Il diritto di osare-Delitto e Castigo-Fëdor Dostoevskij

DI MIRIAM PAOLETTI

“Perché se sono così stupido, perché se gli altri sono così stupidi, e io so per certo che lo sono, perché non cerco d’essere più intelligente?” 

So di essere stupido e so che gli altri sono stupidi; ma allora perché, il saperlo, il fatto d’averne consapevolezza, non comporta una variazione? 

Perché, dalla concepibilità di qualcosa, non ne deriva un mutamento

Raskol’nikov è un giovane universitario di famiglia modesta che vive nella Pietroburgo dell’Ottocento; abita in una stanza di uno di quegli edifici utilizzati per ammassarci all’interno tutta la marmaglia di disadattati non aventi luogo migliore in cui risiedere.

Perché immerso nella miseria umana, vede le condizioni precarie in cui la maggior parte della popolazione era costretta a vivere: è osservatore di tale orrore e non può che provare un profondo sdegno.

Raskol’nikov vede chiaramente quanto l’azione compiuta dagli abietti non sia un atto che, perché concretizzato in determinate condizioni svantaggiose ed in seguito ad una esplicitazione della volontà dell’agente, allora diviene meschino: egli riconosce che quel loro gesto già nel principio era miserabile, poiché il loro vivere disgraziatamente è già implicito nel fatto che sono sventurati. Questi attori tetri ed impersonali subiscono gli urti di altri esseri a loro volta esanimi e depravati: il vivere, sia della vittima che del carnefice, è ridotto ad una mera sopravvivenza nella quale, quando è possibile predirli, si fuggono i colpi che giungono da chi è più potente, e, quando se ne ha la possibilità, si infliggono gli stessi a chi è ancor più debole, divenendo emulatori di una crudeltà nata come impersonale e che corrode la personalità del miserabile, succhiandogliela via dal midollo stesso. 

D’altronde, seppure Raskol percepisca, in ogni uomo, l’orrore di vivere all’interno di un enorme meccanismo cieco, egli distingue delle figure estranee a tutto ciò: vede che c’è chi non ne è succube.

C’è chi, in mezzo a tutta questa marmaglia, non è vittima della miseria perché è “saldo di mente e di spirito”. 

C’è chi, perché esercita il proprio potere su chi è invece miserabile, è capace di osare molto, d’azzardare azioni impunite e straordinarie, di proseguire oltre ciò che gli altri individui non si permettono di fare, sia perché l’effettiva azione risulta a loro impossibile, sia perché non sono neanche in grado di idearla. È l’individuo eccezionale che detiene il potere di “poter sputare su molte cose” e, forse, proprio in virtù di tale eccezionalità, è capace di soverchiare ogni cosa.

Pertanto, Raskol’nikov, conclude che c’è una legge che distingue le persone ordinarie, il “materiale” utile unicamente alla procreazione di qualcosa simile a sé stesso, da quelle eccezionali, coloro che, perché posseggono il talento di dire la parola nuova nell’ambiente, allora sono dei distruttori del presente a vantaggio di un futuro migliore; nondimeno, al fine di comportare una tale miglioria, gli eccezionali possiedono il diritto al delitto, la capacità di passare oltre al sangue. La legge è intrinseca all’essenza stessa della natura umana: gli uomini sono legati irremovibilmente a tale definizione di se stessi, gradiente di potenza, o capacità d’espressione: al talento alla vita. Nulla può spezzare la cadenza costante attraverso cui gli uomini deboli vengono schiacciati dal potere che li trascende; e nulla può evitare che uomini straordinari devastino l’ordine che ogni volta si dà come attuale, uomini di cui Napoleone, Cesare, Keplero ne sono esempio.

Ma allora, Raskol’nikov si chiede, l’eccezionalità di Napoleone non consiste forse nel fatto che lui fosse cosciente di dover osare per poter essere legislatore della plebe? E se è così, allora anche  lui, Raskol, è eccezionale perché conosce la legge, perché ha pensato ciò che nessuno, prima di lui, aveva mai osato concepire. 

Se egli sa quale è la condizione umana, conosce la miseria, e vede la presenza inesorabile della legge, allora anche lui può chinarsi a raccogliere il potere: la concepibilità della condizione, necessariamente non equivale alla condizione precedente in cui non si aveva consapevolezza, giacché è presente un fattore ulteriore che crea una differenza fra le due situazioni; cosicché, averne consapevolezza comporta anche solo la possibilità di sovvertire la legge e sbaragliare ciò che s’impone come necessario. 

Deve solo uccidere. Ammazzare, macchiarsi le mani di sangue innocente, per esplicitare la sua forza, il suo diritto. L’unico movente è il voler osare: nient’altro.

Tuttavia Raskol’nikov conviene che chiedersi se possiede o meno quel diabolico diritto equivale all’ammettere di non possederlo affatto; che anche solo perché s’è posto la domanda “se i pidocchi sono esseri umani”, allora significa che, per lui, l’uomo non è un pidocchio; che per lui, l’uomo è miserabile non perché non ha valore, ma perché è indifeso rispetto al potere, per lui irraggiungibile, di cui deve subire i dettami. 

Napoleone, esplicitante o soverchiante della legge, a prescindere da come lo si vuole concepire, è un individuo eccezionale perché ha espresso il potere. Non si è mai domandato se avrebbe potuto farlo, se, possedere la consapevolezza dei meccanismi retrostanti la vita umana, potesse dimostrargli il fatto d’essere un individuo eccezionale che può permettersi d’agire incondizionatamente rispetto ai sacrifici che il “molto osare” comporta. Napoleone non si è chiesto nulla di tutto ciò, lui, banalmente, ha agito; lui, semplicemente, non ha neanche pensato al fatto di poter o non poter fare ciò che ha effettivamente compiuto: l’ha fatto. 

Già mentre organizzava scrupolosamente l’omicidio, Raskol’nikov conosceva la verità, ciononostante lui doveva osare, doveva metter fine a tutto questo tormento: lui voleva solo più uccidere, per se stesso, per sé solo. 

Tuttavia, Raskol sa che, dovesse rifarlo, non commetterebbe il delitto, in quanto ora è cosciente di cosa gli premeva sapere quando ammazzò l’usuraia: voleva sapere, doveva assolutamente sapere, se era un pidocchio o un essere umano, se era una povera creatura tremante o se invece aveva il diritto. Doveva dimostrare a se stesso ciò che già inconsciamente conosceva, doveva appurare, a qualunque costo, se era un pidocchio o un uomo.

Ora, Raskol sa d’essere un pidocchio; e sa che, come gli è costantemente riportato alla memoria dalle macchie di sangue sulle sue mani, oltre alla vecchia, lui ha ucciso sé stesso. 

Si è ucciso con un colpo secco, “una volta e per sempre”, perché non poteva andare oltre.

Si è ucciso perché lui non è un individuo eccezionale bastante a sé stesso, lui non può vivere a discapito di chi calpesta per permettersi “le vette”, non può andare oltre tutto quel sangue. Qualunque ideale, per quanto divino possa essere, potrà mai ripagare il sangue di un qualsiasi pidocchio? 

Raskol’nikov sa che non potrà mai credere o convincersi che l’espressione della sua potenza basti a dimenticare il sangue versato: è un uomo, nessuno gli ha insegnato a dimenticare!

E forse è meglio così, forse è meglio non essere individui eccezionali che custodiscono quel diritto tremendo. Forse c’è un’altra strada o un altro modo di camminare, dove non c’è nessun diritto, dove ci sono solo uomini.

Dove ci sono solo “pidocchi”.

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