La bella estate: dal romanzo al film

DI EDOARDO VALENTE

“A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline.”

Quello che Pavese fa nelle prime righe del suo romanzo è il miglior riassunto che si possa concepire delle sensazioni racchiuse nell’espressione: “la bella estate”.

E l’estate, che all’interno dell’anno viene spesso definita “la bella stagione”, in queste pagine va a braccetto con quella che all’interno di una vita si tende a considerare come “la bella stagione”: la giovinezza.

Ginia è giovane, sedicenne, e grazie all’autonomia che le dà il suo lavoro in un atelier di moda le piace sentirsi già adulta, spesso credendosi superiore ad alcune sue coetanee, ma è l’incontro con la realtà che la farà ricredere, facendole comprendere che aveva tentato di essere donna senza però esserne capace.

Nel suo caso, la realtà porta il nome di Amelia, che vive facendo la modella per i pittori, e che avrà sull’innocente Ginia il fascino che hanno le amicizie più grandi quando si è giovani. In particolare, a colpire Ginia sarà il fascino del corpo: è ciò che sa trovare in Amelia, ma non in se stessa. Ed è questo che cercherà, specialmente attraverso gli occhi degli altri, in particolare quelli del pittore Guido.

E tutti i suoi sogni, le sue speranze, i suoi turbamenti – che sono tipicamente adolescenziali – sono ciò che Pavese riesce a raccontare meglio, ma in una maniera così sottile da far quasi fatica ad accorgersene. Tra le tante cose che accadono, ogni tanto, l’autore semina qua e là delle frasi, dei pensieri, che sono come crepe nel muro. Spiragli sulla superficie della storia, che rivelano una profondità che stenta a manifestarsi, nonostante sia ben presente.

Tentare di descrivere questa abilità di Pavese è già complicato se fatto per iscritto: mostrarlo al cinema lo è ancora di più. Ma è questo, almeno in parte, il proposito del film di recente uscita nelle sale italiane, scritto e diretto da Laura Luchetti.

Diventa difficile non cadere nella solita retorica del “il libro era meglio” (anche se in questo caso è così), ma è importante capire quali erano gli intenti dell’uno e dell’altro e i mezzi con i quali hanno scelto di raggiungerli.

Innanzitutto, va detto che il film non rientra tra quelli indimenticabili, e i motivi possono essere molteplici: dall’eccessiva lunghezza di alcune sequenze, dai silenzi vuoti che sostituiscono parole necessarie, alle parole superflue che sostituiscono silenzi essenziali. Quel non-detto di cui Pavese è maestro emerge a fatica tra le pieghe della sceneggiatura, e spesso, purtroppo, le scene che funzionano meno sono quelle che maggiormente si discostano dal tracciato del romanzo. 

Il problema, quando si parla di opera cinematografica tratta da opera letteraria, è nel capire se la seconda può avere una sua indipendenza così forte rispetto alla prima al punto da potersi prendere la libertà di tradirla. Anche se, così facendo, diventa un’altra opera.

Per quale motivo si decide di trarre un film da un romanzo? 

Tendenzialmente può essere per le potenzialità scenografiche già insite nel romanzo, ma a questo punto è importante chiarire il rapporto tra i due prodotti diversi. E, soprattutto, diventa impossibile pretendere che il pubblico, se conosce anche l’opera originale, possa scinderla dalla sua controparte. 

Ovviamente non si può dimenticare che i due medium parlano lingue diverse, e di conseguenza è necessario un riadattamento dell’opera. È come tradurre in un’altra lingua: nel farlo si perde sempre qualcosa dell’originale. O si salva il senso o si salva lo stile. E ciò che nel cinema spesso viene tralasciato è il secondo. 

L’essenzialità con cui Pavese apre il suo romanzo è talmente parte del suo stile narrativo che è impossibile riprodurla nel film. L’unico modo per farlo sarebbe stato sovrapporre a una scena simile a quella descritta in quelle poche righe una voce fuori campo, che avrebbe letto per intero il passaggio, così da dare allo spettatore l’idea precisa che sta alla base della storia. 

Ed è probabilmente la totale assenza di una voce fuori campo uno dei problemi principali del film, che non può sempre e solo basarsi sulle immagini, i silenzi e le parole dei personaggi.

Di conseguenza, a chi fosse interessato, mi viene da consigliare la lettura del libro molto più della visione del film. Inoltre, “La bella estate” può anche essere un ottimo inizio per chi volesse avvicinarsi per la prima volta a Pavese.

Ed è solo leggendo e rileggendo i suoi capitoli che non si dilungano mai troppo, i dialoghi asciutti, le descrizioni compatte, che emerge quella consapevolezza grazie alla quale, trovandosi di fronte a poche righe su una pagina non si può dire nient’altro se non: è proprio lui, è Pavese.

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