretta proteica».
Guglielmo bestemmia e va.
Battisto cerca di parlare con Leo, ma il ragazzino è nel suo mondo. Battisto deve guardare da un’altra parte per non colpirlo di nuovo e nel frattempo si chiede perché avverte impellente il bisogno di scagliarsi contro di lui.
Guglielmo è di ritorno con una borsa piena.
«Ho preso qualcosa anche per noi. Io non ho ancora pranzato».
Battisto è irritato perché ha perso tempo e gli ha disobbedito, ma si calma quando nota che Leo guarda il cibo.
«Tieni, scegli quello che più ti piace».
Leo fruga nella borsa. Rovescia tutto e opta per un sacchetto di biscotti da forno.
Battisto rivolge un’occhiataccia a Guglielmo.
«Quelli sono i miei preferiti» si lamenta Guglielmo.
«Perché non mangi la mela?» dice Battisto a Leo. Gli prende i biscotti dalle mani. Leo lo allontana in malo modo.
Dentro Battisto monta la furia. Gli strappa il sacchetto dalle mani e gli toglie dalla bocca il mezzo biscotto che sporge.
«Mi hai rotto le palle, ragazzino. Voglio aiutarti, lo capisci? Mangiare questa roba ti porterà nella tomba». Fruga tra la roba sparsa. «Dove sono le mele?»
Guglielmo fischia. «Orco! Non le ho prese. Quando vai al supermercato è così: entri per prendere due cose ed esci con il carrello pieno di tutto tranne che di quelle due cose».
Battisto prende un barattolo in vetro di sugo pronto e lo scaglia contro Guglielmo. Il barattolo si rompe sul parcheggio e il sugo schizza sui pantaloni di Guglielmo e sulle scarpe di Battisto.
«Adesso mi ridai i soldi, cane!» dice Guglielmo.
Battisto scarta il prosciutto crudo e lo ficca in bocca a Leo.
«Questo ti fa bene. Mangia questo».
Leo ingoia le fette tutte intere.
«Mastica, però».
Leo vede la barretta. L’afferra prima che Battisto possa impedirglielo.
In quel mentre, Guglielmo strattona il compagno per il colletto della camicia.
«Guarda un po’».
Il carabiniere di quella mattina si avvicina rapido.
«Dio di un Dio!».
«Signori, sono lieto di annunciarvi che siete in arresto per rapimento di minore, abuso di minore e pedinamento a danno di un minore».
«Sta dando i numeri?» dice Battisto.
«Quello sulla macchina chi è? Una donna ha chiamato in centrale sostenendo che due vecchi tenevano un comportamento inappropriato nei confronti di un bambino. Ha detto che è stata ingaggiata una lotta nella quale è stato lanciato un vasetto, e quello che vedo addosso a voi e sul parcheggio è ragù. Inoltre, il bambino dovrebbe essere in cantiere a dormire in vista del prossimo turno di lavoro. Gli operai sono andati a recuperare la finestra e a comprare altre barrette e non hanno trovato nessuno. Forza, datemi i polsi».
«Non può fare una cosa del genere» dice Guglielmo.
«Lei pensa che io stia giocando?».
«Non ti daremo il bambino» dice Battisto. «A costo di difenderlo con la mia vita, non permetterò che torni nelle grinfie di persone come sua madre e quell’imprenditore. È lui che dev’essere arrestato».
Il carabiniere mette mano alla pistola.
«Finora mi sono accontentato delle buone, ma sono sempre pronto a passare a quelle cattive. Amo quando le cose si fanno eccitanti».
Il conflitto non ha tempo per risolversi. La macchina di Guglielmo viene squarciata da Leo gigante. Si porta le mani allo stomaco, ha qualche conato e rutta. I finestrini delle auto più vecchie vanno in frantumi e gli alberi più alti rabbrividiscono. Dalla sua bocca piovono briciole di biscotti e grossi pezzetti di mandorle. Uno di essi colpisce sulla testa il carabiniere, che cade a terra con la lingua di fuori.
Guglielmo esulta con un balletto, salvo poi soffrire per le fitte ai piedi.
«E adesso come lo portiamo giù?» domanda Battisto. Si sente sereno.
«Lasciamo che faccia lui. Con tutto quello che ha mangiato, tra dieci minuti cadrà addormentato».
Leo osserva il paesaggio, sembra che non sappia dove si trovi. Poi si incammina nella direzione dalla quale sono venuti.
«Oh, no» dice Battisto.
«Che hai?».
«Vuole tornare in cantiere».
Lo seguono. In cantiere trovano i due operai, un uomo, che dev’essere l’imprenditore e una donna, che deve essere la madre di Leo.
Battisto frena Guglielmo e lo trascina dietro un edificio dal quale possono vedere il cantiere senza essere visti.
Leo comincia a rimpicciolire. Non appena torna piccolo, la donna gli rifila uno schiaffo che lo fa cadere a terra. L’imprenditore impartisce degli ordini agli operai e poi parla con la donna. Alla fine, i due sollevano Leo e lo trasportano su un mucchietto di terra, nel quale lo lasciano dormire, in vista del prossimo turno. Accanto al corpo, lasciano cadere qualche barretta proteica.
«E così finisce l’avventura» dice Guglielmo e dico anch’io a mio nipote. «Io me ne vado da Bin a mangiare qualcosa e poi a fare una pennichella, vieni?».
Battisto lo segue. Per strada, si strofina gli occhi con la manica della camicia.
«Ma non è finita!» dice Giangi.
«Hai ragione, e lo sai perché? Perché le belle storie non possono avere un finale. Nessun finale è mai all’altezza delle belle storie».
Lo sguardo di Gianluca è di rimprovero. «Non è vero! È che non hai il coraggio di inventarne uno».
La sua risposta mi lascia a bocca aperta. Entra mia figlia, mi dice che è mezzogiorno e mezzo, io le rispondo di sì e mi alzo, senza far caso a Gianluca, che mi cade dalle ginocchia.


Quanto conta finire una Storia col giusto finale? Finisci per cliccare qua e scoprilo!!!
Idem, come sopra: pigia qui!!!
Ti farebbe felice leggere un altro racconto? Allora premi qua sopra!!!