DI ALBERTO GROMETTO
Da una parte l’elefantino più tenero e dolce e adorabile e iconico e famoso che ci possa essere, con quelle sue grandi, enormi orecchie e quei suoi occhioni meravigliosi dinanzi ai quali è impossibile non sciogliersi dalla commozione!
Dall’altra il Cineasta che ha fatto del Dark e del Gotico il suo marchio di fabbrica pur mantenendo la sua chiara identità autoriale improntata sul favolistico e il fiabesco, quello che attraverso uno sguardo assolutamente iconico e tutto suo ha saputo imprimersi nell’immaginario collettivo al punto che un aggettivo è stato coniato apposta per lui: BURTONIANO!
Cosa caspita ci azzecca “DUMBO JUMBO JUNIOR” con TIMOTHY WALTER BURTON???
In realtà tantissimo, sapete?
Quella di Dumbo è una storia che parla di diversità, di emarginazione, di solitudine: il racconto senza tempo del cucciolo di elefante deriso e ridicolizzato e isolato da chiunque (o quasi) perché ha quelle orecchie troppo grandi, troppo strane, troppo sproporzionate per la sua testa ha fatto epoca segnando intere generazioni!
Tim è il Cantore dei “freak”, il Narratore di vicende improntate su solitari teneri e dolci e sensibili ma tenuti ai margini perché ritenuti “troppo diversi” (come se la diversità fosse una cosa che si potesse calcolare!), la sua poetica è incentrata sul racconto degli strani tipi strambi emarginati proprio in virtù della loro stramberia e stranezza.
Dumbo non è poi tanto diverso da uno di quei freak burtoniani che la gente attorno prende in giro e considera “davvero tanto strano” per il semplice fatto di essere differente da qualsiasi altra cosa mai vista. E anzi, proprio come quei freak, la sua straordinaria unicità risiede nella sua stranezza, nella sua stramberia, nel suo difetto che invece è un pregio meraviglioso: quelle orecchie enormi che contornano il visino dell’elefantino, e che sono il motivo delle sue disgrazie, sono anche quello che gli permette di fare ciò che è impossibile per qualsiasi altro pachiderma.

E cioè: VOLARE!!!
Quelle orecchie sono le forbici che l’incompleto Edward ha al posto delle mani e che lo rendono capace di meraviglie straordinarie.
Quelle orecchie sono la deformità pinguinesca di Oswald Cobblepot che gli ha però permesso di giungere a comunicare con adorabili e fedelissimi pinguini da cui si è fatto amare, come a nessun altro umano è mai riuscito.
Quelle orecchie sono la lugubre follia di Lydia Deetz in «Beetlejuice», considerata stramba e inquietante, quando invece risulta essere la sola in famiglia capace di vedere i fantasmi e volergli bene.
È da tutta la vita che il Maestro Burton ci racconta di questi cosiddetti e presunti fenomeni da baraccone:
La gente ti guarda e ti giudica, e se hai qualcosa di diverso, subito diranno che hai “qualcosa che non va”. Non è così, però. Sono anzi spesso proprio quelli che agli occhi delle persone vengono considerati difetti e imperfezioni la nostra forza, quello che ci rende Noi, ciò che fa del nostro essere qualcosa di indimenticabile, eterno, di cui non ci si scorderà mai.
Ecco che allora in effetti, se la storia di Dumbo a distanza di quasi ottant’anni deve essere raccontata di nuovo, il migliore che possa farlo è proprio Burton, quello stesso Burton che da bambino era un tipo solitario e che difficilmente riusciva a relazionarsi con gli altri, che era strambo e strano e freak, che aveva solamente il Cinema a tenergli compagnia e a non farlo sentire abbandonato.
Però la domanda è: davvero la storia di Dumbo aveva bisogno di essere raccontata di nuovo? Ne sentivamo veramente la necessità? Soprattutto considerando che l’apporto costruttivo di questa pellicola in live-action rispetto al film originario del 1941 è nei fatti pari a zero?
Cosa c’è di diverso rispetto alla celeberrima pellicola disneyana che ha fatto la Storia in questa nuovissima versione burtoniana di «Dumbo»? Tante cose completamente inutili e che lasciano il tempo che trovano. Ma la storia sostanzialmente è sempre quella là.

Vi è una prima parte in cui vengono raccontate all’incirca, grosso modo, le stesse cose che già sappiamo. Il problema è che il film originario durava poco più di un’ora. In questo caso, per arrivare a due ore striminzite, viene allungato il brodo mettendoci in mezzo la vicenda di una famiglia di circensi: un padre con due bambini rimasto vedovo e senza un braccio, a seguito della Prima Guerra Mondiale. Una vicenda inventata di sana pianta tanto per metterci in mezzo degli esseri umani, siccome c’erano solamente animali nell’originale. Una storia, quella di questa famiglia, di cui veramente non ce ne potrebbe importare di meno e che ha poco da spartire, se non quasi nulla, sia con la poetica burtoniana sia con il racconto dell’elefantino.
COLIN FARRELL, di norma un gigantesco attore sublime, e che in questo caso interpreta il padre, si capisce chiaramente che qui non sa che pesci pigliare, rimanendo dal primo all’ultimo secondo del film con la stessa identica espressione in faccia che non vuol dire assolutamente nulla, disorientato da una sceneggiatura di cui lui dovrebbe in teoria essere il protagonista, anche se è evidente che a nessuno importi niente del suo personaggio e della sua vicenda.
La seconda parte esiste solo nella misura in cui serviva una seconda ora: fanno spuntare il classico villain di turno, un uomo falsetto che solo successivamente si rivela veramente cattivello, pur senza alcuna vera motivazione logica per esserlo… e il gioco è fatto! Quel cattivello è impersonato da MICHAEL KEATON, che è un interprete maestoso, oltre che uno degli attori con cui Burton ha maggiormente lavorato nell’arco della sua esistenza. E del resto questo film è pieno di alcuni dei suoi interpreti preferiti: il poliedrico DANNY DEVITO, l’affascinante EVA GREEN, quel mattacchione di ALAN ARKIN… tutti quanti delle leggende, eppure tutti quanti sprecati in un film che davvero non sentivamo il bisogno di vedere!
Ne esce fuori un prodotto che per metà ci racconta una vicenda che già conosciamo senza aggiungere nulla di nuovo e per l’altra metà ci imbastisce la più banale e stra-rivista delle storie in cui il cattivone cerca di impedire ai buoni di vincere ma poi quelli vincono ugualmente. Nulla di nuovo, nulla di originale, nulla di interessante, nemmeno nulla di bello a dire il vero. Sì, okay, l’elefantino è carino, scenografie e costumi sono piuttosto curati… ma poi non sono neanche tutta questa cosa indimenticabile. E l’elefantino sarà anche carino, ma il Dumbo del ’41 era una meraviglia talmente bella da diventare icona.
E qui mi sa che sono obbligato ad un’amara riflessione. Non tanto su questo film, quanto più su di Lui. Proprio Lui, il Regista, il Maestro. Tim ha fatto la Storia della Settima Arte e si è ritagliato uno spazio tutto suo, in cui ha potuto esprimersi al meglio, confezionando uno stile iconico. La sua visione, il suo sguardo autoriale, il suo essere dark e insieme gotico pur mantenendo un immaginario fiabesco e sognante, la sua poetica del freak strano ma unico rispetto ad un mondo uniforme e inumano, le sue storie stralunate e strampalate eppure così profondamente commoventi… lo hanno reso immortale, tra i più grandi cineasti mai esistiti.
Sì, okay… ma adesso?
Concentriamoci un secondo sugli ultimi lavori di Burton. Da dopo il 2007, lui ha realizzato:
- due reboot/sequel/remake di due classiconi Disney (uno è questo qua, l’altro è quello che ti racconta di «Alice nel Paese delle Meraviglie»);
- il confusionario e pasticciato e caoticissimo adattamento di un romanzo fantasy, che ha tutte quante le abituali caratteristiche “riciclate” burtoniane… al punto però da sembrare un film fatto da uno che imita Burton piuttosto che da Burton in persona;
- un biopic molto molto molto classico che è sì molto bello e piacevole, ma nessuno (o quasi) direbbe che l’autore è Tim;
- un remake animato che Burton fa dello stesso Burton: l’originale risale a quasi trent’anni prima!
- un film che è considerato dai più un divertissement che presenta i tipici tratti burtoniani ma nulla di più (tranne che per il sottoscritto, il quale invece ha un’opinione molto diversa su questa pellicola, ma ora non è né il luogo né il momento per parlarne)

Che altro c’è? Ah sì, la serie animata Netflix su Mercoledì della Famiglia Addams: personaggio noto e stranoto e arcinoto su cui han già scritto e fatto tantissimo!
Spiace dirlo, ma capite anche voi che guardando a questi ultimi quindici anni di Burton, sembra proprio che la vena artistica… si sia esaurita? Che siano finite le idee. Che la vecchiaia sembra proprio giungere per tutti, alla fine.
Ora non vorrei sembrare catastrofista, o poco rispettoso nei confronti di quello che è (o che è stato?) un vero Maestro che ha insegnato a tutti cosa significhi per davvero essere Autori fedeli al proprio sguardo e alla propria visione. Ma quello che forse mi turba è proprio un discorso legato alla fedeltà che si dovrebbe avere verso sé stessi: «Dumbo» è un film DISNEY… e Burton e la Disney, è destino, devono rimanere separati! La conoscete tutti la loro storia?
A 18 anni Tim vinse una borsa di studio messa in palio proprio da Topolino & Amici. È il 1976. Tre anni dopo riesce ad entrare alla Disney diventandone uno degli animatori e prendendo parte alla creazione della nota pellicola «Red e Toby – Nemiciamici». È il 1981. E furono tre anni di sofferenza per il giovane Burton. Lui odierà a morte aver fatto quel film. Lo stile e le idee della Disney non corrispondono in nessun modo alla sua idea creativa: la grossa compagnia è improntata su storie e personaggi perlopiù luminosi, con tutte quelle «graziose bestioline ammiccanti», per citare le parole dello stesso Burton; questi invece desidera da sempre raccontare attraverso le sue fiabe il lato più oscuro, macabro, gotico e soprattutto dark della Vita. Il giovane Tim e il suo strambo comportamento all’epoca, strano quanto quello dei freak che lui ama tanto raccontare, non passarono inosservati: spesso veniva trovato dentro un armadio, dormiva al tavolo di lavoro con la matita in mano, saliva in piedi sopra la sua scrivania oppure ci si nascondeva sotto. Era completamente e totalmente in crisi. Quelle bestioline non gli venivano per niente bene, lui era totalmente demotivato, e così venne messo a disegnare fondali. Per quanto sarebbe potuta durare questa situazione?
Le cose ad un certo punto stranamente andarono meglio, ma solo un poco. Tim riuscì a convincere il Reame dei Sogni a produrgli dei cortometraggi interamente suoi, nei quali già traspariva il suo genio… eppure, al tempo stesso, i Disneyani quasi se ne vergognavano. È che quei corti erano troppo diversi, strani, “freak”. E così finirono per boicottarli, anche se li avevano prodotti loro stessi. Alla prima occasione buona, Tim se ne andò. Egli diventò così il Maestro Burton, si costruì un successo straordinario e cambiò la sua epoca: e quindi?


E quindi pensare che dopo tanti anni sia tornato nell’abbraccio disneyano… è desolante. Nel corso degli anni ci sono stati avvicinamenti e allontanamenti vari, tant’è che Burton afferma: “Sono stato assunto e licenziato più volte durante la mia carriera”. Ma «Alice in Wonderland» prima e «Dumbo» poi rappresentano decisamente il massimo esempio di cosa può succedere se Tim diventa disneyano: e cioè nulla di buono o che meriti di essere ricordato! E del resto il Maestro stesso, terminate le riprese di questa produzione targata 2019, ha detto: “Con Dumbo posso dire che i miei giorni insieme a Disney sono finiti. Ho capito che ero un po’ come il protagonista, stavo lavorando per questo grande orribile circo e sentivo solo il bisogno di scappare. In un certo senso è stato quasi un film autobiografico per me”.
E alla fine, cosa rimane?
Non di questo film, perché di questo film non rimane niente.
Ma di Te, Tim, cosa rimane?
Rimangono i film che hai fatto, quelli veri. I capolavori indimenticabili che ci hanno cambiato la Vita. E i tuoi fan, quelli veri, ancora credono in Te. Ancora si emozionano di fronte a quello che hai fatto. E siamo disposti ad aspettarti, anche se questo significa sorbirci altre venti schifezzuole come questo «Dumbo» qua. Siamo pronti ad affrontare di tutto pur di poterti rivedere, su quel magico schermo. Perché quando meno te lo aspetti, ecco che ti imbatti in una (magica?) piuma. Ed ecco che allora ti vediamo, lì, nell’alto del cielo, pronto a spiccare il volo tra le nuvole e le stelle.


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