Il cristallo – John Keats

DI EDOARDO VALENTE

Keats fu stroncato da una critica”, ci ricorda Edgar Allan Poe, che di critiche era maestro.

Ciò che in realtà ha stroncato il giovane poeta, poco più che venticinquenne, è stata la malattia che affliggeva la sua famiglia come una maledizione.

All’ombra dei grandi nomi, apprezzati già in vita, come Percy Shelley e Lord Byron, Keats è sempre rimasto in disparte rispetto al grande focolare della letteratura romantica inglese.

(Byron, Shelley e Keats)

A quindici anni rimane orfano, la madre muore di tubercolosi, e lui, i fratelli e le sorelle vengono affidati alle cure della nonna e a dei tutori legali, che instradano il giovane John verso la medicina.

Ha vent’anni quando, ormai pronto per intraprendere una carriera come medico, lascia prevalere la sua vera passione, la poesia, e decide di lasciare tutto per dedicarsi solo a essa.

È qui che inizia il periodo più intenso e interessante della sua vita.

A muoverlo è un ineguagliabile amore per l’opera di Shakespeare, e una grande ammirazione per il poeta Edmund Spenser, accentuata anche dall’amicizia con un altro poeta, Leigh Hunt.

Keats doveva essere un poeta, a tutti i costi. Ed è facile per noi, posteri, creare un mito attorno alla sua figura: ha arso così tanto per la poesia da consumare la sua stessa vita.

Abbandona una carriera sicura per dedicarsi alla sua passione, tenta di venire riconosciuto ma viene aspramente criticato e incompreso, spende la maggior parte del suo tempo a scrivere, e la malattia incombe sulla sua vita, sul suo successo e sulla sua felicità.

Eppure, prima della sua drammatica fine, ha avuto modo di assaporare quel sogno che avrebbe desiderato vivere con tutto sé stesso.

Grazie a Hunt era entrato in contatto con l’ambiente culturale dell’epoca, era in buoni rapporti con Percy Shelley, e una volta ebbe l’opportunità di fare una lunga passeggiata con Coleridge.

Nel 1817 iniziano i pochi anni della sua intensa carriera poetica

Ha un obiettivo: scrivere un poema di quattromila versi, si impegna per tutto l’anno e ci riesce. Così vede la luce Endymion, che riprendendo la tradizione della Grecia antica, racconta la storia del pastore Endimione, di cui la Luna si innamorò.

L’anno dopo il poema viene pubblicato, e recensito in maniera molto negativa.

Keats non si arrende, ma non è solo la carriera poetica a farlo soffrire. Il fratello minore Tom, da mesi sotto le sue cure, muore di tubercolosi. La stessa malattia che aveva ucciso la loro madre.

In quel momento di estrema difficoltà, Keats fa un incontro decisivo per la sua vita. Fanny Brawne fa la sua angelica apparizione, come se lo stesso poeta romantico stesse scrivendo la trama della sua vita, intrecciando i fili del dolore e dell’amore.

I due giovani – lei diciottenne, lui ventitreenne – provano fin da subito un interesse reciproco, che si trasforma ben presto in un forte sentimento.

(Dipinto di Fanny Brawne)

Così inizia quello che è stato definito l’annus mirabilis di Keats. Le sue poesie più celebri, le meravigliose Odi vengono composte in questo periodo, in cui le energie del giovane poeta vengono concentrate interamente nella sua arte, spronato dall’amore e stremato dalla malattia.

Quando ha il primo sbocco di sangue non ha bisogno di indagare sulle cause, ne riconosce il colore, lo aveva già visto due volte, con sua madre e suo fratello: è tubercolosi.

Lui e Fanny si fidanzano segretamente, ma la famiglia di lei non può approvare il matrimonio con un sedicente poeta, squattrinato e malato.

Keats nell’ultimo anno è costretto a stare isolato, per tentare di curare la malattia, e sente la mancanza dell’amata, che vorrebbe al contempo tenere lontana, proprio per l’impossibilità di vivere con lei. Si sente oppresso da ciò che ancora non è riuscito a scrivere, da quella gloria poetica che, forse, non riuscirà a conquistare.

Alcuni dei passaggi delle lettere scritte a lei sono tra i più strazianti che si possano immaginare: Keats era dilaniato tra amore e gelosia, afflato poetico e paura della morte, desiderio di morte e rifiuto per il mondo, e di nuovo amore e ambizione.

La malattia lo aveva incattivito, voleva che Fanny amasse solo lui, soffrisse per lui e per la sua malattia, che fosse anche lei triste poiché lui non poteva essere felice; al contempo, rendendosi conto di questo suo egoismo, si scusava, e chiedeva di cadere tra le sue braccia, o tra quelle delle morte.

“Non puoi immaginare quanto soffro per il desiderio di essere con te: sarei disposto a morire pur di stare un’ora vicino a te, che altro c’è a questo mondo?”.

“Quando smetto [di pensarti] è perché mi sembra che se ti pensassi ancora per un attimo potrei liquefarmi, dissolvermi. Non posso cedere, devo tornare a scrivere, se non ci riesco sarà duro morire”.

“Mi piacerebbe lasciar perdere tutto e subito, mi piacerebbe morire. Sono nauseato di questo mondo volgare al quale tu sorridi. […] Vorrei che tu mi infondessi un po’ di fiducia nel genere umano. Io non so trovarne nessuna; il mondo è troppo brutale per me, sono contento che ci siano le tombe, sono sicuro che non avrò riposo se non lì. […] Vorrei o essere tra le tue braccia pieno di fede, o che un fulmine mi colpisse”.

“Vorrei poter credere nell’immortalità”.

Esiste una remota possibilità di guarigione: andare dove il clima è meno umido, andare in Italia, dove lo stesso Shelley lo aveva invitato. Andare lontano dal suo amore.

Keats si imbarca con l’amico pittore Joseph Severn. A metà novembre del 1820 è a Roma, dove trascorre i suoi ultimi mesi di vita.

Decide in anticipo cosa far incidere sulla sua lapide, rimasta anonima per anni:

“Qui giace un poeta il cui nome fu scritto nell’acqua”.

Tre mesi prima di morire scriveva in una lettera ad un amico: 

“Ho continuamente il senso che la vita è ormai finita per me, e che vivo un’esistenza postuma”.

Ed è infatti postuma la fortuna che ha investito questo povero essere umano. Stroncato dalle critiche, dalla malattia, dalla sua stessa ambizione, dalla grandezza dei sentimenti che un animo sensibile come il suo non poteva reggere.

Una strana malinconia, una tristezza mista a tenerezza, mi pervade quando penso a Fanny Brawne. Una ragazza che tra i diciotto e i vent’anni è stata travolta dagli spropositati sentimenti di un giovane poco più grande di lei, che amava con una passione e uno struggimento tipico dei grandi artisti.

E poi è morto, suggellando una drammatica storia d’amore. Ma lei ha continuato a vivere, per altri quarantacinque anni.

Dopo la morte di Keats, lei si è tagliata i capelli, ha indossato l’anello che lui le aveva regalato, ed è stata in lutto per sei anni. Soltanto altri sei anni dopo ha deciso di sposarsi. Intanto aveva iniziato a scrivere per alcune riviste e a tradurre dal tedesco e dall’italiano.

Ma poco prima di morire, Fanny ha raccontato ai suoi figli di quell’amore giovanile, e ha affidato a loro le lettere che lui le aveva scritto, convinta del valore che avrebbero avuto in futuro.

Le ultime, struggenti, preoccupazioni di Keats – quando ormai ogni speranza poetica era irraggiungibile – erano tutte rivolte a Fanny. Non sopportava l’idea di morire perché significava lasciarla per sempre. Lui, che non l’avrebbe mai dimenticata e che mai voleva essere dimenticato da lei. Ma sapeva che la vita per lei sarebbe continuata, e la cosa migliore da fare era dimenticarlo.

Eppure, lei non l’ha fatto. Ed è riuscita comunque a vivere la sua vita, vivere in quel mondo al quale sorrideva, pur con dolore e difficoltà. E alla fine non l’ha dimenticato.

Come non lo abbiamo dimenticato noi.

A quel nome “scritto nell’acqua” è stato permesso di venire scolpito nella pietra. Lui che diceva di non aver “mai avuto paura di fallire”, perché “preferisco fallire che non essere tra i grandi”, ecco che nel suo apparente fallimento, è infine riuscito a “scalare la vetta della Poesia”.

E ora, nel nominare il travolgente Romanticismo inglese, di fianco ai grandi c’è anche lui.

John Keats, che non riusciva a credere nell’immortalità, è riuscito a credere così tanto nella poesia da divenire immortale.

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