Eureka – Il poema cosmogonico di E. A. Poe

DI EDOARDO VALENTE

Leggere Edgar Allan Poe è come introdursi nelle profondità della terra: lo si fa per gradi, attraversando strati sempre più solidi e complessi, fino a giungere al cuore pulsante del pianeta.

Spesso, ci si avvicina a questo autore attraverso i suoi racconti dell’orrore, ovvero lo strato superficiale. E capita di leggere, anche nelle antologie scolastiche, racconti come Il gatto nero, “Il cuore rivelatore”, o “Il pozzo e il pendolo”.

Da lì, si possono scoprire tutti gli altri racconti, del grottesco e dell’arabesco, in cui esseri umani dalle menti soggiogate, affrontano orrori apparentemente sovrumani, ma che in fondo sono sempre ascrivibili ad un comportamento “troppo umano”.

A questo punto si può passare alla poesia. Ma, anche qui, per gradi, poiché la più nota rimane Il corvo, e poi si scende sempre di più, a conoscerle tutte quante, giungendo, addirittura, ai saggi sulla poesia.

Ed è in questa intersezione stilistica, a metà tra saggistica e poesia, che si trova l’opera di cui voglio parlarti oggi: “Eureka”, ovvero “Saggio sull’universo spirituale e materiale”.

Non preoccuparti, ogni perplessità verrà chiarita al più presto.

Forse.

Perché “Eureka” si presenta come un testo più che singolare: è un saggio cosmogonico, ma lo stesso Poe lo definisce un poema in prosa.

Nasce nel contesto di una conferenza che Poe tenne a New York nel 1848, e che arricchita divenne questo testo, del quale l’autore era anche particolarmente orgoglioso.

Iniziano a sorgere, però, i primi dubbi: come mai uno scrittore di racconti dell’orrore, un critico letterario sicuramente molto apprezzato, dovrebbe scrivere un’opera sulla nascita dell’Universo?

A questo non ho risposte. Ma lo stesso Poe, nonostante tutto, sembra un po’ scettico sul suo lavoro. Infatti, nella nota introduttiva, ammonisce il lettore, invitandolo a considerare quell’opera più come un testo poetico che un saggio. È stato un modo per mettere le mani avanti, come a dire: “Se intuisco cose sensate per il mondo della scienza, bene; altrimenti è solo un poema”.

Ma era davvero questo il suo obiettivo?

Innanzitutto, cosa che in molti potrebbero non aspettarsi, dimostra un certo tipo di conoscenza delle teorie fisiche che non è scontata, soprattutto per un non addetto ai lavori.

Fa principalmente riferimento alle leggi di Keplero, alla legge di gravitazione universale di Newton e all’ipotesi nebulare di Laplace, ma dimostra di conoscere – seppure spesso interpretate a modo suo – le teorie di molti altri fisici delle epoche precedenti o suoi contemporanei.

Alcune peculiarità espositive emergono, però, anche nella sua apparentemente ferrea argomentazione. Ad esempio, per criticare i principali filosofi che nel corso della storia si sono occupati di definire cosa sia un assioma e cosa non lo sia, usa la finta lettera scritta da un personaggio inventato, che Poe dice di stare semplicemente riportando fedelmente.

E in questa lettera appare uno degli elementi distintivi dello stile di Poe: i giochi di parole, con i quali assegna un nome fittizio a tutte le personalità citate.

Non solo: altra caratteristica distintiva di Poe è quella peculiarelucida follia con la quale razionalità e irrazionalità si mescolano nella maniera più naturale.

Scienza e fede, in questo saggio-poema, si trovano spesso affiancate. È lui stesso a ripetere più volte che “il corpo e l’anima camminano a braccetto”.

Ma per quale motivo? Cosa ci vuole raccontare il maestro del racconto dell’orrore?

Ci vuole raccontare qualcosa di molto bello e poco orrorifico: l’Universo tende all’Unità. 

Per aiutarsi a spiegare questa intuizione, usa la forza di gravità. Essa rappresenta il principio di Attrazione, che fa sì che ogni corpo, ogni atomo, ne attiri un altro a sé stesso. Come è possibile, allora, che l’Universo non sia già tornato ad essere una cosa sola? Perché, ovviamente, esiste anche la forza di Repulsione.

“La prima è il corpo, la seconda l’anima; l’una è il principio materiale, l’altra il principio spirituale dell’Universo. Non esiste nessun altro principio.”

Insomma: con questo insensato miscuglio di fisica e metafisica, Poe vorrebbe dimostrare l’origine, lo sviluppo e la possibile fine dell’Universo.

Quello che sicuramente colpisce, è che essendo questo un poema cosmogonico, ha effettivamente delle somiglianze con le opere di questo genere che vennero scritte nell’antica Grecia. Poe sembra ragionare come un filosofo naturalista, mettendo insieme conoscenze scientifiche e umanistiche per trovare un’unica legge che regga tutto quanto.

L’idea dell’Attrazione e della Repulsione ricorda le teorie di Eraclito o di Empedocle, i quali però, da greci quali erano, ritenevano necessario un equilibrio tra le forze opposte, cosicché in questo bilanciamento possa esistere la vita.

Poe, dal canto suo, pensa che tutto, invece, debba tendere all’Unità. E anche questo, in un certo senso, può rimandare ad antichissime teorie, come quella dell’ápeiron di Anassimandro. Il filosofo presocratico sosteneva che in origine ogni esistente era unito in armonia nell’indefinibile ápeiron, ma in seguito ad una sorta di peccato originale, si sono generati i contrari. Gli esseri viventi, però, continuerebbero a tendere verso un ritorno all’unità perduta.

In cosa si differenzia da questa visione delle cose la teoria di Poe? Il fatto che egli porti come prova indiscussa, come già anticipato, la legge di gravità.

Le singolarità di questo testo, però, non finiscono qui. Perché, nel momento in cui si domanda l’origine di questa eterogeneità di cui è fatto l’Universo, la risposta è: la Volontà Divina.

Ancora una volta “il corpo e l’anima camminano a braccetto”.

È incredibile: Poe procede con una razionalità impeccabile, segue una logica inattaccabile, ma parte da premesse insensate e illogiche.

Sembra di leggere uno dei suoi racconti, in cui il solito protagonista senza nome inizia ad autocelebrare le proprie capacità intellettive e la propria razionalità per poi, subito dopo, annunciare che racconterà qualcosa che supera ogni logica.

Questa stessa ambiguità percorre l’interezza di “Eureka”. 

Va preso come un saggio pieno di errori, oppure come un poema dalla struttura insolita?

La realtà dei fatti resta inaccessibile. Ed è giusto così, perché questo permette a Poe di concedere al lettore il piacere più grande: l’interpretazione personale.

“Ciò che io espongo qui è vero. Dunque non può morire. Se, in qualche modo, dovesse essere umiliato tanto da morirne, esso risorgerà alla vita eterna.”

Queste sono parole dell’introduzione, e non si può dire altro se non: ha ragione. In ogni caso ha ragione lui.


Dove sta la verità in un’opera letteraria? È forse vero che Ulisse ha accecato un ciclope, resistito al canto delle sirene, visto i suoi compagni trasformati in animali, e tutto il resto? No, ovviamente no. Eppure, non per questo la narrazione perde di valore.


Quello che probabilmente è, effettivamente, il lato più incredibile di quest’opera, è la lezione che Poe ci consegna sul potere della narrazione.

Scrive un saggio di cosmogonia e lo chiama poema; si concede calcoli matematici e citazioni scientifiche, così come si lancia in descrizioni poetiche dal solo valore linguistico ed emozionale.

L’abilità di Poe non sta nell’aver scritto un trattato sull’origine dell’Universo, ma sta nell’aver analizzato l’approccio della mente umana ai problemi dell’Universo.

Da un lato ci prende in giro, facendo passare per serie delle cose insensate, dall’altro ci dimostra con serietà l’irrazionalità della nostra indagine sul mondo.



Certo, noi oggi sappiamo che tutto ha avuto origine dal Big Bang, ma è davvero così diverso immaginare un evento come quello rispetto ad una Volontà Divina che agisce in nostro favore?

“Fra questa stella e quella del nostro sistema (il Sole), vi è un abisso di spazio che sarebbe necessaria la lingua di un arcangelo per darne un’idea.”

Ancora una volta: ma certo, ha ragione lui. 

Cosa ne sappiamo noi di quant’è effettivamente la distanza tra i pianeti del sistema solare, o tra il sole e un’altra stella?

Possiamo calcolarla, possiamo immaginarla, ma non possiamo vederla. Così come possiamo immaginare un arcangelo, senza poterlo vedere.


Per la mente umana realtà e fantasia, concreto e astratto, materia e spirito si confondono, diventano effettivamente un tutt’uno. Vanno a braccetto.

Nella poesia “Un sogno dentro a un sogno” Poe ha scritto:

“e, tuttavia, se la speranza volò via

in una notte o in un giorno,

in una visione o in nient’altro,

è forse per questo meno svanita?”

No, non fa alcuna differenza.

“Eureka” è stato uno degli ultimi lavori di Poe, sicuramente l’ultimo ad essere così lungo e articolato, e anche per questo, secondo me, rappresenta in qualche modo una summa del suo stile e del messaggio che ha voluto trasmettere con le sue opere.

I racconti dell’orrore li scriveva principalmente perché vendevano più delle poesie, ma quello che faceva scrivendoli non era tentare di spaventare il lettore, ma di fargli analizzare quanto sia flebile il confine tra realtà e sogno, tra ragione e follia.

Poe si convince (e ci convince) che le teorie scientifiche non siano altro che intuizioni poco dissimili da quelle artistiche, nate dal nostro bisogno di trovare un ordine nelle cose. L’Universo assume la forma che la mente umana gli sa dare.

Ad un certo punto ne parla paragonandolo ad un romanzo con gli intrecci perfetti, perché gli intrecci di Dio non possono che essere perfetti.

Egli (Poe intendo, non Dio) è anche l’inventore del racconto poliziesco. E la curiosità umana che spinge a risolvere i misteri dell’Universo la si può paragonare a quella che spinge un detective nel risolvere il mistero dietro a un crimine.

E questa curiosità, questo nostro incessante tendere verso l’inconcepibile, verso un infinito inimmaginabile, ci fa costruire architetture che, spesso, non conducono da nessuna parte.

La logica, ancora una volta, viene sbaragliata dalla più bella delle irrazionalità: il principio poetico.

“È l’essenza poetica dell’Universo che nella sua suprema simmetria è il più eccelso dei poemi.”

Parlare dell’Universo in termini scientifici, oppure farlo in termini poetici, per quella che è la natura umana, cambia poco.

Così come cerchiamo solide certezze, abbiamo anche bisogno di sognanti narrazioni.

Questo in pochi l’hanno capito così bene come lo ha capito Poe.

Il quale ci lascia alla fine della sua trattazione, con un altro slancio poetico e religioso, che certo non ci si aspetta come nota conclusiva di un saggio cosmogonico.

Verso la fine, emerge una considerazione quasi panteistica: se tutto ciò che compone l’Universo tornerà all’Unità, allora tutto si unirà a Dio, e se tutto ha avuto origine da Dio, allora Dio è in ogni cosa, in ognuno di noi.

“Se Dio può essere tutto in tutto, ciascuno, necessariamente, è Dio.”

Cosa vuol dire questa affermazione? 

Non posso saperlo con certezza, ma il bello sta proprio nel fatto che ognuno può ricamarci attorno il significato che preferisce, finché non giungerà alla narrazione che più lo convince, così da poter comprendere ogni cosa ed esclamare, finalmente:

Eureka!

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