Angel in the clouds on blue sky

Il gioco per risorgere (racconto) – “Ogni uomo è desiderio d’essere Dio”

DI MIRIAM PAOLETTI

Camminavo lanciando le chiavi sopra la testa, e, nel mentre che le riprendevo con la stessa mano, mi smarrivo nel gioco delle nuvole. Camminavo lungo le strade colme di quel colore dolce, buono, quello che acquieta l’anima, altrimenti indaffarata, e che scioglie i pensieri nella soddisfazione quieta liberata lungo il finire del giorno. 

Camminavo, ed aprivo le mani per sentire il vento scivolare fra le dita come se fosse o derivasse da me.

Non sapevo dove stessi andando; eppure mi piaceva perdermi per le strade desolate della città, continuamente, eternamente, fino al momento in cui mi balenava dinanzi quella sensazione che è eco dello stupore con cui gli eroi scoprivano inimmaginabili regioni e città segrete, gremite d’uomini così lontani al punto da sembrare divinità mostruose agli occhi degli estranei: riconoscevo in me la sensazione magica, scaturita da una implausibile convinzione, di poter modificare il passato, e quindi stringere nelle mani il proprio futuro.

I luoghi percorsi da me e dalla mia ombra, lembi altrimenti inaccostabili, si riallacciavano l’uno all’altro, l’uno dopo l’altro, venendo colti e trasfigurati e uniti in una nuova sintesi che mi permetteva di svelare l’esistenza di un misterioso ordine celato al di sotto di una patina ora usurpata; si ritorceva la coscienza sospettosa perché incapace di fidarsi della sensazione, seppure questa fosse così assoluta da non poter che apparire vera; fluiva la magia reale rivelata nella genuina sorpresa di fronte ad una rilettura così lampante del passato. 

Tutto ciò portava al voler credere che il passato non potesse essere solamente univoco! 

O meglio, non poteva che esserlo, nel succedersi metodico dei fatti vissuti nel momento in cui erano accaduti; tuttavia, la forma che loro possedevano in me, veniva da me plasmata nel momento in cui ripercorrevo quei luoghi, nell’attimo in cui un qualche spazio della mia testa tracciava una linea tra quegli accadimenti reciprocamente estranei prima della linea stessa. 

Ed io li riunivo camminandoci sopra.

Li levigavo, percorrendoli con lo sguardo

Ed era bello in quel modo banale per cui si dice di qualcosa che è semplicemente bello, intendendo sempre una molteplicità inesprimibile di significati racchiusi in quell’unica parola, divenuta ora ineluttabilmente responsabile

Mi sentivo allora capace di scoprire un senso profondo ed interno, corporale, inaccessibile a chi, a quei luoghi, non aveva loro permesso che d’essere vissuti una volta sola, mentre io possedevo il potere insignificante di creare storie; e tutto ciò semplicemente per il fatto che avevo scelto o non avevo scelto di perdermi per le strade della città deserta.

In me pesava la certezza dell’arbitrarietà di quel significato nascente: veniva da me, lo giuro, e lo faceva in un modo così evidente da non poter che essere accettato senza rammarico, senza malafede: rilasciava un’aurea sacra, era coronato dell’oro delle tavole medievali, di quelle illuminate dal sorriso mesto e dolcemente triste della Madonna.

Avevo un obiettivo vano: pensare. 

Non volevo pensare alla materia estranea, servita a mestolate, nelle carni aperte e cieche di chi riesce a mantenere disgiunte le cose che tocca con lo sguardo; non volevo farlo e non ero mai stata capace di farlo: non potevo riuscirci. 

Mi convincevo, invece, di volermi rendere consapevole d’ogni rimando del mio cranio; volevo raggiungere velocità infinite, volevo abbattere l’ossessione della malattia per esplodere nella pazzia, assistere all’appassire dell’Inferno e del suo sgretolarsi pezzo per pezzo, intravedere la speranza svuotarsi del suo stesso fiato, e volevo che tutto cadesse nel palmo della mano aperta, come cadono i fiori, in attesa di potersi celare nella forma del pugno. 

Anch’io anelavo alla pace.

Non quella degli uomini, ma quella degli angeli, o quella che desideravo che fosse degli angeli sopravvissuti nelle mie mani.

L’agognavo come i vecchi desiderano la vita: silenziosamente, pacatamente, ma con in serbo un candore unico, una costanza serrata nel fulcro d’ogni istante; tant’è che, l’unità del tempo, si tingeva di queste due note: 

l’Inferno, ed il desiderio di pace. L’Inferno, ed il desiderio di pace.

Io non volevo sentirmi morire. 

Allora camminavo nel buco che è la solitudine, fra brandelli di dialoghi e macerie di sogni, soltanto presente per il suono dei miei stessi passi.

Io volevo vivermi, o salvarmi, o vivere di questa salvezza; e nel mentre che pensavo, le catene che volevo sparissero si serravano ancor più alla gola, ed in esse si palesava la verità

Allora capivo che il tessuto del vuoto è lo stesso di quello di cui è intessuta la libertà. 

Comprendevo, e vedevo l’orrore di questa rivelazione sovrapporsi alla sua stessa magnificenza: lo stesso filo, ma diverse possibili forme create a seconda della mano usata: vuoto o libertà.

Chi può dire di non essere pazzo, se si sente svanire nell’inconcludenza del pensiero? 

Chi può dire di non essere pazzo, quando stringe fra le mani il prostituirsi di questa libertà inconsistente? 

Non è pazzo, chi vorrebbe solo ridursi in un punto del proprio sguardo, fisso in quello dell’altro, per poter toccare un’altra vita intoccabile, fin nei meandri oscuri delle sue profondità, per persuadersi finalmente che qualcun altro è vivo?

Il pensiero sfuma, si rifrange in specchi, mutua in quel pulviscolo che è magnificamente reale solamente perché, il cuore che a esso anela, è dall’altra parte della luce; dall’altra parte di questa faccia della luce, così infinitamente presente, da non poter che non esserlo.

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