Forse tornerà. La mia vita tornerà – Anna Karenina (Lev Tolstoj)

DI MIRIAM PAOLETTI

Le scene madri sono sempre il preludio del dipanarsi molteplice di quel che rimane dopo, e c’è chi non può rinunciare a cercarne i rimandi, a scrutarli, disperatamente, per sentirsi esistere in questa realtà che altrimenti risulterebbe intollerabilmente anonima o appartenente ad un Dio fin troppo lontano, ad un Dio che da tempo immemore ci ha abbandonati.

“[…] sempre alla stessa cosa – diceva la verità. Ogni volta, in qualunque momento le avessero domandato a che cosa pensasse, senza errore avrebbe potuto rispondere: a una cosa sola, alla mia felicità e alla mia infelicità”.

Lessi Tolstoj nel Luogo della mia Pace, il posto in cui trovai la mia appartenenza intima, viscerale, ancestrale e dunque inspiegabile poiché non immediatamente scovata – contraddittoria poiché non sarebbe dovuta essere quella la mia “casa”; lo lessi in quegli angoli di paradiso, rannicchiata sul tetto aperto contro quell’accavallarsi di case, riempiendomi gli occhi di quel loro articolarsi le une sull’altre, abbracciandosi e respingendosi nel modo dei carruggi di Genova, ascoltando le risate urlanti dei gabbiani, invischiata nella luce calda che sprofonda fin nel centro oscuro del cuore, e mi perdevo fra quelle righe, e mi riconoscevo, sorpresa, nella circolarità dei suoi pensieri. 

In me, per me, quel libro doveva essere Anna Karenina, il pensiero pensante di Anna Karenina, e tutto il resto solamente contorno e contesto: so che non può essere così, che ci sono altre storie, altre vite e altro oltre a lei; so che son’io a leggere questo in Tolstoj. Son’io che lo vedo. Deriva da me. Eppure, per me, era solamente lei, c’era solamente lei, e la sua testa, e la circolarità del suo pensare, e la malattia del suo pensare: non potevo che calare in lei e capire capire capire la circolarità malata inevitabilmente commista al suo pensiero. 

Mi interessa scrivere solamente di questa mia congruenza con Anna, perché, come se potesse essere un vincolo inviolabile, io le appartengo o lei mi apparterrà d’ora innanzi, racchiusa entro il movimento delle mani, e desidero far evadere, dalla semplice narrazione della storia immersa nell’architettura delle vicende, far evadere questo suo pensiero circolare, riflesso dei suoi occhi gioiosi e cupi, espressione della calamita dei suoi movimenti, del suo essere in ogni suo barlume di vita, viva; voglio che evada, perché lei non è soltanto l’amante del conte Vronskij, lei non si riduce a quell’amore o all’opposizione disperata contro la borghesia ottocentesca, la lotta già perduta in partenza che lei stessa non avrebbe voluto combattere; lei è innanzitutto quel pensiero, quel suo sguardo, lei è la totalità intensiva di sé. 

Mi sorprese il nesso che mi pareva di scorgere fra Lèvin ed Anna, e ne ebbi la rivelazione nel momento del suicidio di Anna e la conferma nelle pagine focalizzate su Lèvin, conclusione del libro. Tolstoj è Anna ed è Lèvin. Non potrò mai capire chi, dei due, fu parzialmente e chi totalmente, o se fu completamente solo uno dei due, nell’inizio, e poi se riuscì a divenire completamente l’altro; tuttavia so chi lui pensava di essere, quanto desiderasse divenire l’emancipazione del personaggio in cui si rispecchiava, e quanto fosse la costante possibilità di cadere, cadere, come la caduta dell’altro.

Anna e Lèvin, entrambi, conoscono la luce. Non mi interessa Lèvin se non per questo: lui è il personaggio che vive il percorso grazie al quale il pensiero giunge alla fede. Tuttavia è ancora banale dire solamente questo: è la persona in cui avviene la nascita, tanto agognata da Tolstoj: Lèvin è, inizialmente, quel pensiero disperato, privo di forma e dunque di senso, che si rifrange sulle cose e vi porta appresso, per poi sommergerla, l’insensatezza; perché egli è l’insensatezza ch’esso cova in sé, allora la ritrova incessantemente nelle cose, come le onde del mare che continuano a sbriciolarsi nella sabbia, portando, di sé, solo quanto, ogni volta, sopravvive. L’amore, il dolore, la nascita del figlio: il suo pensiero magnificava ogni momento attendendo l’istante in cui sarebbe dovuto sopraggiungere il senso, cadendo, come una pioggia primaverile, sulle cose che si ritrovava a vivere giustificandole, fino al momento immancabile in cui, ritraendosi sconcertato, scopriva puntualmente il mancato giungere della presenza divina. Infine, in Lèvin divamperà la fede, senza che essa si preannunci con l’intensità di un momento cruciale, senza che rimanga e permanga come le fondamenta indistruttibili da cui far derivare il senso della propria vita, ma avviene, avviene la fede nel suo atto costante di riportarla presente, nel suo atto costante di rendere la terra un cielo

Lèvin mi interessa unicamente per questo: questo suo aver imparato il mestiere di vivere – vissuto come la fede nella vita quale dono di Dio, dopo aver cercato per la totalità della sua esistenza la cosa sbagliata, fallendo: non il mestiere, ma la soluzione del vivere. 

Solo alla fine capirà di dover cercare il mestiere di vivere e attuarlo cercandolo.

“Io non amo questa parola, perché per me significa troppo, molto di più di quanto voi possiate capire”.

Anna è un universo di mosaici incastonati nel perimetro di quanto può scaturire dalla combinazione magica delle parole. Lei è la tesi e la contraddizione che Lèvin supera in un movimento dialettico, lei è colei la quale non riesce ad essere Lèvin, lei è chi, forse, era Tolstoj, lei è il superato, il fallimento, la caduta; lei è tutto ciò che non è riuscito a divenire lui. 

Eppure è lei a meravigliarmi, così umana e divina, divinità totalmente umana.

Lei non riesce a toccare quella pienezza di luce che intuisce nell’esatto momento della sua morte, non le viene donata questa possibilità. Ma forse è entro lei, solamente lei, che percepisco la potenza immensa della vita, l’intensità irrefrenabile di un movimento insensato seppure attribuente senso. In lei immagino la magnificenza disarmante di quel suo pensiero circolare, della sua espressività stregante, dei suoi occhi calamitosi. In lei vive già quella luce, ed in lei e solamente in lei quella luce serba la possibilità di una magnificenza totale. Ho l’impressione che Lèvin ed Anna si posizionino su livelli diversi d’intensità di vita: Lèvin scopre le modalità della vita e la fa proprie, divenendo questo mestiero di vivere, capisce l’esatto involucro con cui dar forma alla vita vissuta, il giusto modo di darsi nella presenza. Al contrario, Anna non giunge alla scoperta del mestiere di vivere e, sotto un certo punto di vista, si potrebbe dire che lei non scoprirà mai come vivere, non se ne dà il tempo. Tuttavia Anna, almeno per me, si posiziona ad un livello superiore di radicamento nella vita rispetto a quello raggiunto o raggiungibile da un individuo quale è Lèvin, poiché essa possiede in sé un’intensità del tutto maggiore: lei è ogni volta il centro stesso della vita che si vive e si dispiega nei modi in cui si concretizza nelle condizioni, nella gioia, nel dolore, nella disperazione, nella rabbia e nel pensiero e nella perdita come nella gaiezza. In lei, attraverso lei, la vita è divina, perché essa è la totalità di sé stessa, né solamente pensiero, né solamente sentimento, corpo, cultura, amore. Lei è la totalità di sé stessa in ogni spiraglio di tempo della sua esistenza attraverso una  intensità disarmante.

Solo che decise di morire per quell’amore, ignorando – fino all’attimo precedente la morte – quel punto segreto in cui il Dio aveva posto la sua divinità assolutamente radicata. 

La sua morte non è la negazione della sua potenza. Ciò non nel senso che lei fu capace di morire per amore – soprattutto per il fatto che lei non decise di morire per amore ma per disperazione, per l’insostenibilità dello sguardo che è troppo consapevole. Ma nel senso che quella morte era solo una delle possibilità di espressione della sua massima intensità, seppure una possibilità ultima.

Intuisco che, in lei, quella sua divinità, questo punto segreto, fosse la sua continua presenza di vita, e che la realizzazione del mestiere di vivere ne sarebbe stato il coronamento, il mezzo attraverso il quale indirizzare la propria intensità: perché in lei, attraverso lei, la vita era divina, dal momento che non poteva diminuirsi. 

E fu così che anche nella morte, anche nell’impossibilità di altre possibilità, lei fu la totalità di sé stessa.

(Il libro a cui si riferisce l’articolo)

“Ma è venuto il momento in cui ho capito che non potevo più ingannare me stessa, che ero viva, che non avevo colpa se Dio mi ha fatto così, che avevo bisogno di amare e di vivere. E adesso?”.

Anna vive un barlume della luce, attraverso il quale il suo pensiero circolare si fa scrutatore e penetra, giunge fino al centro, di tutte le cose. Questo momento è descritto nelle pagine che si concludono col suo suicidio, e queste sono, almeno in me, il punto armonico laddove si ricongiungono le fila dapprima abilmente diramate: lei diviene consapevole di tutto, lei vede le radici d’ogni cosa e le tiene nel palmo della mano come si tiene una manciata di sabbia, senza sapere che farne o come trattenerne i granelli che scivolano fra le fessure delle dita. Come poter costruire una vita da questa sabbia inconsistente?

Non voglio usar parole per riempire questa condizione, dal momento che in me si rende reale attraverso il profilarsi d’una immagine di stanze immense, vuote o ricolme di oggetti inutilizzabili, pietrificati nel silenzio strascicato di sala in sala, cadenzato come il rimbombo di campane che suonano a morto; una immagine oltremodo indicibile. Ognuno potrà assumere in sé, come può, queste parole, perché sono troppo crude, sono troppo nude, per poter essere ripetute. 

Solo, è solamente importante constatare la malattia di quel pensiero circolare e l’intensità che da esso si dipana, e quell’impalcatura di possibilità infinite e tradite, e quella sapienza antica di chi custodisce, in sé, questa quantità devastante di vita, così immensa e tremenda da non poterla trattenere nelle cose. 

Credo che, per chi è come Anna, la vita sia intollerabile. 

E perciò è necessario ch’essi trovino il loro mestiere di vivere, per poter rendere la malattia di quel pensiero circolare un’intensità proiettiva e non una ritorsione frustante.

Per non morire, per sopportare questo peso, poiché questo divino ha un peso.

“Perché ovunque sia lo sguardo, esso punta sempre verso il cielo, verso quello che non si può vedere e che però sentiamo. Perché siamo collegate con le stelle. Per questo sentiamo tutto”.

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