L’Amore Solo – Marcel Proust e “Alla Ricerca Del Tempo Perduto”

DI MIRIAM PAOLETTI

“Ma quando scompare una fede, le sopravvive – e sempre più violento per mascherare l’assenza della forza da noi perduta di dare realtà a delle cose nuove – un affetto feticista per quelle antiche che aveva animato, come se il divino risiedesse in loro, non in noi, e come se la nostra incredulità attuale avesse una causa contingente, la morte degli dei.”

Viviamo una vita nella vita e non siamo consapevoli di quanto la prima invada la seconda, determinandola nei suoi movimenti, come un sovrano antico poteva fare coi suoi sudditi nel momento in cui ne decideva le sorti, perché non ne percepiamo i confini: non disgiungiamo i domini delle due, ed a causa di ciò si finisce col percepire un unico flusso indistinguibile che si articola a partire dalla forma degli argini esterni, delle vicissitudini che ci accadono. Si percepisce lo scorrere del tempo, il succedersi dei giorni, alle stregua d’un essere in balia di eventi, il quale non è in grado di comprenderne le cause, coglierne le sfaccettature, le pieghe ombrose in cui risiedono le motivazioni per cui, ai nostri occhi, le cose sono questo e non altro: gli eventi accadono, e noi siamo costantemente immersi nella percezione del particolare, ed in questa sensazione emergono degli aspetti, familiari e sconosciuti al contempo, perché ci interessiamo esclusivamente all’oggetto della nostra attenzione. Ci muoviamo nell’esperienza e accogliamo in noi tutto il materiale di cui gli occhi sono testimoni, cosicché costituiamo un vivere di cui non si ha reale sentore. Si è presenti come soggetto che compie azioni e a cui accadono eventi, tuttavia non lo si è in modo consapevole: il fatto d’esserci coincide con una presenza fisica, ciononostante, non ne consegue una cognizione reale.

Le cose ci coinvolgono e non ne conosciamo il motivo. Tocchiamo un oggetto, instauriamo una connessione con esso perché la sua esistenza assume un ruolo rilevante nella dinamica del nostro vivere e perciò guizza nella mente: una vaga impressione, il sentore di una presenza indicibile. “Ogni qualvolta l’animo si sente sorpassato da sé medesimo” poiché lontanamente avverte l’esserci di qualcosa che ci riguarda e che deriva dalla nostra mente, dalla nostra vita, eppure rimane celato ed è irriducibile alla conoscenza che potremmo averne, come un’ombra oscura che ha la propria origine a partire dall’estremità del nostro corpo, ma che poi si diffonde oltre, divenendo sconosciuta nel suo acme: irraggiungibile. Qualcosa, un oggetto, ce ne ha ricordato un secondo, il quale differisce dal primo in quanto, perché inciso nel tessuto della nostra vita, è nella memoria; ed è così radicato perché connesso a noi che lo viviamo: “l’attimo antico che l’attrazione d’un attimo identico è venuta a richiamare.”

Nondimeno, pur se s’avverte l’ombra indistinta di qualcosa di rilevante, comunque non si riesce ad identificarla: come in uno scontro in cui il nemico è talmente potente da apparire tremendo, pare impossibile permettere alla luce di entrare, svelando, finalmente, l’entità. Proust scrive più volte di una forma di viltà, la quale costringe, con la sua promessa di pace, ad un’arresa rispetto al proposito della ricerca del tempo perduto. Tuttavia si può perpetuare l’intento se la presenza è connessa ad una volontà: di nuovo, Proust, parla “della presenza di quelle realtà invisibili alle quali aveva cessato di credere e rispetto le quali sentiva di nuovo il desiderio e quasi la forza di consacrare la sua vita”: la presenza di ombre, serbate nei meandri del tempo passato, che premono sulla membrana che separa il presente dalla consapevolezza di quanto il ricordo possa essere incisivo sull’adesso. Queste ombre permettono il dispiegarsi della sensazione connessa al significato: perché essa c’è, allora l’oggetto ha un ruolo all’interno della vita, consta di una posizione che, essendo quella, non può essere diversa; perché l’oggetto è connesso ad una serie di rimandi, come un punto della tela del ragno è legato agli altri della stessa, in egual misura, dalla sensazione legata all’oggetto proviene la reazione del tutto intima e personale, il vivere la vita attraverso quella prima vita che lo determina.

Le emozioni sono veicolo di un significato, il quale si radica nelle nostre profondità, e per il quale reagiamo spontaneamente a ciò che s’imprime sulla nostra pelle. Nondimeno, se tale meccanismo viene svelato tramite l’inseguimento dei rimandi, giungendo alla consapevolezza dello stesso, ne risulta denudato: perché ci si è appropriati di questa nuova posizione di fronte alla rete dei nostri significati, allora s’esplica la possibilità di una reazione conscia dei diversi livelli di complessità da cui dipende la nostra spontaneità. Cosicché, disvelando l’articolata cristallizzazione della rete di rimandi dei nostri significati, Proust permette la comprensione delle motivazioni dell’agire, dalla cui possibilità consegue una espressione totale di ciò che si è.

L’amore è dentro di noi. 

L’amore non è nulla all’infuori della nostra meraviglia che siamo capaci di scorgere nell’esistenza di qualcuno, sembra dire Proust attraverso la narrazione dell’intreccio dell’amore di Swann e di quello del protagonista.

L’amore è dentro di noi e nasce dall’interesse che noi proviamo verso l’altro: ci si accorge della presenza di qualcosa che è vago come un’ombra, ma che è presente e vivo, e per il quale percepiamo il rilievo, la consistenza, la profondità della carne, per cui quella cosa specifica, perché notata – non necessariamente in modo consapevole – si allaccia a noi, giacché rimandante ad una nostra concezione attraverso cui interpretiamo la vita: Swann nota, nel viso di Odette, il simulacro della bellezza divina e diafana forgiata attraverso il colore dei dipinti del Botticelli.

Cogliamo l’esistenza di una comunanza, e da quella minuscola presenza intrecciamo irreversibilmente la nostra esistenza a quella dell’altro. 

Proust descrive gli “amori soli” perché essi sono emblema della dinamica per cui vi è la presenza di chi ama nell’amore ch’esso prova per l’altro. Non è necessario che l’amato manifesti un interesse vivo, basta che esista, e, tramite quel contatto, la vita dell’altro è d’ora innanzi coincidente con la propria: una ribellione metafisica. A partire dal momento in cui si prova quell’immensa magnifica divina meraviglia, attraverso il solidificarsi di tale legame, proporzionalmente al tempo condiviso con l’amata, la vita dell’altro è talmente compenetrata alla propria, da divenire un’unica totalità indifferenziata agli occhi di chi ama: Swann giustifica la propria esistenza attraverso la presenza o l’assenza di Odette, a seconda delle condizioni in cui si esplica il loro rapporto, e sprofonda così nei fondi abissali dell’amore solo. 

Vorrebbe essere altro, sé stesso, ma ogni cosa in cui si esplicita la sua diversità da lei o, piuttosto, ciò in cui s’esprime la sua individualità irripetibile perché unica e personale, si svuota di qualsiasi altro significato che non le sia riconducibile: lei è la modalità in cui le cose hanno valore, lei è il centro focale della sua attenzione mentre vive la vita: il vivere di Swann è decentrato dalla mera espressione di sé ed è ora orientato nella direzione dell’esistenza di Odette. 

Ciò che fa, ciò che dice, ciò che pensa, ciò che può avere valore per Swann, tutto rimanda all’amore che lui nutre per lei. 

Tale amore, dalla meraviglia, prende vita, e diviene autonomo, nella mente di Swann: pertanto, perché non necessita dell’attenzione di lei per poter sussistere, la condizione di quell’amore non è la condivisione, la reciprocità, ma è l’esistenza dell’altro, e questa, ovviamente, non appartiene a Swann, seppure il suo desiderio più grande divenga, in seguito, il sogno di poterla inglobare in sé, renderla propria, curarsi attraverso la cura che lui sarebbe disposto a donare a lei.

La vita di Swann diviene l’inferno: ci si può svegliare dagli incubi giacché si sta dormendo; contrariamente, se l’esistenza diviene l’incubo, allora non c’è altra soluzione che vivere costantemente nel dolore martoriante del sapere che l’esistenza dell’amata è il luogo la cui infinita distanza è inemendabile e la cui concepibilità è inaccessibile; l’immaginarla in un luogo che lui non può raggiungere, perché si sa che essa deve pur vivere in un qualche punto dello spazio e del tempo, punto in cui lui non può penetrare. Odette è l’universo intero. E l’universo intero è lontano da Swann, mentre lui è nel vuoto: l’ignoto della vita di Odette.

Benché Swann si riduca alla condizione di una mera cosa inutile che vive ruotando attorno ad un sole non coincidente con quanto lui stesso è, egli non riesce a distaccarsi da lei, neppure se da tale condizione ne consegue la disperazione: Odette è la malattia e Swann non vuole guarire. 

Ciò significherebbe annichilire il suo amore: sebbene lei lo stia uccidendo, lui non può volere il suo abbandono conseguente al ricollocarsi nel proprio centro ingoiando un altro sole – sé stesso, poiché la sua esistenza è allacciata a quella di lei, e per tale motivo questa condizione, in cui lui è torturato da colei che ama, è preferibile a quella in cui lei non avrebbe potere su di lui, appunto poiché Swann, dal fondo abissale dell’amore solo, non può concepirsi al di fuori di lei: senza di lei lui non esiste se non come nulla, come esisterebbe ciò che è privato d’essere.

Perché il ricordo della felicità passata è ancora impresso sulla pelle e brucia la carne, corrodendo l’animo, come fosse un carbone ardente accostato al cuore, Swann inizia a detestarla; così facendo, nell’assenza di un comportamento sincero e per questo coerente da parte di entrambi, allora l’innamorato scinde le immagini con cui concepisce Odette: da una parte, la figura della donna tanto amata, dall’altra quella della megera. La prima serbata attraverso i ricordi più dolci; trattenuta in lui dalla speranza che quello che prima era avvenuto, l’amore condiviso, possa tornare ad essere; corroborato dall’impossibilità di andarsene, perché Swann, nella speranza che lei lo ami, non può tollerare l’eventualità di ferirla attraverso l’imposizione della sua libertà. Dall’altra, l’immagine della despota, tremenda e crudele, che detiene i fili a cui è appeso il suo cuore, e con i quali essa gioca, poiché lei, ingenua e incapace di vedere oltre di sé, è del tutto inconsapevole di quanto dolore può causare ad un altro essere umano; di quanto, così ignara delle conseguenze delle sue azioni, essa possa esercitare la banalità coraggiosa dell’inconsapevolezza di star uccidendo un uomo.

Le due immagini scisse sono accompagnate dalle emozioni che supportano i ricordi e si alternano, come un ondeggiare altalenante, a seconda dei capricci di lei.

La percezione del laccio che unisce le due esistenze, è l’illusoria convinzione della concretezza delle proprie emozioni, quando, al contrario, sia Swann che Odette, ognuno chiuso all’interno del proprio agire inconsapevole in balia delle ombre oscure, non sono in grado di vedere l’altro. Entrambi, in modi differenti e per motivi diversi, si sono esclusi. 

La differenza sta però nel fatto che è Swann a sprofondare nella non vita, laddove l’amore, e dunque il dolore che consegue da esso, è talmente insuperabile, che strapparglielo significa distruggerlo per intero, demolire la sua intera esistenza, annientare quel poco di volontà di vita che permane, superstite dell’azione devastante della sofferenza costante: offrirgli in dono, in cambio di quell’amore così disprezzato, la morte, il terrore angosciante per la propria vita, perché Swann sa che questa è ormai irrimediabilmente altro da quanto lui è diventato nel dolore, attraverso l’amore.

Tuttavia bisogna chiedere il permesso per poter amare?

Infine dopo tanto dolore, dopo tante passioni così violente, in seguito all’aver avvertito sulla pelle la percezione di una esistenza completamente svuotata, priva di senso, bisognerebbe poter dire a Swann, dolcemente e tuttavia seriamente, soppesando le parole, che tutto questo è vero, che l’amore è solo in lui, che non esiste al di fuori, e che lui solo è responsabile e quindi colpevole della sofferenza insopprimibile ch’egli stesso si è causato. Tutto questo è vero, ma parziale. 

Dopo un attimo di silenzio, allora, aggiungere ch’esso ha una esistenza al di fuori di Odette, dirgli ch’egli non è riducibile a lei, che lui solo è stato capace di tanto tremendo indicibile ineffabile amore, che lui ha piegato la sua intera esistenza nell’espressione di tale immensità: lui, non Odette. Lei nemmeno se ne è accorta.

Solo Swann è stato capace di morire e vivere.

Si riversa la mediocrità dell’amata rispetto a chi è stato in grado di tollerare l’amore solo.

“Forse solo nel nulla è il vero e tutto il nostro sogno è inesistente, ma allora sentiamo come sia necessario che anche queste frasi musicali, queste nozioni che hanno una esistenza in relazione con esso, non siano nulla. Noi periremo, ma sono nostri ostaggi queste prigioniere divine che seguiranno il nostro destino. E la morte con loro ha qualcosa di meno amaro, di meno inglorioso, di meno probabile forse.”

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