DI MIRIAM PAOLETTI
“Ma esso non esiste, perché non ha niente di troppo: è tutto il resto che è di troppo in rapporto ad esso. Esso è.
E anch’io ho voluto essere. Anzi, non ho voluto che questo; questo è il vero significato della storia. Vedo chiaro nell’apparente disordine della mia vita: nel fondo di tutti questi tentativi che sembravano slegati, ritrovo lo stesso desiderio: cacciare l’esistenza fuori di me, vuotare gli istanti del loro grasso, torcerli, disseccarli, purificarmi, indurirmi per rendere infine il suono netto e preciso di una nota di sassofono. Potrebbe perfino essere un apologo: c’era un povero diavolo che si era sbagliato di mondo.”
Pare incomunicabile; si può descrivere forse.
Oppure lo è, inesprimibile.
Forse è possibile spiegarlo: permettere che la mente possa immaginarlo come se lo avesse provato e rimembrare, riportare sull’orlo della percezione le sensazioni avute nel ricordo, prima che svaniscano, prima che vengano sostituite dalla storia e scivolino nel limbo.
Tuttavia, s’afferma la consapevolezza che non ci si possa avvicinare davvero se non lo si sente, si rimane distanti, separati, dall’altro lato della sponda, ad osservare ed a rassicurarsi, provando quella sensazione confusa che è propria di quei momenti in cui si intuisce che si è scampato qualcosa, pur non individuandone esattamente l’entità; la consapevolezza tiepida d’essere al sicuro dal gelo, protetti, rispetto a quel qualcosa che è preceduto dal freddo e che in fondo non si vuole scoprire, seppure la curiosità possa sentirsi stuzzicata al pensiero “di”, corroborata dalla fantasia dell’immaginarsi “come se”. Al pari di quando si respira l’aria calda e buona della casa, quella che sa di pane, e lo si fa mentre il corpo è accarezzato dal morbido delle lenzuola, nello stesso istante in cui ci si ricorda che esiste quel suono costante della pioggia, in cui ci si accorge che c’è anche quel freddo, al di fuori; eppure, è un baluginare di stella, perché o non ci si crede davvero, a quell’ombra, o non la si considera realmente come presente, sulla pelle, ed, al contrario, la si concepisce nella modalità del pensiero:
c’è l’odore del pane, qua
e le coperte sono soffici,
ora non può essere anche freddo,
ora non può che essere soltanto casa, perché, quel che è fuori, è troppo lontano per poter essere davvero creduto.
È oltre.
Altro da quanto c’è qua.
Dall’altro lato si è felici di guardare la riva opposta: non fa paura, forse è pure bella da questa distanza, forse possiede quel fascino misterioso e superficiale che mostrano le cose non capite; eppure va bene così: non muovete il passo! Dubitate nello sguardo, e voltatevi. Via!
Badate però, qualche “storta sillaba”, se solo ascoltata, dall’altro lato della sponda, non può essere pericolosa: sono solo parole.
C’è del bianco o del grigiore soffuso; s’intravedono delle forme che s’intrufolano nella nebbia, ed all’improvviso, impunemente, s’affermano: c’è qualcosa, c’è effettivamente qualcosa!
Si allunga la mano, si muove il passo, un altro, ancora uno, quasi: ci si sporge col busto, da destra verso sinistra, il braccio cerca.
Chiede che ci sia qualcosa, “non può sopportare questa tortura senza”.
Si apre il pugno e si guarda il palmo della mano: nulla: non ha risposto nulla.
Gli occhi si spostano lungo l’orizzonte ma il pensiero si domanda, sottovoce come se anch’esso potesse essere di troppo all’interno di questa nebbia: può essere chiamato orizzonte questo qualcosa che non può essere indicato?
Si corregge: perché indicarlo? Si volta, il corpo è solo. O è il pensiero ad esserlo? Guarda in basso e vede qualcosa, e questo qualcosa è lui, lo riconosce col pensiero, forse è l’abitudine, avrà imparato a nominarlo, a descriverlo, a crederlo presente anche senza doverlo toccare: ma lo si sente dall’interno, lui sente questo corpo dall’interno? Lo senti?
Il bianco è ovunque e si vorrebbe fosse nero. Se lo fosse sarebbe una presenza: non si potrebbe credere che non ci sia, il nero, perché è fattualmente sicuro, ha il diritto di esistere e lo mostra compiaciuto, sguaiatamente: lui può crederlo al contrario di questo molle appeso esitante esserci.
Ma cos’è che c’è?
Ha il sapore del buio, questa cosa che c’è. Bisognerà che si osi prendere o strappare a qualche d’uno il suo diritto all’esistenza? Ma con che coraggio, ci si chiede, si può voler strappare la speranza ed intaccare una vita?
Non si dovrebbe voler vedere cosa inevitabilmente accadrebbe se solo si tendesse la mano.
S’avverte la presenza delle sbarre: sono prigionia inconsistente, perché non c’è nulla che ostacola il passo e c’è soltanto questa sostanza molle, che un po’ si ritorce, a caso.
Allora si rabbrividisce perché è questo il contatto con l’assoluta libertà, libertà anche da sé stessi, presente palpitante stridente come quando l’orchestra si muove con i passi pesanti delle carcasse di elefanti che ci impaurivano quando eravamo ancora bimbi.
Ma eravamo ancora bimbi, allora.
Serpeggia la domanda: è paura questa?
È la sensazione del nulla.
È il vuoto, quello che risale fin dentro le ossa e che ingombra gli occhi con qualcosa di molle, li riempie, fin oltre l’orlo, ed entra nella bocca spalancata: copre l’urlo.
È nel corpo, o diventa corpo, e perché non ci si può disgiungere ormai siamo questo molle.
È nella testa e non può uscire fuori, è la testa che pensa che sta pensando al fatto di voler pensare qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, pensare a qualcosa, qualsiasi, a parte questo pensiero di pensiero che non è nulla, che non è noi che pensiamo, non esprime chi pensa e potrebbe esser di chiunque, è l’impersonale che soverchia il rimando, la spontaneità, l’emozione: dov’è chi pensa a questo pensiero? Come reagisce questa cosa che sta pensando di star pensando? Dove trovarla, la reazione, come farla uscire da questo sacco svuotato delle membra, come cavarla fuori da questa cosa che esiste? Come essere?
Sei ancora lì?
Che non sia mai stato lì e noi credevamo in un sogno.
Il sentirlo potrà essere considerato sogno.
Ci sono solo occhi spalancati e bocche aperte e urli senza suono.
C’è la pelle impersonale, senza corpo, senza identità, senza la sensazione, senza senza senza qualcosa. E lei lo cerca, ricerca la carne, cerca qualcosa che senta il dolore o la gioia o la felicità. Qualcosa con cui indicarsi a sé stessi, qualcosa con cui toccarsi e assicurarsi che in questo spazio ed in questo tempo c’è qualcosa che sente di esistere e non soltanto una cosa che esiste, abbandonata alla mera collocazione.
Che futuro ha questa cosa? Da questa riva non si può vedere. Forse solo dall’altra, da lontano, dalla giusta distanza, solo dall’alterità si può dire, con la lenta sicurezza pacata di chi conosce la vita, che sarai, tu, tu sarai una cosa, sarai qualcosa perché già adesso lo sei: qualcosa che sarà in un tempo, in uno spazio, e che vivrà della vita.
Ma è troppo lontano. Mentre, da vicino, sono quelle parole, queste stesse, ad avere la consistenza delle cose lontane: delle cose che provengono da un altro mondo, echi così inumani rispetto all’umano che c’è qua, da non poter che lasciare nella memoria l’impronta inconsistente d’un’altra testa forse agognata.
È, questo, un altro cuore. Un altro cuore in cui c’è la fede, in cui c’è la speranza, in cui i fatti hanno il profumo dell’accordo e dell’armonia; è altro.
Da questa sponda, la brezza non solleva, tirandolo dolcemente dall’estremità per portarlo alla luce, l’odore, ma è solo una consistenza di esistenza, un sapore amaro, o una vista scomoda, come quando si vedono i pupazzi dei bimbi sul ciglio della strada alla stregua di manichini scomposti, o come il braccio penzolante del Cristo morto, spezzato, sulle ginocchia di chi l’ha amato nella vita.
Rimane una certezza il cui rintocco lacera quel poco di cuore: non dovrebbe essere così.
Non lo si vorrebbe.
Si vorrebbe dar vita, con la punta dell’unghia, alle architetture divine, sfogliare i labirinti inaccessibili del tempo e ripercorrere i fili del ricordo abissale; vita, alle altisonanti foreste erette contro l’eroica emorragia del cielo lungo il finire del giorno, dare vita all’essere, l’ingiustificato che non necessita di nulla per respirare e palpitare, che si mantiene presente come il volo degli uccelli lungo l’indefinibile linea dorata; e non servirebbe altro da quanto lui stesso è, per crearlo, quell’essere, quelle ali stagliate nel cielo, affinché viva, perché bruci di null’altro oltre che di sé stesso, e divampi divampi divampi dall’alto di questo punto finché si possa coglierne la presenza rassicurante, fondatrice a ritroso nel ricordo, attraverso uno sguardo risollevato sull’esistenza ed un cuore che sillaba un nuovo battito.
Un luogo
verrà il momento in cui si potrebbe voler
essere
E lo vorremo
con profondità oceaniche e cosmiche porzioni di sole negli occhi
E non potremo che essere
nient’altro che questo credere nella preghiera in bilico sulle labbra
Accetteremmo che ci sia permessa soltanto di centellinare dall’ombra?
“Ma bisognerebbe che s’immaginasse, dietro le parole stampate, qualche cosa che non esistesse, che fosse al di sopra dell’esistenza.”
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