DI MIRIAM PAOLETTI Le scene madri sono sempre il preludio del dipanarsi molteplice di quel che rimane dopo, e c’è...
Iscritto20 Maggio 2023
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Penso a questa esistenza perché non posso che cogliere ciò che da questa si dirama, ramifica, e l’osservo come quando si guarda il sole: perché si desidera accogliere quella luce, perché si vuole ch’essa ci inondi, allora si socchiudono gli occhi fissi nel mare dorato, ci si protegge con la mano ponendola nella distanza fra noi e la stella, permettendo che le lame bianche filtrino fra le ombre nere delle dita.
Voglio, attraverso un desiderio cosmico, poter “succhiare il midollo stesso della vita”, e necessito della concepibilità di tale possibilità come il corpo anela al fiato quando è sommerso dalle profondità del mare; quando con lo sguardo rivolto su, ci si lascia trascinare, dalle tenebre verso l’alto, da quella forza che non dipende da noi, ma che, tuttavia, invade il corpo come se ne facesse già parte, quasi fosse un’estremità, e la si sente scorrere sotto la pelle, presente e viva mentre risorgiamo verso il bianco del cielo da cui ci separa solo la superficie dell’acqua: possiamo bucare il limite sfiorandolo con le dita!
È, questo, il solo modo che ci rimane per pregare!
E si risorge, come unico essere esistente al di sotto della volta, respirando di nuovo per la prima volta.
Mi capita di credere che siamo uomini soltanto perché vogliamo poter toccare le stelle e perciò viviamo, al di sotto di queste, facendo della terra un cielo.
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