Non farti amare, ma ama tu: fortuna che è esistito Raymond Carver

DI ALBERTO GROMETTO

Il massimo esponente della poesia barocca, Giovan Battista Marino, è autore di uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana: «L’Adone» (1623). In fatto di pagine batte persino il cavalleresco «Orlando Furioso» di Lodovico Ariosto e straccia completamente sia la «Gerusalemme Liberata» di Torquato Tasso che la «Divina Commedia» del Sommo Poeta Dante Alighieri. Marino ci dedicò tutta la vita. È maggiore di qualsiasi altra opera, diceva lui, così che il vento non potesse portarlo via. E in realtà il vento se l’è portato via: perché ad oggi non se lo ricorda nessuno. Non è la lunghezza, Care Amiche e Cari Amici, a fare di uno scritto qualcosa di immortale ed eterno e che dura. Certo, vi sono opere monumentali e smisurate di cui tutti parlano ancora oggi: il primo lampante esempio è «Alla Ricerca Del Tempo Perduto» dell’immenso Marcel Proust, autore talmente particolare da assomigliare solo e soltanto a sé stesso. La sua Recherche è considerata una pietra miliare nella Storia della Letteratura e la sua lunghezza rientra nel Guinness dei Primati con 3.724 pagine e 9.609.000 caratteri. È il romanzo più lungo mai scritto. 

Esistono tuttavia opere decisamente più brevi che hanno comunque saputo segnare epoche intere. Mi riferisco, ad esempio, a quel Genio Assoluto che porta nome di RAYMOND CARVER. L’Incontrastato Re dei Racconti Brevi, definito l’Erede di Ernest Hemingway, il modello di Murakami Haruki, Mago della Parola Scritta con la quale s’addentrava nei territori più oscuri, profondi e reconditi dell’animo umano per poi riemergere e raccontare. Ebbene, Carver non ha solo segnato un’epoca. Ma ha segnato la mia Vita. Ed è pazzesco come riesca a farlo ad ogni, singolo, racconto.

Citiamo i fatti. E cioè le sue Storie. Iniziamo dal racconto intitolato «Se hai bisogno, chiama». Meraviglioso e straordinario sono solo parole. Quello che fa Raymond, con le sole parole, è qualcosa di più. La storia è quella di una coppia sposata di mezza età che sta scoppiando e nel tentativo patetico, ma anche molto umano, di non scoppiare… prova un ultimo colpo di coda. Decidono di affittare una casa e trascorrervi tutta l’estate senza il figlio, sperando che quello stare insieme li salvi. Ma si tratta di salvare qualcosa che in realtà non c’è più. Soprattutto considerando che entrambi hanno relazioni clandestine. Fondamentalmente la Storia sarebbe tutta qui, ma la Grandezza di Carver è che ci mostra quello che accade come accade, senza raccontarcelo. Così quando loro due si fermano ad una tavola calda e Lui vede un colibrì che Lei non fa in tempo a vedere, scorgendone un altro al suo posto, sentiamo che quel colibrì non è solo un colibrì, ma significa qualcosa. Questo vale anche per la macchina che adocchiano lungo la strada con la marmitta che quasi prende fuoco. Come la Vera Scrittura dovrebbe essere: tutto quello che ci viene detto, ci viene detto per una ragione e tutto significa qualcosa… ma il che cosa non deve essere detto. Solo mostrato.

Sono contenta che siamo qui, ripeté insistentemente Lei il giorno che misero piede in quella casa. Come dovesse convincersene. Passano le settimane. Poi una sera un fulmine a ciel sereno: tutto ad un tratto, scuotendo la testa, Lei dice che avrebbero dovuto guardare in faccia la realtà e ammettere che non avrebbe funzionato. Vuole andarsene. Litigano. Entrambi si rinfacciano i loro tradimenti. Appena me ne sarò andata, dice Lei, tu chiamerai la tua amichetta. Non lo farei mai e poi mai, dice Lui, che aggiunge: è a Te che manca il tuo amichetto. Mi mancano tutti, dice Lei. Persino Tu, aggiunge. Mi manchi da un pezzo, al punto che è come se ti fossi perso e non fossi più mio. Detto questo, ognuno dei due si appresta ad andare a dormire, in camere separate. Ma poi succede qualcosa. Una di quelle cose così straordinarie che non possono essere inventate, che accadono solo nella Vita Vera per poi essere raccontate nelle Storie. Una cosa che fece dimenticare a quei due tutto quanto. Lui è alla finestra quando dalla nebbia emerge un cavallo bianco che si addentra nel loro giardino. Ne arriva un secondo, poi un terzo e infine un intero branco di bellissimi cavalli bianchi. La prima cosa che Lui fa è andare a svegliare Lei per farle vedere quello spettacolo. E così si ritrovano in giardino, ad accarezzare quelle meraviglie. Lui dice che devono essere scappati e dovrebbe chiamare lo sceriffo, ma prima voleva che Lei li vedesse. Lei dice di aspettare ancora un po’, prima di telefonare. Quel momento è intriso di una magia e un significato tali da farlo sembrare durare in eterno e apparterrà a loro per sempre. Una volta arrivato lo sceriffo, loro due tornano in casa, bevono caffè, chiacchierano felici tutta la notte, dimentichi dei loro problemi, ballano mentre fuori la nebbia infuria, e all’alba fanno l’amore. 

E dopo… cosa succede? Niente, Lui la accompagna all’aeroporto così che Lei possa andare dal loro figliolo, che passa quell’estate con la nonna. Non credevo dopo tanti anni fosse possibile che capitasse proprio a noi una cosa del genere, dice Lei. E si abbracciano forte. Lei piange e promette che gli scriverà lettere ancor più lunghe di quelle che gli scriveva ai tempi del liceo. Le aspetto, dice Lui. Non si scorderanno mai di quella notte. Ma comunque: è finita. Così va la Vita. Ed è per questa ragione che, dopo essersi salutati, Lui torna in quella casa il cui giardino è ancora pieno di orme di zoccoli ed escrementi, testimonianze di qualcosa che sembra già lontano per quanto indelebile, e senza nemmeno essersi tolto la giacca fa quello che aveva detto che mai e poi mai avrebbe fatto: telefona alla sua amichetta. Le Storie raccontano la Vita Vera, non qualcosa che non esiste. E nella Vita Vera Lui alla fine la sua amante la chiama, è così. Ma nelle Storie possiamo regalare momenti come quello dei cavalli bianchi. Ci sono anche nella Vita Vera, ma sono in qualche misura insensati e illogici. Invece il compito di una Storia è proprio dare un senso a quelle cose che nella Vita Vera forse un senso non ce l’hanno. Questo m’ha insegnato Carver, Maestro di testa e di viscere. Se infatti scrivo un racconto con la sola testa sarà freddo e inutile, se lo scrivo con le sole viscere sarà un casino bollente. Scrivere è usare entrambe le cose, viscere e testa. 

Altro racconto del caro Raymond. Si intitola «Vicini». La storia raccontata è quella dei Miller, una coppia che abita in un piccolo condominio. Nell’appartamento accanto vivono gli Stone, i quali conducono un’esistenza decisamente più brillante e intensa. Questi partono per le vacanze e affidano le chiavi a loro, oltre che due incarichi: annaffiare le piante e dare da mangiare al gatto. Il signor Miller, però, ogni volta che assolve a questi compiti, finisce per attardarsi sempre di più in quell’appartamento. Si mette a curiosare in giro, apre cassetti, si versa da bere. E soprattutto ci mette sempre più tempo a tornare a casa. Una volte prende delle medicine dal bagno, oppure arriva ad indossare i vestiti di entrambi gli Stone, lei e lui. E tutto questo senza raccontare niente alla consorte, che si ritrova ad andarlo a cercare quando non lo vede far ritorno. Contemporaneamente il signor Miller è rinvigorito da un entusiasmo nuovo e trascinante che non passa inosservato alla sua signora. La chiave dell’appartamento degli Stone diventa un magico oggetto totemico, una sorta di idolo, per entrambi i Miller. Una sera è la moglie ad andare nell’appartamento negli Stone. Dopo qualche tempo, Lui va a cercarla. Lei ne esce. Perché ci stai mettendo tanto?, le chiede Lui. Stavo giocando con Kitty, risponde Lei. Nulla da obbiettare: è lo stesso pretesto che usa Lui. Poi Lei ha l’idea: perché non andarci insieme? Si baciano, e fanno per andare. Magari non tornano più, dice Lei speranzosa. Ed ecco l’amara sorpresa. Un tipico finale tutto carveriano in cui l’intensità raggiunge vette altissime. Lei si è resa conto di aver dimenticato la chiave dentro l’appartamento. Lui prova a girare il pomello, ma non c’è nulla da fare. Lei ansima, Lui la abbraccia e Lei si rifugia in quell’abbraccio. E insieme, appoggiati a quella porta, si fanno forza a vicenda. 

Inizialmente il racconto doveva chiamarsi «I Vicini» e non «Vicini». Almeno fino a quando il potente e temutissimo editor di Carver, e cioè Gordon Lish, gli disse che lo avrebbe pubblicato solo se il titolo fosse stato «Vicini». Perché? La risposta è ovvia, «Vicini» vuol dire molto più di «I Vicini». Lish non era certamente uno stupido, ma era anzi un artigiano di Storie: oggi da una parte c’è chi lo osanna per aver reso Carver immortale, dall’altra chi lo odia e ritiene orribile che egli avesse una tale ingombrante influenza su dell’Arte che non era sua. Il rapporto tra Raymond e Gordon, che era un forte e stretto legame sia professionale quanto amicale, costituisce una delle controversie più inestricabili della Storia della Letteratura. Al di là di come la si pensi, è innegabile che un editor (come anche un montatore nel caso del Cinema) sia vitale ed essenziale: è necessario il lavoro di più persone perché un’opera possa esistere veramente nei fatti. E per un Autore il vero Editor sarà quella persona amica che verrà in suo soccorso quando si ritroverà nel mare in tempesta, su una piccola barca che fa acqua da tutte le parti, diciamo pure nella merda fino al collo. E sì, magari sbraiterà e urlerà e insulterà anche. Ma intanto sarà lì. E sarà lì per l’Autore.

Anni più tardi Carver avrebbe scritto un piccolo saggio sulla genesi di «Vicini» e sul rapporto che ha con questo racconto. E afferma che questa storia nasce da un episodio realmente accaduto a lui e alla sua prima moglie Maryann Burk (dalla quale avrebbe poi divorziato per sposare la poetessa Tess Gallagher). Questo significa forse che Maryann e Raymond hanno ricevuto le chiavi dell’appartamento di una coppia di vicini? No, loro due non hanno fatto niente di quello che fanno i protagonisti del racconto, dice Carver. Come è possibile? A loro due è successa quella cosa, anche se non è mai accaduto niente di tutto questo. È il Potere dello Storytelling, signore e signori. Prendere qualcosa di vero che è capitato a te, farlo passare in un altro mondo, e cioè quello dell’immaginazione, e una volta che quel qualcosa è lì potersi permettere di tutto. Qua vi è la grande, terribile, immane contraddizione alla base delle Storie alla quale dovremmo tutti arrenderci. E cioè: le Storie sono sempre meglio della Vita Vera; ma senza Vita Vera, le Storie non esistono. Le grandi Storie che ci giungono autentiche e ci fanno emozionare, sono tali perché vengono dall’esperienza. Ciò che i narratori come Carver raccontano non viene dall’alto, non è ispirazione divina, non è un fulmine o un’idea… ma tutte le Storie che vengono raccontate e che vale la pena ascoltare nascono dalla vita, dall’esperienza, da quanto ti accade. Pure l’autore, regista e mente della saga cinematografica «Star Wars» lo ha sempre detto (a questo proposito ci ha fatto anche un meraviglioso cortometraggio intitolato «George Lucas In Love» nel 1999): volete sapere come diavolo gli sia venuto in mente «Guerre Stellari»? Andate nell’anonima cittadina dove visse da ragazzo, una di quelle nella provincia americana al cui ingresso si trova una cisterna d’acqua. È lì che tutto nacque. Ma se ci andate, non troverete un piccoletto verde di nome Yoda o l’Ordine dei Cavalieri Jedi con tanto di spade laser. Eppure è questa la verità: tutto quello che raccontiamo proviene dalla Vita Vera. E infatti tutti noi vogliamo delle Storie che abbiano a che fare con noi, che parlino di noi e che riguardino la nostra vita. E Carver fu Maestro Magistrale in questo.

Ora una poesia carveriana. Una poesia che è dimostrazione di come bastino poche righe per farti vivere una persona. Non tutti ci riescono. Pochi sono capaci di essere immortali. E Raymond Carver è uno di quegli immortali. Il componimento si intitola: «Fotografia Di Mio Padre A 22 Anni». Descrive una fotografia che ritrae, per l’appunto, suo padre. Ma ricordate: le fotografie non raccontano chi siamo, ma chi vorremmo che gli altri pensassero fossimo, l’immagine che vorremmo dare di noi. In quella foto il padre di Raymond è in jeans e maglietta, sorride, ha un cappello alzato sull’orecchio, è poggiato ad una Ford del ‘34, in una mano tiene dei pesci persici e nell’altra una birra. Un macho spavaldo, no? No. Quel sorriso è mansueto, quel viso è imbarazzato, le mani che tengono pesci e birra sono molli e gli occhi… quegli occhi lo tradiscono. Per tutta la vita ha voluto essere un duro, dice Carver di suo padre. E ha finto di esserlo, pur non essendo credibile. Vuole bene a suo padre, afferma alla fine della poesia. Ma anche lui, proprio come il padre, non regge l’alcool e non sa da che parte girarsi quando si tratta di pesca. Che poesia stratosferica.

In sostanza, questo era Raymond Carver. Armato di poche parole, era capace di raccontarti la Vita pur raccontandoti di cose che mai erano accadute, di farti vivere una persona senza che l’avessi mai neanche conosciuta, di dare un senso a tutto quello che nella realtà un senso forse non ha. E questo, in ultima analisi, perché Egli scriveva non per farsi amare dai suoi lettori. Non era quello il suo scopo. La sua missione era scrivere per dimostrare quanto lui amasse. Chi? I suoi personaggi. Perché i personaggi di un autore sono molto più grandi di Noi. Ed è per questo che spesso sentiamo autori pronunciare frasi incomprensibili quali: “I personaggi che ho scritto non fanno quello che voglio” oppure ancora “Non capisco cosa questo mio personaggio abbia pensato”. Come è possibile se sei tu ad averli scritti? Semplice. Perché quei personaggi sono come dei figli, per l’autore. E per quanto tu possa amare e conoscere tuo figlio, lui è una persona diversa da te, autonoma e indipendente dalla tua volontà, e pertanto non puoi conoscere precisamente cosa abbia in fondo al cuore. Dunque: scrivere è un atto d’amore. Per Raymond i suoi personaggi erano infinitamente più importanti di lui. E le Storie che raccontava infinitamente più importanti della vita che viveva. 

Chiudiamo a questo proposito citando un ultimo racconto: «Perché non ballate?». Max, un uomo che sembrerebbe essere molto solo, tira fuori da casa sua tutti i mobili e li posiziona in giardino. Come se si trattasse di una casa senza muri. È una svendita. Nessuno, però, si ferma. Neanche lo stesso Max, del resto, si fermerebbe a guardare. Due ragazzi, un lui e una lei, vent’anni, però si fermano. Max non c’è in quel momento. Provano il letto, la televisione, danno un’occhiata. Sembrano molto innamorati. Lei capisce che possono provare a comprare tanto e a poco prezzo. Max torna e si presentano. Come previsto, i due ragazzi comperano diversi oggetti ad un prezzo più basso di quello proposto da Max. Lui accetta qualsiasi cosa, quasi non sembra interessarsi a fare affari. Ad un certo punto li invita a bere con lui. E così bevono, insieme. E poi mette un disco e chiede a loro di ballare. I due ragazzi ballano per un po’. Dopodiché è lei che invita Max a ballare. E così danzano insieme, mentre si fa notte e la gente intorno li guarda. Questo è il finale: 

“C’è della gente laggiù che ci guarda”, disse lei. 

“È tutto a posto”, rispose l’uomo. “Questa casa è mia”, disse.

“Che guardino pure”, disse la ragazza.

“Proprio così”, disse l’uomo. “Credevano di averne viste di tutti i colori, qui. Ma una cosa del genere non l’avevano ancora vista, eh?”, disse.

Sentiva il fiato della ragazza sul collo. 

“Spero che il letto le piaccia”, disse.

La ragazza chiuse e riaprì gli occhi. Spinse il viso contro la spalla dell’uomo. Lo strinse ancora di più a sé.

“Lei dev’essere disperato o qualcosa del genere”, disse.

Dopo qualche settimana, lei ne parlava ancora: “Era un tizio di mezz’età. Aveva tutte le cose là fuori, nel bel mezzo del giardino. Vi giuro. Ci siamo presi una bella sbronza e abbiamo ballato. Lì, sul vialetto. Oh, Signore. C’è poco da ridere. Metteva su i dischi per noi. Guardate questo giradischi. Ce l’ha dato quel tizio. Anche tutti questi dischi di merda. Ma avete visto che roba?”.

Non smetteva di parlarne. Lo raccontava a tutti. C’era qualcos’altro da dire e lei tentava di tirarlo fuori. Ma dopo un po’, smise di provarci.


Cosa doveva ancora dire? Chi lo sa. Nemmeno lei lo sa. È lì che sta il significato del raccontare Storie. T’accade qualcosa, in questa vita insensata e così triste eppure con un che di maledettamente affascinante. E quel qualcosa non te lo sai spiegare, non hai proprio idea di cosa possa significare. E allora che fai? Lo racconti, lo racconti in continuo. Ancora non capisci cosa significa, forse. Ma almeno un po’ di senso ce l’ha. Questo è l’insegnamento che ci ha lasciato Raymond Carver:

Mai smettere di raccontare Storie, perché la Vita non la capirai mai, ma un racconto forse sì. E vivrai per sentirtelo raccontare. Ancora e ancora e ancora.

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