“La coscienza di Zeno” a Teatro: La Vita originale dei vermi con l’anima

DI ALBERTO GROMETTO

L’essere umano, si sa, fa un po’ schifo. È egoista, codardo, vigliacco, immaturo, inetto, incapace, goffo, ridicolo, falso, ipocrita, bugiardo, buonannulla. Eppure, proprio nel suo essere una persona orribile e disgustosa, ci fa pure una gran tenerezza, ci fa sorridere, ci sembra dolce dopotutto. Perché? Credo, perché, ci rivediamo in lui. Perché tutti quanti Noi, bene o male, poveri e stolti umani di cui farsi beffe, facciamo un po’ schifo. Con le nostre fisime e ossessioni e nevrosi e paure e preoccupazioni e recriminazioni e sensi di colpa ed egoismi e fallimenti da portare sulle spalle. Facciamo un po’ schifo. E in quello schifo, però, ci riconosciamo come “simili”.

La storia di ZENO COSINI è quella di un perdente, un loser, uno sfigato. E su questo non ci piove! Se c’è una cosa certa è che Zeno Cosini fa schifo. Il suo stesso cognome, a mio modo di vedere, racchiude un che di fallimentare. Quel “Cosini” mi è sempre parso voler alludere a “cose piccole”: e in effetti la sua è un’esistenza fatta di piccole cosette, molto diversa ad esempio da quella dei grandi personaggi della letteratura epica o cavalleresca o via dicendo. Lui è un piccolo ometto a cui, soprattutto, non riesce nulla.

(Dentro la splendida cornice del Teatro Carignano di Torino, il cast completo sul palcoscenico, acclamato dal pubblico esultante; da sinistra a destra: Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin, Ester Galazzi, Emanuele Fortunati, Alberto Fasoli, il Maestro Alessandro Haber, Valentina Violo, Stefano Scandaletti, Francesco Godina, Meredith Airò Farulla e Giovanni Schiavo)

Qualsiasi cosa tenti di fare, fallisce. Inizia a fumare da giovanissimo e dopodiché prova tutta la vita a smettere, senza riuscirci: la sua esistenza è costellata da “ultime sigarette”. Si invaghisce di una fanciulla alla quale non gli riesce di dichiararsi per lungo tempo, e quando poi ce la fa quella gli dà il due di picche; allora ripiega quella sera stessa sulla sorella, ma pure lei però lo respinge; e allora infine vira, sempre nell’arco della stessa serata, sulla meno attraente delle sorelle, che accetta di essere sua moglie. Si fa l’amante, senza provare per lei un vero amore, sentendosi anzi in colpa nei riguardi della consorte, al punto da desiderare di lasciare “l’amichetta”, senza però nemmeno in questo caso riuscirci… fino a quando non è lui ad essere “piantato” da lei.

Insomma, Zeno è quello che si può a tutti gli effetti definire come un inetto. Alquanto patetico e buffo. Sì, perché i sentimenti che suscita in noi sono ambivalenti. Perde, costantemente perde, ma proprio perché perdente noi ci rivediamo in lui. I suoi son pensieri gretti e meschini e veramente molto poco nobili, basti pensare che sposa la moglie perché l’unica delle sorelle che aveva puntato che gli dice sì! Però, detto in sincerità tra noi, tutti facciamo quel tipo di pensiero miserabile e povero che non diciamo, che non sveliamo, di cui forse manco ci rendiamo veramente conto. Ma che facciamo. 

Sì, perché qua sta il pregio grandissimo di uno dei massimi autori letterari nostrani quale Aron Hector Schmitz, meglio conosciuto col suo pseudonimo ITALO SVEVO.  Zeno è nato dalla sua penna, è il protagonista del suo capolavoro, «LA COSCIENZA DI ZENO», oggi studiato nelle scuole di tutto il Paese. Un libro che ha fatto la Storia proprio perché decide di raccontarti non le vicende epiche di un personaggio a metà tra il glorioso e il leggendario, no. Ti racconta invece le disgrazie e vicissitudini del più incapace dei falliti, ma soprattutto lo fa gettandoci completamente dentro la sua psiche, tra le sue emozioni, dentro di lui. Perché quello che leggiamo, nel momento in cui leggiamo questo romanzo, sono le memorie scritte in prima persona dallo stesso Zeno su suggerimento dello psichiatra che lo ha in cura: per questo il Cosini si presenta al nostro sguardo “nudo”, senza veli, mostrandosi per quello che è. E cos’è? Uno schifo?

(L’immortale autore Italo Svevo)

E qui viene il punto focale di questo mio articolo. Dal momento che ci troviamo dinanzi ad una perla di Scrittura nella quale a farla da padrone è la voce narrante del suo protagonista che racconta della sua vita e dei suoi pensieri, seguendo più che il filo logico degli eventi quello disordinato e caotico della sua emotività, capite che è impossibile riuscire a prendere tale materiale squisitamente letterario e trasformarlo in Teatro? Eppure l’impossibile è diventato possibile, e proprio davanti ai nostri occhi.

Ancora una volta il TEATRO STABILE DI TORINO ha saputo regalarci una meravigliosa visione delle più straordinarie possibili, nel caldo abbraccio di quel Tempio di Bellezza che è il TEATRO CARIGNANO. Le parole immortali di Italo Svevo si son trasformate in corpi, carne, sangue, scenografia, costumi, interpretazioni là, su quel palcoscenico. Un’opera che non è nata per essere “rappresentata” oppure “portata in scena”, ma che è sempre esistita “per essere letta”, racchiusa nelle “pagine di un libro”, è invece divenuta Teatro. Una produzione targata TEATRO STABILE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA e GOLDENART PRODUCTION che non si è limitata a regalarci l’adattamento teatrale, a firma di MONICA CODENA e PAOLO VALERIO (quest’ultimo anche eccellente regista della spettacolare messinscena) del monumentale gioiello sveviano, ma che ha saputo restituire le sue intenzioni, il suo spirito, la sua essenza: quella di un’indagine introspettivo-psicologica dalla quale emergono tutte le contraddizioni, debolezze, fragilità, tutto “lo schifo” di Zeno Cosini, così come però tutta la sua comica tenerezza e il suo essere spaventosamente, ridicolmente ma pure magnificamente umano. Come me, te, noi!

E come hanno fatto? Innanzitutto è stato messo al centro di tutto un interprete di straordinaria grandezza e ineguagliabile levatura quale il sacro Maestro ALESSANDRO HABER. Solamente un attore d’una bravura, d’un talento e di un’immensità quale Haber poteva regalarci un’interpretazione tanto magnetica, coinvolgente, profonda quanto quella da lui donataci nell’impersonare lo Zeno Cosini narratore nel mentre che si autonarra disvelandosi completamente, come se anziano guardasse indietro a quella che è stata la sua vita e mano nella mano ci accompagnasse per le quasi due ore di rappresentazione passo dopo passo, rimanendo costantemente in scena dall’inizio alla fine, mentre attorno a lui si dispiega una messinscena che dicevamo essere spettacolare, che fa utilizzo di una scenografia sulla carta minimale ma in realtà impressionante, che fa dell’uso del videomaking e di coreografie danzanti un punto di forza atto a conferire quel senso di introspezione psicologica di cui sopra. In tal senso, l’enorme occhio proiettato sul sipario, prima che tutto cominci, emoziona profondamente.

(Ecco il Maestro per eccellenza, il monumentale Alessandro Haber, nei panni del suo inimitabile Zeno Cosini)

Da una poltrona nera in pelle in tutto e per tutto rassomigliante – non a caso – alla classica poltrona da “studio psichiatrico” (seduto su quella poltrona per motivi di salute, il Maestro è infatti reduce da due recenti operazioni chirurgiche, tra cui un intervento alla schiena non riuscito perfettamente), Haber narra delle memorie di Zeno mentre il resto del cast le mette in scena. E infatti abbiamo in contemporanea sul palco due Cosini, quello anziano “narrante” e quello giovane “narrato”. Ma, qui sta l’intuizione geniale pazzesca alla base dell’intero allestimento, lo Zeno Narratore di Haber non è affatto un narratore che narra e basta, facendosi i fatti suoi e standosene in disparte nel suo. Lui interviene, interviene costantemente, manovra anzi tutto quanto arrivando a interrompere la rappresentazione più e più volte.

Balbettando, canticchiando, cantilenando, farfugliando, rompendo di continuo la quarta parete rivolgendosi direttamente al pubblico in sala, fermando i colleghi nel mentre che recitano la loro parte per fargli ripetere con altre intonazioni le battute che avevano appena finito di pronunciare, sostituendosi talvolta alla sua controparte giovane chiedendogli di fargli fare a lui quella scena, finendo dunque per assurgere così al ruolo di regista dei suoi stessi ricordi portati in vita dal resto del cast, il ritratto dipinto da Haber del Cosini è ironico, commovente, divertente, sagace, tagliente, acuto, ma soprattutto umano. Ambivalente e ambiguo come solo un umano lo può essere. E così come è Zeno. Tutti e due, dato che qui ne abbiamo due (e, per un breve momento, addirittura tre!): due Zeno che spesso e volentieri si mettono pure a conversare tra loro, come fossero vecchi amici. E, del resto, si conoscono da tutta la vita. 

(Scena insieme all’amante, nel corso della quale lo Zeno Cosini anziano e narratore si sostituisce alla sua controparte giovane e narrata)

Ne viene fuori un allestimento assolutamente metateatrale nel quale non vediamo andare in scena la vita del Cosini, ma piuttosto vediamo andare in scena il Cosini che racconta a Noi della vita dello stesso Cosini: proprio come nel romanzo! Accanto all’Haber/Zeno che narra, vediamo dispiegarsi quell’esistenza di cui racconta, impersonata da un egregio cast attoriale notevolissimo di cui menzioniamo e omaggiamo tutti gli interpreti: ALBERTO FASOLI, VALENTINA VIOLO, STEFANO SCANDALETTI, ESTER GALAZZI, EMANUELE FORTUNATI, FRANCESCO GODINA, MEREDITH AIRÒ FARULLA, CATERINA BENEVOLI, CHIARA PELLEGRIN e GIOVANNI SCHIAVO.

(Insieme alla sublime interprete del personaggio di Ada Malfenti, l’attrice Chiara Pellegrin, che il Comitato di Redazione ringrazia calorosamente)

Incredibile pensare a quello che sono stati capaci di realizzare: prendere un’opera letteraria che già di per sé racchiude una modernità in qualche misura immortale e farne un modernissimo spettacolo teatrale che ci getta addosso tutta la complessità memorabile di uno Zeno Cosini che parlando di sé, finisce in realtà per parlare di tutti noi. Al punto che lo stesso Alessandro Haber più volte, nel corso dello spettacolo, smette di recitare la parte di Zeno per raccontare della sua propria vita personale. Come se il Maestro confondesse sé stesso con Zeno, si dimenticasse di star recitando e finisse per “vivere” su quel palco, piuttosto che recitare. 

Un aneddoto citiamo, tra tutti. Haber racconta della sua infanzia a Tel Aviv. Fa una breve ma illuminante considerazione, che ha strappato applausi dei più fragorosi, su quella che è l’orribile situazione di questi tempi in quei luoghi. Dopodiché racconta di uno sgambetto che fece ad un compagno di classe quand’era bambino. Uno sgambetto però “andato male”. Ma male al punto da aver creduto di averlo ucciso, tant’è che si sentì, per citare le sue stesse parole, come Caino il giorno che ammazzò Abele. Tornò a scuola l’indomani e se lo ritrovò lì, quello che in teoria aveva ammazzato, bendato ma vivo. Lui gli si sedette accanto e gli chiese scusa. Sarebbero diventati grandissimi amici. L’aneddoto finisce con Haber che dice: “Anche i vermi hanno un’anima”. Non vi dico le risate e gli applausi che si sollevarono in quel momento riempiendo il teatro!

(Lo Zeno Cosini giovane in visita dalle sorelle Malfenti, a casa loro)

Quel che però mi chiedo adesso a ripensarci è… il verme era l’antipatico vittima dello sgambetto oppure il piccolo Haber carnefice più o meno involontario? Credo, alla fin fine, lo fossero entrambi. Perché lo siamo tutti, dei vermi. Ognuno incapace a modo suo, come Zeno. Ma ognuno indimenticabile a modo suo, come Zeno. Vermi, ma con un’anima. Nel 2023, anno in cui questa rappresentazione straordinaria ha debuttato, ricorreva il centenario dalla pubblicazione del gioiello di Italo Svevo. Motivo per cui è nata tale rappresentazione. E, dopo cento anni, mi rendo conto che quell’opera parla ancora così tanto di Noi, a tutti Noi. Pure Zeno, come Haber, aveva in antipatia un tizio a cui avrebbe fatto volentieri uno sgambetto: un tale Guido, che sposò la “sorella giusta” a differenza sua, e che era più sicuro e forte di quanto lui sarebbe mai potuto esserlo. Un vincente! Che però si rivelerà essere un fragile inetto capace di errori madornali e sbagli clamorosi. Un disperato. Proprio come Cosini. 

La vita è ingiusta e dura!” esclama Guido, ad un certo punto. “La vita non è né brutta né bella, ma è originale” replica Zeno. Quasi avesse avuto, e Noi con lui, un’illuminazione. Ogni giorno ci succedono spassose disgrazie davvero divertenti e fortune veramente drammatiche. La Vita è un accadere inaspettato di cose, o cosine, che non potevi prevedere, che non potevano capitare e che eppure capitano. E un verme, quale l’umano è, può davvero essere capace di affrontarle? No, no che non può, per questo oltre che vermi siamo pure incapaci. E non c’è da sorprenderci se ne usciamo fuori “un po’ schifosi”. Se risultiamo dei perdenti. E non è un caso se Zeno/Haber/Svevo conclude la sua opera augurandosi la fine dell’Umanità e la sua distruzione. Però, prima che il Mondo crolli, rallegriamoci con la consolazione di essere stati originali quantomeno, fastidiosi ma mai noiosi, soprattutto di essere stati – perché almeno per qualcuno lo saremmo stati – indimenticabili. Perché saremo anche tutti vermi schifosi, ma a volte siamo talmente schifosi e ridicoli e sfigati da essere simpatici! Perché alla fine si finisce per voler bene a quello schifo che siamo, anche se fa schifo. E se pure un perdente come Zeno può concludere che si può essere felici anche proprio perché ci si rende conto dello schifo che si è e in cui si vive, allora c’è speranza per tutti, dopotutto.

(Zeno che fuma… la sua “ultima” sigaretta!)

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