DI ELODIE VUILLERMIN
In Abel Alessandro Baricco ci porta in luoghi dove non ci aveva mai portato, è come se prima avesse giocato a fare dei bei mondi in cui la nostra umanità potesse andare in scena, mentre stavolta – sarà l’età, sarà l’esperienza, sarà il tempo trascorso dall’ultimo romanzo – è andato da qualche parte ed è tornato.
Ed è come leggere un resoconto di viaggio, ma di viaggio dentro di sé.
(Alessandro Mari)

Dopo 8 anni da La sposa giovane, Baricco torna sulla scena con un “western metafisico”, come lo definisce lui stesso. Veniamo trascinati nella storia di Abel, sceriffo di un imprecisato paese dell’Ovest. Tempo e spazio non hanno confini, né un ordine. Scorrono liberi. Si balza continuamente tra episodi dell’infanzia e momenti dell’età adulta di Abel. Ci sono più sottotrame che si incrociano e nemmeno finiscono, narrate a spezzoni e slegate da un ordine cronologico. Nemmeno lo stesso Abel sa da dove è partito, né dove è diretto. Non a caso orologi e bussole non funzionano mai, all’interno del romanzo.
La storia sembra più vicina a un enorme flusso di coscienza. Non è tanto importante il prima o il dopo, quanto il qui e ora. È tutta questione di esserci, di stare nel flusso del momento. Non serve nemmeno che la storia abbia una conclusione. Perché in queste pagine c’è tutto il vivere di Abel e della sua famiglia. E vivere è qualcosa che succede adesso, in questo istante. Ma è come se quel vivere fosse una fase transitoria, un momento di preparazione di Abel a una nuova esistenza, come gli anticipa una bruja in uno dei capitoli più importanti del romanzo.
In questo scorrere di pensieri in libertà, in cui abbiamo la sensazione di essere sballottati da una parte all’altra, ci rimane qualche certezza. Per esempio, che Abel ama una donna, Hallelujah, che è libera di entrare e uscire dalla sua vita quando vuole. Che suo padre è stato scannato dagli indiani e sua madre è scomparsa. Che ha avuto un maestro e ha sparato un colpo speciale, il Mistico, che lo ha reso leggenda. La lettura di Abel non è un semplice passatempo, è un esercizio di attenzione, un viaggio di natura filosofica, la ricostruzione di un puzzle a partire dalle tessere sparse qua e là in ogni capitolo.
Le ambientazioni sono quelle che possiamo aspettarci da un classico western. Ci sono saloon, sparatorie tra sceriffi e banditi, radure selvagge, furti di bestiame, tribù di indiani, guaritori mistici, massacri di interi villaggi.
Perché proprio il western, si dirà. Be’, non avevo tempo e voglia per edificare mondi, come faccio di solito, mi serviva qualcosa di pronto all’uso, e in questo senso i generi sono perfetti: una buona parte del materiale è già sul tavolo, i pezzi sono quelli, non devi fare altro che iniziare a giocare. E il western di tutti i generi è quello che amo di più: forse perché contiene tutti gli altri, come alcuni dicono. Ma insomma, mi sono buttato da quella parte. Alla seconda riga c’era già uno sparo. Fantastico.
(Alessandro Baricco)

Nelle pagine di questo libro sparare diventa un’arte, una ragione di vita, qualcosa che ti plasma. L’atto stesso dello sparo è un respiro, il meccanismo che ti mette al mondo, e infatti è dal suono di un proiettile partito dal fucile del padre che Abel sente di essere nato come persona. Ma sparare non è solo un mestiere o un talento. È una condanna che toglie il sonno.
La pistola e il fucile vengono paragonati a qualcosa di sublime, leggendario. Lo sparo è la forza del Creatore. Con un proiettile puoi avvicinare a te le persone care, ricucire uno strappo, conservare il ricordo di qualcuno. Il pistolero diventa un figlio di Dio. Forse è per questo che Abel e i suoi fratelli hanno nomi biblici. Non solo, le armi diventano il mezzo con cui il protagonista prova a ricomporre i pezzi della sua vita, a colmarne i vuoti, a capire qual è il suo destino.
Anche la natura ha una forza devastante, superiore, quasi tendente al divino. Come quando arriva il grande gelo. Oppure quando si scatena una tempesta tale che una volta in mezzo a essa non vedi più nulla, ti senti bagnato fino all’osso e perdi l’orientamento.
Accadono avvenimenti spesso inspiegabili, surreali e quasi magici, come quando Abel sembra prevedere le azioni dei suoi nemici (come se avesse la facoltà di riavvolgere il tempo su sé stesso). Avvengono conversazioni all’apparenza prive di logica, ma che Baricco riesce a rendere sensate e coerenti con il contesto scelto, nel suo stile unico e inimitabile. La sua è una scrittura visionaria, quasi poetica, a tratti ironica. C’è una precisione geometrica nella costruzione delle frasi, ma anche una certa musicalità. La storia va riletta più di una volta se vuoi capirla per davvero.
Vita e morte, logica e irrazionalità, empirismo e metafisica: gli opposti si confondono e sconfinano l’uno nell’altro. Ci sono personaggi che, secondo il pensiero di alcuni sciamani, pur essendo in età adulta non sono ancora davvero nati oppure sono già morti. Ecco quindi il tema centrale: la rinascita, fisica e spirituale. È come se tutti avessero vissuto mille vite insieme, si suggerisce una possibilità di reincarnazione. Tutto è già successo, tutto è già stato vissuto. Si può dire che “siamo già stati dove non siamo mai stati, e anzi, a dirla tutta, veniamo da lì”. Siamo all’origine e al tempo stesso alla fine di tutto.
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