DI EDOARDO VALENTE
Praga è una città kafkiana.
Questa è l’impressione che si può avere non appena si incontra il centro storico di questa splendida città.
Ma in che senso “kafkiana”?
Purtroppo per il povero Franz Kafka, dai suoi scritti è stato tratto (e snaturato) un termine che viene utilizzato spesso e volentieri a sproposito.
“Kafkiano” dovrebbe indicare una situazione paradossale, e spesso disperata, dalla quale non c’è via di scampo. Questo aggettivo viene frequentemente associato, ad esempio, alla labirintica burocrazia.
(Come quando vai all’ufficio passaporti per fare il rinnovo, e ti dicono che devi avere la prenotazione; vai sul sito per prenotare e non ci sono date disponibili; torni da loro a dire che non ti puoi prenotare dal sito, e loro dicono che ti devi prenotare dal sito; e così via…)
Prendendo, quindi, questo concetto in maniera un po’ laterale, Praga ai miei occhi è risultata kafkiana, soprattutto nell’architettura.
A partire dal luogo in cui ho alloggiato, nel cuore del quartiere ebraico, talmente nel cuore che dalla finestra della stanza potevo vedere le lapidi del vecchio cimitero.
E per arrivare alla stanza c’è stato un percorso particolare.
Bisognava salire al quinto piano, fare un chek-in elettronico per ottenere la chiave; dopodiché, scendere per una scala secondaria, interna, fino al terzo piano.
Confusi?
Anche io. Eppure, tutto sembrava nella norma, ed è questo che accresce quel sentore kafkiano: la normalità con la quale viene accettata una situazione paradossale.
Come quella delle chiese o delle sinagoghe praghesi.
Sulla piazza centrale della Città Vecchia svettano le appuntite guglie di una chiesa: Santa Maria di Tyn.
È una chiesa molto bella, costruita tra il Trecento e il Seicento, ma se vogliamo vederne la facciata… non possiamo.
La parte anteriore della chiesa è stata ricoperta da altre basse costruzioni che impediscono di poterne ammirare interamente la facciata dalla piazza.

Un’altra facciata particolare è quella della sinagoga spagnola.
Anche questa è molto bella, ma, anche in questo caso, è quasi nascosta. Si trova schiacciata tra il retro di un’alta chiesa e altre basse costruzioni. Non solo questo rende difficile ammirarla, ma si evidenzia anche il fatto che l’ingresso sembra non centrare nulla con la facciata. Non rende per nulla giustizia, tra l’altro, all’interno, che è stupendo.
Ad affiorare dall’asfalto, tra la chiesa e la sinagoga, si erge una statua dedicata al nostro Kafka, lì rappresentato a cavalcioni di una persona molto grande, o meglio, dei vestiti di questa persona: testa, mani e piedi non li ha.

Va detto: Kafka è una presenza costante a Praga, strumentalizzato tanto quanto l’aggettivo “kafkiano” (come io stesso ammetto di aver fatto).
La prima cosa che ho notato è stato il “Kafka hummus café”, di fianco alla “Franz Kafka Society”. Poi, oltre alla già citata statua, c’è la gigantesca e rotante testa dello scrittore che si può ammirare così come si ammira uno spettacolo di giochi di luci.
C’è il “Kafka museum”, la sua casa natale, un altro museo di fronte a questo (una specie di trappola per turisti); una piazza porta il suo nome, e naturalmente c’è la sua tomba, nel nuovo cimitero ebraico, ai cui piedi molti ammiratori postumi lasciano dei foglietti. Su molti di questi ci sono disegnati degli insetti.
Praga è così ossessionata da Kafka?
Parrebbe di sì, ma un motivo può esserci, e forse più di uno.
A me sembra, ribaltando la mia affermazione in apertura, che non sia tanto Praga ad essere kafkiana, ma fu Kafka ad essere profondamente praghese.
La letteratura serve ad una nazione, un popolo, anche per creare un’identità; poiché quella letteratura, quei libri, quegli autori catturano un’essenza, la incarnano e cristallizzano.
E per una città come Praga trovare questa identità è fondamentale.
Immaginate secoli di influenza germanica, poi asburgica, poi austroungarica. E poi, poco dopo la fine dell’età imperiale e la nascita di una repubblica, le invasioni naziste; e dopo quelle l’influenza sovietica.
Cosa resta, così, di un popolo, di una nazione, di una città?
“Praga, poesia che scompare” è il titolo di un breve scritto di Milan Kundera, altro celebre scrittore ceco, che facendo riferimento al verso di un poeta connazionale, cerca di far luce sulla cultura ceca.
Poiché, sostiene, la Repubblica Ceca (all’epoca Cecoslovacchia), fa parte di una “Europa secondaria”, lasciata da parte dagli Stati che scrivono la Storia: Germania, Francia, Inghilterra, Italia.
E la condizione di Kafka rispecchia benissimo questa, nonché è avvolta da una certa paradossalità (che quasi potremmo arrischiarci di definire… kafkiana).
Kafka ha scritto in tedesco, e quindi la sua opera viene considerata rilevante per la letteratura tedesca.
Ma Kafka era ceco, praghese, e le sue opere sono impregnate di quella cultura.
Inoltre, Kafka era ebreo, e questa influenza non è da sottovalutare. Ascrivendo ciò che ha scritto alla sola letteratura tedesca, poiché era la lingua da lui utilizzata, si cancella completamente il sostrato culturale che, invece, i suoi capolavori incarnano.
Ad avvicinarci molto alla realtà culturale della Cechia e di Praga è stato, appunto, Kundera.
Sempre all’interno di “Praga, poesia che scompare” ci parla di uno scrittore contemporaneo di Kafka, Jaroslav Hašek, autore di “Il buon soldato Sc’vèik”. Romanzo antimilitarista, utilizza satira e umorismo per criticare la situazione politica tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.


Ad un atteggiamento simile a quello del protagonista, Kundera racconta di aver assistito in tempo di Guerra Fredda.
Quando era stato eletto direttamente dai comandi URSS un nuovo capo di partito, al suo primo intervento pubblico i presenti iniziano a gridare “viva il partito!”, e continuano a inneggiare. Il nuovo capo di partito all’inizio è compiaciuto, ma risulta un po’ imbarazzato quando si accorge che non stanno smettendo di inneggiare. Dopo un quarto d’ora se ne va, senza aver fatto il suo discorso.
E nel primo romanzo di Kundera, “Lo scherzo”, è proprio a causa dell’ironia che il protagonista viene punito: per aver scritto una battuta sul partito ad una sua amica, viene processato e poi mandato ai lavori forzati.
Kundera torna alla drammaticità che si viveva in quegli anni in Cecoslovacchia, parlando della Primavera di Praga nel suo romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, nel quale i protagonisti, tutti assimilabili al mondo degli intellettuali, subiscono le ripercussioni delle repressioni del partito.


Lo stesso Kundera ha deciso di andare via dalla sua nazione, per trasferirsi in Francia, e rimanerci. E la lingua dei suoi scritti è passata dall’essere il ceco all’essere il francese.
Ancora una volta, stravolgimenti politici, insensate violenze politiche, hanno snaturato la cultura di un popolo.
Quella di Praga è una “poesia che scompare” poiché nel tempo ne è stata fatta sparire l’identità.
Il mondo di Kafka è sparito nella prima metà del Novecento. La Prima Guerra Mondiale ha fatto cessare l’impero, la Seconda ha colpito profondamente la popolazione ebraica. Tutte e tre le sorelle di Kafka sono morte nei campi di concentramento.
La Guerra Fredda, il comunismo in Cecoslovacchia, hanno fatto sparire, o fuggire, gli intellettuali.
Ma quando oggi si va a Praga, quella che si respira riesce ancora ad essere aria di epoche immortali. Dagli edifici del centro, alle chiese, alle sinagoghe; dal castello, ai ponti, alle strette vie.
A Praga, nonostante le ferite della Storia, o proprio in virtù di queste, esiste e resiste una poesia che nulla può far scomparire.


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