DI EDOARDO VALENTE
“La sua forza sale, come una fiamma quando non c’è vento, dritta e leggera in alto, sicura, senza tremolio e agitazione. In ogni occasione trova la sua via senza che neppure ci accorgiamo che l’ha cercata; bensì, come costretto da una legge di gravità, egli vi si dirige così saldo ed agile, così inevitabile”.
Per poter accendere in noi, e attorno a noi, le immortali fiamme del focolare, bisogna raggiungere la giusta disposizione d’animo, una tendenza all’apertura, alla libertà, all’incontro e all’arricchimento.
La citazione in apertura è uno dei tanti elogi che Friedrich Nietzsche fa ad Arthur Schopenhauer, nell’opera che, appunto, si intitola “Schopenhauer come educatore”.
Per essere predisposti al fuoco che deve ardere dentro di noi dobbiamo essere liberi da preconcetti e convinzioni precedenti. C’è bisogno di una educazione, che è “liberazione, rimozione di tutte le erbacce, delle macerie, dei vermi che vogliono intaccare i germi delicati delle piante, irradiazione di luce e di calore, benigno rovesciarsi di pioggia notturna”.
E per liberarci dalle erbacce, per venire irradiati dal calore, serve un educatore.

Per il giovane Nietzsche gli educatori furono due: il già citato Schopenhauer con la sua filosofia, e la musica di Wagner. A questi va aggiunta: la filologia greca.
Basterebbero questi tre elementi per forgiare un grande spirito, che invece, col tempo, abbandonando i suoi maestri, diventerà ancora più grande.
Ma inizialmente è da qui che nasce il fuoco che arde dentro Nietzsche!
In adolescenza legge “Il mondo come volontà e rappresentazione”, e ne rimane folgorato.
Mentre è decisivo l’incontro che fa nel 1868, a ventiquattro anni: viene presentato a Richard Wagner.
Per alcuni anni frequenta la villa del celebre compositore, approfondendo la conoscenza di lui e della moglie Cosima (figlia illegittima di Franz Liszt, tra l’altro). Rimane estasiato da quell’ambiente molto attivo a livello culturale, e per un certo periodo svolge alcune mansioni da segretario di Wagner.
Non viene sempre trattato benissimo, eppure, pare che Wagner si fosse davvero affezionato a lui, mentre naturalmente Nietzsche lo venerava. Condividevano, tra l’altro, un grande interesse per Schopenhauer, e il giovane Nietzsche aveva, in definitiva, trovato in lui una figura paterna, alla quale si era asservito.
È proprio grazie a questa amicizia che riesce a pubblicare il primo dei suoi famosi scritti: “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”.
Qui sono condensati l’amore per la cultura dell’antica Grecia, il pessimismo schopenhaueriano, e un po’ di adulazione wagneriana. Infatti, è stato lo stesso compositore a suggerire a Nietzsche di aggiungere quei passaggi in cui si parla della rinascita della tragedia greca grazie alla musica di Wagner.

Il libro venne letto da molti, ma solo perché fu Wagner a promuoverlo tra i suoi seguaci. Il mondo dei filologi (il mondo a cui Nietzsche almeno formalmente apparteneva) rifiutò lo scritto, poiché troppo dilettantesco e pieno di idee bizzarre, non argomentate, riprese di qua e di là, rimescolate e assemblate insieme.
Questo segna il primo passaggio importante nella vita del filosofo: si allontana dalla filologia per approdare in maniera più profonda alla filosofia. Della quale, però, rispetto alla filologia, sapeva pochissimo.
Venne infatti rifiutata la sua richiesta di diventare insegnante di filosofia (dopo che ebbe abbandonato la cattedra che, giovanissimo, gli fu concessa come filologo), e venne rifiutata perché non ne sapeva abbastanza.
Conosceva sicuramente molto bene i Greci, ma del resto a parte – ovviamente – Schopenhauer, un po’ di Kant e Feuerbach, un accenno di Hegel, non sapeva nulla.
Qui si riscontra una delle prime paradossalità di Nietzsche. L’intensità con la quale è riuscito a reinterpretare le sue scarse conoscenze, adattandole, però, ad un intuito di base che gli ha permesso di rintracciare e descrivere la crisi culturale del suo tempo (e del suo futuro), lo ha reso uno dei filosofi più brillanti e originali di sempre, proprio per quel suo dilettantismo.
(Questo, in qualche modo, può ricordare anche Wittgenstein, che utilizzando la sola logica, il ragionamento puro, senza doversi confrontare con una tradizione filosofica ne ha però apportato un grande cambiamento.)
Inizia, a questo punto, una nuova fase.
Nietzsche si distacca dai suoi due “educatori”, approdando a qualcosa di più suo, indipendente, veramente libero.
In quel periodo di rinnovamento si presenta per lui la possibilità di un nuovo focolare, a partire dall’amico Paul Rée, che gli presenterà l’amata Lou von Salomé.

L’incontro tra Nietzsche trentottenne e Lou von Salomé ventunenne è uno dei più noti e significativi all’interno della vita del filosofo.
A parte il fatto che lui le ha chiesto di sposarlo diverse volte, sempre venendo respinto, quella che Nietzsche visse fu innanzitutto una infatuazione intellettuale.
Con Lou e con Paul, Friedrich sperava di fondare un gruppo culturalmente fervido, una comunione di menti e di spiriti eccelsi che si alimentassero a vicenda.
Ma perché proprio Lou von Salomé? Chi era questa ragazza così sorprendente?
Di origini russe, fin da piccola legge molto, si interessa di filosofia e religione, e in seguito di psicologia.
Per l’ambiente culturale dell’epoca era sconvolgente: una giovane donna in possesso di tali conoscenze e con un atteggiamento così sfacciato attirava l’interesse di moltissimi uomini, che prontamente la chiedevano in sposa.
Non capivano però che l’interesse che Lou dimostrava nei loro confronti era sempre e solo intellettuale: non aveva intenzione di sposarsi, né di condividere il letto con nessuno di loro.
Trovava solo uomini che si inginocchiavano ai suoi piedi, mentre, per sua stessa ammissione, ricercava un uomo che “la facesse inginocchiare”.
Friedrich e Paul sono soltanto due di quella numerosa schiera di intellettuali che sono stati indelebilmente affascinati da Lou von Salomé.
Il loro progetto, attraversato anche da una convivenza a tre (come è stata tutta la loro relazione) in poco tempo arriva al naufragio.
Friedrich amava Lou; Lou per un momento credette di poterlo amare, ma poi si convinse che non era possibile; Paul amava, a suo modo, Lou, ed era geloso di Friedrich; Lou era affascinata dalla mente di Friedrich, ma preferiva la compagnia di Paul, che almeno aveva smesso di chiederla in sposa dopo il primo tentativo fallimentare.
Insomma: un triangolo del genere non poteva durare più di tanto, e quei due anni furono possibili forse solo perché trascorsero poco tempo insieme.
Alla fine, Nietzsche si distacca da loro.

Lou continua a frequentare Paul, ma alla fine anche il loro legame verrà spezzato.
La “giovane e affascinante russa” continua ad affascinare, e decide di sposarsi solo perché Carl Friedrich Andreas si pugnala al petto in seguito al suo rifiuto.
Sarà un matrimonio bianco, e Lou continuerà a frequentare intellettuali di ogni tipo, da Sigmund Freud a Rainer Maria Rilke (l’unico, forse, che è riuscito a condividere il letto con lei. Ma anche se fosse vero, questi restano inutili pettegolezzi).
Nietzsche, dopo questo incontro e la fine di questo rapporto, è molto cambiato.
Si ritrova catapultato in una profonda e sofferta solitudine, che gli pesa ancora di più a causa del suo stesso pensare, per colpa di quella filosofia che, in qualche modo, consideriamo il suo atto migliore.
In quel periodo trova uno slancio creativo (conseguenza del tempo trascorso con Lou von Salomé) per scrivere “Così parlò Zarathustra”, che oggi viene ricordato come il suo capolavoro.
È il 1885 quando lo termina. Lui non lo sa ancora, ma gli restano poco più di tre anni di lucidità, prima che la malattia lo colpisca in maniera irreversibile.
Dopo aver raccolto il materiale necessario da quel focolare, breve ma intenso, che ha attraversato, il secondo e ultimo della sua vita, si chiude in questa solitudine inespugnabile, e in poco tempo scrive la seconda metà delle sue opere fondamentali.
Ora, tutti quelli che si avvicinano a Nietzsche, con maggiore o minore interesse, non possono non notare con una certa ironia quanto le sue opere siano l’opposto della sua vita.
Elogiava Dioniso, dio del vino e dell’ubriachezza, e poi diceva di sé che erano sufficienti poche gocce di alcol a renderlo di pessimo umore, e che, in fondo, “basta l’acqua!”.
Il contrasto più forte è quello tra l’Übermensch e il suo approccio alla vita.
Descrive un modello di oltreuomo che non corrisponde con il suo atteggiamento. A parte il rifiuto della morale tradizionale, il superomismo prescriverebbe un comportamento eroico, accettare il proprio destino tramite l’amor fati, andare contro tutto e dominare su tutti.

E questo Nietzsche lo scriveva proprio quando si trovava nella situazione opposta.
Parla di uno Zarathustra che di fronte ad un pastore soffocato da un serpente, lo strappa dal suo collo e gli stacca la testa.
Quel serpente rappresenta l’intuizione di Nietzsche dell’eterno ritorno dell’uguale: tutto ciò che hai vissuto si ripeterà in eterno, tutto ciò che esiste si ripete in eterno.
Ma Nietzsche non è Zarathustra, è il pastore strangolato.
Alla stessa Lou von Salomé aveva rivelato la sua idea dell’eterno ritorno, parlandone, però, come di un dramma, come di una certezza terribile e inevitabile.
Ha cercato di proporci questa idea come un invito a vivere e conquistare ogni attimo di vita, per far sì che nulla possa schiacciarci, accettando attivamente il proprio destino. Ma lui dal suo destino è stato schiacciato.
E il “destino” di Nietzsche è, ancora una volta, paradossale.
Non sopportava l’idea dell’eterno ritorno, perché come poteva accettare di rivivere quella vita, piena di sofferenza e solitudine?
Senza patria, senza amici, senza amore, senza casa (tranne quella di famiglia, che detestava); si spostava come un viandante, portandosi dietro libri, scritti e silenzio.
Eppure, forse in un ultimo attimo di lucidità, o con un primo atto di follia, ha fatto per sé un’esatta previsione.
L’ultimo capitolo del suo “Ecce Homo” si apre così:
“Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, io sono dinamite.”
A parlare qui sembra quasi un ragazzino megalomane, narcisista e pieno di sé.
Cosa che Nietzsche sicuramente era: anche alle soglie dei cinquant’anni, la sua rivolta contro tutto ha dei tratti indelebilmente adolescenziali.
Però aveva ragione.
Basta dare uno sguardo alla filosofia, alla letteratura, all’arte del Novecento. Nietzsche è presente, come è presente oggi, perché la crisi di cui parlava, e che ha anticipato, è quella che tutt’ora stiamo ancora vivendo.


Viene costantemente elogiato per essere un filosofo senza precedenti, determinante per la storia della filosofia occidentale, e anche se i suoi detrattori sono molti, questo non diminuisce la sua statura, né il fascino che, instancabilmente, continua a suscitare in chi si affaccia alle sue opere.
Pensiamo alla sua vita: un giovane promettente che abbandona il suo campo di elezione e i suoi maestri per darsi alla filosofia; costantemente malato, soffriva di emicranie e aveva problemi di vista; si spostava sempre, ma ogni viaggio lo sfiancava; si innamorava troppo facilmente, e non veniva a sua volta riamato; era imbranato, timido, impacciato; sembrava davvero vivere in un mondo tutto suo, dal quale non poteva raggiungere gli altri e dove gli altri non potevano raggiungerlo.
Ma da questa inaccessibile altura, con la sua vista poco chiara sul mondo, era riuscito a vedere più lontano e più a fondo di chiunque altro.
“Il suo occhio fiammeggiante, rivolto all’interno, guardava solo apparentemente, spento e glaciale, verso l’esterno.”
Sembra scritto apposta per Nietzsche, invece è stato sì lui a scriverlo, ma parlando di Eraclito, che non a caso sentiva molto vicino a sé.
“In effetti il mondo ha eternamente bisogno della verità e quindi ha eternamente bisogno di Eraclito, sebbene Eraclito non abbia bisogno del mondo. Che cosa importava a lui la sua gloria?”
E Nietzsche aveva bisogno del mondo? Gli importava della gloria?
Sì, naturalmente sì. La sua è una filosofia che desidera il mondo, la gloria e la vita proprio perché era ciò che lui non riusciva ad ottenere. Il mondo lo rifiutava, la gloria non lo sfiorava, la vita gli sfuggiva sempre.
Ma la gloria sarebbe arrivata, lui lo sentiva, e si preparava a questo avvenimento.
“Non voglio essere un santo, allora piuttosto un buffone… Forse sono un buffone… e ciononostante, anzi non ciononostante – perché non c’è mai stato sinora niente di più menzognero dei santi – la verità parla in me. Ma la verità è tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la menzogna.”
E purtroppo è ciò che è diventato per molti: un santo.
Invece, con lucidità, dobbiamo riconoscere che dalla sterile vita di un uomo sofferente, dalla sua condanna e solitudine, è nata questa tremenda verità.
Il mondo avrà sempre bisogno di verità, e la verità ha parlato in lui. Non possiamo (né dobbiamo, a mio avviso) scindere l’opera dalla sua vita, ma la sua è stata un’opera in grado di andare oltre, superarlo, arrivando a parlare a tutti.
Quindi noi avremo eternamente bisogno di Nietzsche, così come Nietzsche aveva disperato bisogno del mondo. Nessuna gloria postuma potrà dargli ciò che non ebbe in vita, ma sarà la sua magra consolazione di fronte alla tirannia dell’eterno ritorno.

