Quello che a scuola non ci dicono

DI EDOARDO VALENTE

Le cose che a scuola non ci dicono sono sicuramente tantissime, potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa.

Per fortuna esistono i sottotitoli, che possono donare maggiore chiarezza.

Il sottotitolo in questione è: Un’ingiustizia nascosta in merito all’Iliade.

L’Iliade? Sì, proprio il poema omerico, attorno al quale è presente un mistero che – personalmente – mi portavo sulle spalle dalle scuole medie. Ed è un mistero che, una volta svelato, ha fatto emergere una grandissima ingiustizia. E forse anche un certo sadismo nei confronti dei ragazzini delle medie.

Non so come a voi è stata presentata l’Iliade, non so con che testo di riferimento, ma quello che era stato scelto per me e i miei compagni di classe non era, penso, dei migliori. 

A molti (non voglio dire a tutti), è noto il glorioso incipit di questo poema:

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille

l’ira funesta …

E fin qua, bene o male, penso che ci sappiamo arrivare tutti.

Ma come continua?

… che infiniti addusse

lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco

generose travolse alme d’eroi

“Eh? Che cosa ha detto?” si staranno chiedendo in molti.

Non siamo neanche arrivati al quinto verso, e già ci sta venendo mal di testa, gli occhi si sono incrociati, la confusione galoppa nella prateria vuota del nostro cranio.

Prima di commentare, però, facciamo un altro giro su queste montagne russe del linguaggio, e arriviamo al primo punto. 

(Non preoccupatevi, è solo tra cinque versi).

e di cani e d’augelli orrido pasto

lor salme abbandonò (così di Giove 

l’alto consiglio s’adempìa), da quando

primamente disgiunse aspra contesa

il re de’ prodi Atride e il divo Achille.

Tiriamo un sospiro di sollievo, e cerchiamo di capirci qualcosa.

Ma di capirci qualcosa, su cosa? Le domande sono tante.

Innanzitutto: cosa c’è scritto?

Per poterlo capire bisogna fare un’attività insolita per un testo che, teoricamente, è già stato tradotto nella nostra lingua: una parafrasi. (Come quella che si fa per capire la Divina Commedia).

“O musa (in questo caso Calliope, la musa della poesia epica), canta l’ira di Achille Pelide (patronimico che significa figlio di Peleo), che molti dolori ha inferto agli Achei (i greci), gettando nell’Ade (gli inferi) numerose vite di valorosi eroi, rendendoli preda dei cani e degli uccelli – così si compiva il volere di Zeus – da quando si divisero litigando l’Atride signore di eroi (Agamennone figlio di Atreo) e il divino Achille.”

E anche così, che più chiaro non si può, la faccenda appare complicata.

Non è mio compito entrare nel merito delle vicende narrate all’interno del poema; l’interesse deve rimanere sul modo in cui è stato tradotto.

È arrivato il momento di puntare il dito contro il colpevole: Vincenzo Monti.

Monti è stato uno di quei tanti letterati italiani che a cavallo tra fine Settecento e inizio Ottocento, in pieno clima neoclassicista, si sono dedicati alla riscoperta – e alla traduzione – delle opere in greco antico e latino. 

Il più celebre di questi è sicuramente Ugo Foscolo, figura importante in questa vicenda.

(Vincenzo Monti)

Ma torniamo da Monti.

Considerato uno dei maggiori esponenti del neoclassicismo italiano, egli fu sicuramente un poeta che riuscì a fare quello che serve ad un poeta per vivere bene: farsi apprezzare dai potenti.

Dai nobili, ai papi, fino a Napoleone, Monti è stato assoldato per scrivere numerosi componimenti in versi, in favore di queste figure. Viveva, però, in un clima politico instabile e soggetto a repentini cambiamenti.

Sicuramente è facile e bello scrivere un’opera in onore di Napoleone, e a lui dedicata, quando egli domina l’Europa. E quando non c’è più? Che fare? Cambiare schieramento e supportare il nuovo governo.

Le critiche a Monti non si incentrarono unicamente sul suo repentino cambio di opinione politica. Quello che molto (o forse non troppo) fece discutere è la sua celebre, celeberrima traduzione dell’Iliade.

Sì, proprio quella che inizia come avete potuto leggere poco fa.

(Iliade tradotta da Monti)

Per semplificare la vicenda, immaginiamola così:

conosci due persone: una sa l’inglese da madrelingua, l’altra non lo conosce quasi per nulla, e se ne vanta pure.

I due decidono di tradurre un’opera dall’inglese. Magari Shakespeare.

Il primo si mette lì, e traduce minuziosamente, tenta di trasporre il senso originale, ma non è mai soddisfatto, perché si accorge che la traduzione non rende come la lingua di partenza; e alla fine non conclude l’opera.

Il secondo non legge direttamente l’originale, ma si rifà a qualche traduzione in italiano di altri che l’hanno già tradotta; a questo aggiunge una versione in spagnolo (lingua che conosce meglio dell’inglese) e alla fine mescola tutto, capisce il senso generale dell’opera, e la traduce con parole sue.

Questi sono rispettivamente Foscolo e Monti.

E se siamo qui a parlare della versione montiana, sappiamo chi dei due ha vinto.

Ma perché?

Il primo fatto non indifferente è che Monti è riuscito a tradurre tutta l’opera. Il suo, però, non era il primo celebre tentativo, ma qualcosa ha funzionato meglio. 

Quando aveva provato in gioventù, il risultato era stato mediocre, poiché è difficile adattare la metrica classica che contraddistingue i poemi omerici, alla metrica della tradizione italiana. 

È stato Foscolo stesso, però, a suggerire a Monti di riprovare, e quest’ultimo ha deciso di utilizzare gli endecasillabi sciolti. Si è rifatto alle versioni già esistenti in italiano, ha tradotto un po’ dal latino, e ci ha messo del suo. E dopo numerose riscritture, siamo arrivati alla versione che conosciamo ancora oggi. 

La versione di Monti non segue il rigore filologico, non traduce esattamente ciò che c’è scritto, ma abbellisce, esalta, aggiunge fronzoli. E questo, agli italiani, piacque.

In questo, secondo me, non va neanche sottovalutata la connotazione caratteriale di Monti, che, come abbiamo visto, sa come accontentare un pubblico. (Oltre alla sua tendenza a non inventare, ma a reinterpretare opere già esistenti). Egli aveva pensato non solo a cosa piace leggere, ma a cosa piace ascoltare, costruendo un poema improntato sulla recitazione. Ricco e pomposo, ma gradevole alle orecchie. Sapeva che le persone a cui lo avrebbe letto non sarebbero andate a contestare la precisione della traduzione: a chi importava? 

(Ugo Foscolo)

“Gran traduttor di traduttor di Omero”

Così lo ha appellato Foscolo, che per alterne vicende, da amico gli divenne rivale.

In un suo commento alla traduzione montiana scrive:

“Ha quasi sempre reso il senso delle parole omeriche, ma ha mancato bene spesso di afferrare quelle minute ed accessorie bellezze, che costituiscono nella realtà il pregio esclusivo di grandi scrittori, e che, per esser piuttosto sentite che non vedute inducono a disperazione i traduttori più provetti.”

E sicuramente l’imprecisione della traduzione è stata sottolineata nel tempo da molti critici, ma per quella che sembra essere una tendenza molto italiana, a non superare gli idoli, preferendo aggiungerne di altri ma mai sostituirne, la versione di Monti riesce sempre, in fondo, a venire difesa.

Sia chiaro: dei pregi li ha eccome. Monti ha creato una coerenza stilistica per tutti i ventiquattro canti, cosa non banale, ma va anche detto che aver fatto un po’ quello che gli pareva ha sicuramente aiutato.

Voglio fare il paragone definitivo.

Viene pubblicato un libro che piace tantissimo ai lettori, vende milioni di copie, ottiene un successo enorme. Dal libro vengono tratti due film. Il primo segue pedissequamente la trama, dando quel tiepido sentimento di fedeltà a chi attende la trasposizione cinematografica, ma senza aggiungere nulla di nuovo. Il secondo interpreta, fa sentire lo stile del regista, forza la trama, a volte la distorce, taglia i personaggi, fa di testa sua, e alla fine il risultato centra poco col libro di partenza. Ma piace di più al pubblico.

In molti possono avere un esempio di film (non per forza tratti dallo stesso libro) che hanno generato questo effetto.

Ecco: si tratta proprio di questo.

E alla fine il pubblico difenderà sempre la seconda versione.

C’è un’altra cosa importante che ha fatto Monti per l’epoca: ha intriso le vicende dell’Iliade di sapore contemporaneo, adattando il tutto al gusto della sua epoca.

E il gioco è fatto. L’attualizzazione (altro elemento di distorsione che, spesso, rovina le opere di partenza) ha sempre un forte impatto positivo sul pubblico.

Ed è qui, però, che l’intera vicenda si ribalta. È qui che la scuola italiana si tira un tomo da mille pagine sui piedi.

Se il valore dell’attualizzazione, della concordanza con lo spirito del tempo, è importante, allora, perché far leggere a degli adolescenti del 21esimo secolo la versione dell’Iliade in una traduzione di inizio Ottocento?

Perché?

Una risposta precisa, univoca, ovvero quella che piace al grande pubblico, ovviamente non c’è.

Ma c’è la mia risposta, la mia interpretazione, che è ciò che già accennavo precedentemente.

Si vuole davvero togliere agli italiani il loro idolo secolare? Davvero gli si vuole chiedere di cambiare? Non è meglio far imparare a memoria a dei bambini parole come “molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi”?

Non voglio essere frainteso, perché qualcuno potrebbe venire a dirmi che, allora, non ha neanche senso studiare la Divina Commedia perché è scritta in volgare del Trecento. Ma se qualcuno dovesse pensare a una tale critica, spero che si renda conto che noi la Commedia la possiamo leggere in originale per affinità con la nostra lingua madre, l’Iliade no, dobbiamo per forza leggerla in traduzione.

E quindi, perché leggerla in una traduzione dell’Ottocento?

Bella, senza dubbio, ma bella per gli uomini dell’Ottocento. Se è vero che piaceva a causa dell’attualizzazione, perché non si vuole attualizzare l’Iliade, a livello di traduzione, ai giorni nostri?

Questa storia a scuola non ce la raccontano, perché se dovessero farlo scoperchierebbero un vaso di Pandora dal quale uscirebbe la verità dei fatti, e farebbe crollare lo statico sistema al quale, purtroppo, siamo abituati.

Può sembrare una piccola cosa. 

Lo è.

Infatti, è nei dettagli che sta la grandezza.

Lo stato di salute dell’intero sistema scolastico di un Paese si può notare proprio a partire da quale traduzione di un testo in greco antico viene fatta studiare acriticamente agli studenti.

Ciò non significa che non si possa più studiare Monti, che è brutto e cattivo, via, sciò, alla larga. La sua versione, però, potrebbe essere studiata come un esempio di traduzione non letterale del testo. Dovrebbe essere analizzata. Non imparata a memoria.

Poi, chissà, magari tra cent’anni quando si chiederà a un bambino italiano come inizia l’Iliade, lui risponderà cantilenando:

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta…

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