“Campo di grano con volo di corvi” – il testamento pittorico di Van Gogh, il suicidato della società

DI EDOARDO VALENTE

“Ritorno al quadro dei corvi

Chi ha già visto, come in questa tela, la terra equivale al mare

Van Gogh è tra tutti i pittori colui che ci spoglia più profondamente, e fino alla trama, ma nello stesso modo in cui ci si spidocchierebbe di un’ossessione. Quella di far sì che gli oggetti siano altri, quella di osare infine rischiare il peccato dell’altro, e la terra non può avere il colore di un mare liquido, e tuttavia è proprio come un mare liquido che van Gogh butta la sua terra come una serie di colpi di sarchio.”

Con queste parole Antonin Artaud, drammaturgo e saggista francese vissuto nella prima metà del Novecento, parla di “Campo di grano con volo di corvi”, nell’opera che ha dedicato al grande pittore olandese, e che porta il sottotitolo “il suicidato della società”.

Perché van Gogh, morto suicida, risulta in questa lettura il suicidato della società?

Procediamo con ordine, partendo dalla fine.

“Campo di grano con volo di corvi” è uno degli ultimi e più suggestivi dipinti di Vincent van Gogh, che ci ha regalato un elevatissimo numero di quadri, disegni e schizzi, nonostante non abbia iniziato in giovanissima età a dedicarsi alla pittura. Quest’ultima è sempre stata tra i suoi interessi, ma quello a cui ha provato a dedicarsi nella vita van Gogh è stata prima di tutto la religione. Intorno ai vent’anni, pur visitando con curiosità e interesse numerosi musei e facendo qualche disegno della realtà che lo circondava, van Gogh capisce di volersi occupare esclusivamente della Bibbia. Egli trascorre anni in condizioni umilissime, disdegnando la necessità di beni terreni e trovando come unica occupazione veramente utile quella di dedicarsi agli altri. “Afflitto ma sempre lieto”: così si definisce spesso nelle lettere che scrive ai familiari.

Venticinquenne si vede respinto agli esami di ammissione che aveva sostenuto per studiare teologia ad Amsterdam. E così, afflitto ma sempre lieto, sembra non accusare i colpi dei numerosi fallimenti che tenteranno di sbarrargli la strada verso la via della predicazione. Egli continua a perseguire quella che sente essere la sua missione, aiutando poveri e bisognosi, malati e feriti. 

Quando, però, per l’ennesima volta quel mondo lo rifiuta, nel 1881, nove anni prima della prematura morte, van Gogh decide di dedicarsi interamente alla pittura, trovando in essa il modo migliore per esprimere il proprio mondo interiore e il messaggio evangelico che ancora sente di dover diffondere. 

È qui, a ventisette anni, che inizia il periodo che noi tutti meglio conosciamo della vita di Vincent van Gogh.

Il continuo girovagare, i suoi girasoli, l’amicizia con Gauguin, i suoi cipressi, i rapporti fallimentari con le donne, le sue nature morte, l’orecchio tagliato, i suoi autoritratti, la tristezza e la follia, la sua notte stellata.

È proprio nel periodo in manicomio che Artaud lo va a riprendere, poiché egli stesso è stato in manicomio, e sente una connessione con quel pittore del secolo precedente, suicidato dalla società.

“E dov’è in questo delirio il posto dell’io umano? Van Gogh cercò il suo per tutta la vita con un’energia e una determinazione strane, e non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò.”

Ecco che appare, spiegatoci da Artaud, il senso di quel sottotitolo, di questa espressione inusuale che non potrebbe essere più perfetta.

Come per tutti gli artisti che attraversano la follia, o da essa vengono attraversati, anche per loro vale l’idea che essa sia sintomo di una genialità incompresa, la quale viene trasformata dalla società conformista in follia

Certo, van Gogh soffriva davvero di disturbi mentali, non erano invenzioni psichiatriche, eppure, ancora una volta, se a esprimersi è un artista, serpeggia nei suoi confronti il sospetto che quella condizione “anormale” possa portare a scorgere la realtà sotto una luce inedita. Forse, addirittura, a scorgere una fantomatica verità.

Di sicuro, secondo Artaud, van Gogh aveva scoperto la verità prima e fondamentale, ovvero “aveva scoperto cos’era e chi era”. 

Con il passare del tempo, la sua produzione pittorica si era intensificata, tanto che negli ultimi due mesi di vita è arrivato a dipingere una settantina di quadri. E probabilmente in questa sua frenesia artistica collimano l’autocoscienza e il termine della vita. Quanto più dipingeva, tanto più comprendeva che il suo dipingere era l’incarnazione del suo essere, che è giunto al crepuscolo con il campo di grano e i corvi.

Ma è qui che la risposta alla domanda circa il proprio essere diventa paradossale. Poiché van Gogh, nel mostrarci – e soprattutto mostrarsi – quel campo di grano, evidenzia i molteplici sentieri, le possibili strade da percorrere, di fronte alle quali siamo bloccati. In uno slancio di pura angoscia kierkegaardiana, van Gogh si sofferma ancora una volta sull’incompletezza della sua vita. 

Non voleva vivere senza portare del bene nel mondo, cosa che ha prima di tutto fatto con le azioni caritatevoli, e che poi ha trasportato nella sua naturale inclinazione, ovvero la pittura. Ma la prima strada che aveva imboccato è risultata essere quella sbagliata, per questo è dovuto tornare indietro, al bivio, e prendersi l’angosciosa responsabilità della sua scelta esistenziale.

E così, in quel momento finale, con un unico dipinto, riesce a racchiudersi meglio che in qualsiasi dei suoi autoritratti. Lui non appare, ma quello rappresentato è non solo il suo paesaggio interiore, ma l’intera sua vita.

Non da tutti è confermato che “Campo di grano con volo di corvi” sia effettivamente l’ultimo dipinto realizzato da van Gogh, ma resta il fatto che, per la sua peculiarità, non può non essere considerato il suo testamento artistico.

“Ma van Gogh voleva soprattutto raggiungere finalmente quell’infinito per il quale, egli dice, ci si imbarca come su un treno verso una stella, e ci si imbarca nel giorno in cui si è deciso fermamente di farla finita con la vita.”

Qui Artaud fa riferimento a una lettera al fratello Theo, scritta da van Gogh nel luglio del 1888, due anni prima della morte.

“Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella. Ciò che però è certamente esatto, in questo ragionamento, è che essendo in vita non possiamo arrivare in una stella, non più di quanto, essendo morti, possiamo prendere il treno.”

Queste parole vengono scritte nella stessa lettera in cui qualche riga sopra si può leggere un’altra interessante riflessione del pittore:

“Ciò riporta a galla l’eterno problema: la vita è tutta visibile da noi, oppure ne conosciamo prima della morte solo un emisfero?”

Queste parole donano alla vicenda di van Gogh un significato ulteriore, che è puramente frutto di una mia personale interpretazione.

Nel vortice pittorico in cui si è immerso nei suoi ultimi anni di vita, van Gogh ha dipinto qualsiasi elemento della realtà che suscitasse il suo interesse, dai mangiatori di patate, ai girasoli, ai campi di fiori, alla propria stanza, a sé stesso. E ogni volta si rendeva conto – sicuramente reduce dalla lezione impressionista – che la realtà muta. Cambia uno stesso soggetto rappresentato come cambia lo sguardo di chi lo rappresenta.

E in questo tentativo totalizzante di racchiudere persino le stelle nel proprio sguardo, egli è arrivato a rappresentare la sua stessa esistenza con quel campo di grano. Dove sta, però, ancora una volta, l’intuizione geniale?

Le strade sono molteplici, come molteplice è la vita di ogni essere umano. L’unica costante è il volo di corvi, la minaccia della morte, inamovibile anche nell’eterno fluire di ciò che esiste.

Giunto a un tale vertice creativo, cos’altro poteva rimanere da dipingere se non la vita oltre la morte?

Ancora una volta, condivido le parole di Artaud, le più giuste, le più corrette.

“[…] dopo i Corvi, non riesco a convincermi che van Gogh avrebbe dipinto un solo altro quadro. Penso che sia morto a trentasette anni perché era giunto, ahimè, al limite della sua funebre e rivoltante storia di garrottato da uno spirito malvagio.”

A questo punto, non resta che citare un giovane Vincent che, sempre all’amato fratello, scrisse:

“L’infinito e il miracoloso ci sono necessari, ed è giusto che l’uomo non si accontenti di qualcosa di meno e che non sia felice finché non li ha conquistati.”

Non è mai stato completamente felice, in vita sua, il povero Vincent. 

E nonostante la società lo abbia suicidato, è infine riuscito a prendere quel treno chiamato morte, per raggiungere la sua stella, il suo infinito, il suo miracoloso, che gli erano necessari e gli spettavano. 

Per poter essere, infine, felice.

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