Il successo di “Perfect Days” è un fallimento

DI EDOARDO VALENTE

Ve lo ricordate ancora Perfect Days?

Quel film uscito nelle sale italiane a gennaio, in cui il protagonista tutti i giorni pulisce i bagni pubblici a Tokyo.

Quello che ha vinto un premio a Cannes ed è stato candidato all’Oscar.

Sì, insomma, quel film tutto sommato dimenticabile, e che invece ho letto che molti cinema all’aperto hanno deciso di proiettare.

Forse uno dei film più apprezzati quest’anno, per alcuni uno dei migliori di Wim Wenders (ma non mi prendo la responsabilità di queste affermazioni); il film che presenta giorni tutti uguali, situazioni apparentemente noiose, e che invece vuole insegnarci ad essere felici sempre.

Il film banale, ingannevole, sbagliato, che tantissimi hanno elogiato.

E invece Perfect Days rappresenta un gigantesco fallimento, e non parlo di soldi o di qualità tecnica del film, mi riferisco all’interpretazione entusiastica che ne è stata fatta.

Perfect Days è un fallimento perché parla di fallimento, e invece se ne parla come di un successo, come della conquista, finalmente, della felicità.

Tutti, dopo aver terminato la visione, volevano imbracciare arnesi per la pulizia, indossare una tuta blu, e salire sul primo volo per Tokyo per vivere la vita come la vive Hirayama, il nostro simpatico protagonista (l’interprete, Koji Yakusho, è stato bravissimo, su questo nulla da dire).

La trama viene generalmente presentata così:

“Hirayama, uomo di mezz’età, conduce una semplice vita da addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo; vive tutti i giorni la stessa routine, che verrà spesso interrotta da eventi inaspettati.”

Qualsiasi trama, in definitiva, tradisce quella che è la percezione generale del film, ovvero l’idea secondo cui non succede nulla per due ore. 

Ho letto anche di recensioni che parlano di una “storia senza storia”, il che è vero solo se si pensa che il protagonista non evolve e non ha particolari cambiamenti dall’inizio alla fine.

Ma anche questa è una storia, e dimenticandocene ci siamo illusi che possa essere vita.

Questa è necessariamente una storia, perché una vita così sarebbe invivibile.

La vita di Hirayama che ci viene presentata è un fallimento, e no, non è affatto perché pulisce i bagni, anzi, quello per lui è un successo.

Pensiamo a come ci è stato presentato il personaggio.

Ha un lavoro che si svolge tutti i giorni allo stesso modo, il ché gli permette di costruirgli attorno una routine. Hirayama è schivo e riservato, sorride spesso, e si dedica alacremente ad un lavoro che potremmo considerare denigrante.

Se pensiamo ai nostri bagni pubblici forse lo è davvero, ma a me sembra che Hirayama pulisca sempre sul pulito.

E d’altronde il film nasce come uno spot pubblicitario per quei bagni futuristici che tanto ci è piaciuto vedere in scena.

Soprattutto, Hirayama facendo questo lavoro non ha contatti con una ipotetica clientela, non deve andare in un ufficio, non ha uno stress mentale e psicologico, fa solo qualche cenno al suo collega svampito, e finisce qui.

Il lavoro che Hirayama si è scelto lo può portare molto facilmente all’isolamento, così come la casetta in cui vive, o il fatto che utilizza un telefono a conchiglia senza internet.

Hirayama vive fuori dal mondo.

Ed è solo.

Noi sorridiamo insieme a lui mentre svolge la sua ossessiva vita quotidiana, ma pensandoci meglio, cos’ha nella vita?

Siamo sicuri che abbia tutto ciò che gli basta per essere felice?

Cosa intravediamo dietro quel sorriso che spesso si fa malinconico?

La sua solitudine.

Non ha amici, non ha moglie o figli, non ha neanche un animale domestico; si salvano solo le piante. La famiglia pare che se la sia lasciata alle spalle, anche se tenta di ritornare da lui incarnandosi nella nipote. 

Non parla con nessuno, mai.

Tutti i personaggi che gli ruotano attorno sono presentati come macchiette, dicono frasi banali, di circostanza, superficiali, che rendono di per sé impossibile il dialogo.

E quei pochi scambi un po’ più elaborati scaturiscono in un grande nulla.

La frase incredibilmente filosofica che dovrebbe essere l’apice di questo film è un banale e insignificante: “Un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso”.

Forse un invito a vivere l’attimo, il presente irripetibile, come sembrano suggerire tanti commenti?

O forse il rifiuto di tutto ciò che non posso direttamente controllare, che allontano da me talmente tanto da renderlo inoffensivo?

Hirayama non vuole pensare a nulla che non sia ciò che già conosce, a nulla che vada oltre la sua ossessiva monotonia.

Il collega scemo ti rovina i piani perché ha bisogno di soldi?

Dagli i soldi e ti lascerà in pace.

Tua nipote irrompe in casa tua per cercare una via di fuga dalla sua vita?

Chiama tua sorella e dille di venirsela a prendere.

Ti raddoppiano il turno al lavoro?

Ti arrabbi e chiami i responsabili molte volte, esigendo che il problema venga risolto il prima possibile.

Hirayama non accetta tutto ciò che gli capita con il sorriso, sorride solo a ciò che non capita a lui.

Quando un evento esterno gli rovina la routine diventa nervoso, si arrabbia, vuole che tutto torni esattamente come lo aveva programmato.

La sua è una vita costantemente sull’orlo del fallimento.

Basta poco, pochissimo per rovinargli i piani. E la sua abitudinarietà non riesce a reggere neanche il minimo stravolgimento.

Cosa succederà il giorno in cui andrà in pensione? Prima o poi accadrà, giusto?

Secondo me, un personaggio costruito come Hirayama si ucciderebbe.

Non avrebbe più quella routine a cui attaccarsi, a tenerlo in vita, e tutto quel tempo libero senza il lavoro a cui si dedica spasmodicamente non riuscirebbe a sopportarlo.

Viene presentato come un film in cui non accade nulla e in cui il protagonista vive di nulla; la narrazione cerca di conviverci dell’opposto; ma alla fine il nulla prevale.

La sua è una vita vuota, non c’è altro da dire.

Non è stato capace di affrontare quella che evidentemente doveva essere la sua vita (forse all’interno di una importante azienda a conduzione familiare) e così è scappato.

E continua a scappare.

Appena qualcosa va storto, scappa.

Non sorride alla luce che filtra tra le foglie degli alberi perché lo rende felice, ma perché non può ferirlo, perché pensa che non cambierà mai, e quelle foglie le fotografa sempre, per poi archiviare quelle foto tutte uguali in scatole che non aprirà mai più.

Hirayama è scappato dal suo passato, non per vivere sempre nel presente, come a molti pare, ma per vivere in un mondo tutto suo, come lui stesso ha ammesso.

Un mondo che rifiuta il presente, e che vive di un vecchio furgone, audiocassette degli anni ’60 e ’70, una macchina fotografica analogica.

A questo punto bisogna anche parlare degli aspetti culturali presenti in questo film, che ce lo hanno fatto tanto piacere.

Perfect Days è un film orientaleggiante, costruito apposta per piacere agli occidentali.

E subito, noi occidentali, abbiamo scritto articoli in cui si parla di “filosofia zen”, e si tentano di descrivere una molteplicità di termini giapponesi intraducibili, per dimostrare quanto ci affascina questa cultura lontana.

Sì, una cultura in cui il protagonista ascolta solo musica occidentale, legge libri occidentali (tranne uno, altrimenti sarebbe stato ancora più irrealistico), e in cui viene mostrato il Giappone che ci piace: pulito, educato, imbellettato.

E per tornare al nostro Hirayama, che ascolta Lou Reed e legge Faulkner, viene da pensare che, vuoi per stereotipi o per bigottismo, non è il tipo di persona che ci aspettiamo pulisca i cessi tutti i giorni.

Il vero protagonista, in un film più classico, sarebbe stato il suo collega, Takashi, con tutte le sue difficoltà e i problemi con i soldi.

Ed è lui a dirci (due volte, nel caso non si fosse sentito bene la prima volta) che “senza i soldi non si ha neanche il diritto di amare”.

Ecco, questa sarebbe stata una bella vicenda da approfondire.

Hirayama, invece, con il quale tutti noi ci siamo immedesimati, non ha problemi di alcun tipo.

Ha abbandonato la famiglia di origine, ha scelto un lavoro umile (ma che non lo stanca troppo, gli lascia ogni giorno del tempo libero e gli evita troppi contatti con le persone), e ha deciso di vivere di poco, sì, ma andando a mangiare tutte le sere al ristorante.

D’altronde, diventa difficile empatizzare con dei personaggi secondari così poco definiti e macchiettistici.

Il problema è che anche Hirayama è così: è una macchietta, non è un personaggio ben costruito, e meno che mai presentato come una vera persona.

L’unica cosa che poteva rendercelo più “umano” era il rapporto con quel passato poco chiaro, ma del quale comunque non sappiamo nulla, probabilmente perché non era utile ai fini di trama, che però così risulta incoerente.

Ogni problema che Hirayama deve affrontare, alla fine, o viene evitato, o viene abbandonato.

Lui non risolve mai nulla. Il mondo gli vive attorno, e lui cerca di non venire colpito da questa vitale frenesia.

Hirayama è una maschera: un sorriso dietro al quale non possiamo scorgere nulla.

Cosa ce ne facciamo di quei “giorni perfetti” se sono giorni vuoti?

E anche se, in realtà, non lo sono per nulla – perché difficilmente può capitare tutti i giorni l’arrivo inaspettato in casa propria della figlia di una sorella con la quale non si parla da anni – comunque Hirayama li rende giorni vuoti, perché anestetizza tutto, annulla ogni reazione interna agli eventi esterni.

Quando la sorella gli dice “perché non vai a trovare nostro padre che sta male?” lui piange eccome, ma alla fine cosa fa? Nulla. Non lo sappiamo. 

Niente ha conseguenze nella sua vita, tutto si deposita sulla liscia superficie del guscio che ha costruito attorno a sé, e poi scivola via.

Hirayama rifiuta la vita, la evita, e quindi non vive.

Non basta sorridere all’ombra delle foglie per credere di avere una vita felice. 

Anche se è ciò a cui crede Hirayama, e che questo film vuole farci credere.

Dopo la visione ci siamo tutti concentrati sulla nostra personale “luce che filtra tra le foglie”, ma ci siamo anche resi conto che non funziona così, la vita. Una storia forse sì, la vita no.

Mi chiedo: come sono i giorni che Hirayama vive al di fuori di quelli mostrati nel film?

Saranno anche quelli giorni perfetti? 

Eppure, come già detto, anche all’interno del film stesso abbiamo assistito al giorno meno perfetto di tutti, quello in cui deve fare il doppio turno, lavora tutto il giorno, non va a lavarsi nel solito posto, e di sera è così stanco che non legge neanche una pagina del libro.

No, quello non è un giorno perfetto, come non lo erano neanche gli altri.

Non esistono “giorni perfetti”, nemmeno se ci si crede con tutta la forza di volontà, nemmeno con la più positiva delle disposizioni d’animo.

E non lo dico con note pessimiste, ma realiste. 

Perfect Days è una specie di favola, una storiella che è stato bello sentirci raccontare.

Ma anche le favole, soprattutto queste, finiscono.

E la vita è lì davanti a noi, che continua ad aspettarci, sempre.

Il successo di Perfect Days è il nostro più grande fallimento, perché abbiamo davvero creduto di poterci accontentare di quella favola irreale, credendo che la felicità possa esistere davvero in una vita vuota e superficiale, se si riescono ad apprezzare le piccole cose di ogni giorno.

Rappresenta un fallimento perché è la drastica riduzione dei nostri desideri, che invece di erompere nel mondo e scoppiare di vita annullano sé stessi, portandoci a desiderare una vita insignificante.

Riuscite a immaginare che incubo sarebbe vivere in un mondo fatto di soli Hirayama?

Nessuno parlerebbe più con nessun altro, staremmo tutti chiusi in una vita inesistente, sorridendo in maniera distaccata di fronte alla catastrofe dell’esistenza.

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