Big Eyes – Avere l’occhio giusto così da riconoscere l’Autore

DI ALBERTO GROMETTO

Tim Burton. Lo dirò ancora una volta: Tim Burton. 

Chi è che non conosce questo nome? 

Io non ho mai conosciuto in vita mia qualcuno che non conoscesse Tim Burton.

Rammento con piacere un episodio accadutomi di recente. Era la Notte degli Oscar 2024. Ero insieme ad un mio amico che risponde al nome di Lorenzo. Ci aspettava una truppa assetata di cinefili, assiepati quella notte presso lo studio/ufficio di Mercuzio and Friends per poter prendere visione della solenne cerimonia e commentarla in diretta per i nostri ammiratori e fan accaniti. 

Noi due eravamo stati incaricati di fare rifornimento di bevande, e in particolare eravamo impegnati in una missione d’approvvigionamento alcolico. Per i venti minuti che siamo stati al supermercato, solo cinque scarsi li avremmo spesi a parlare di birre. Per tutto il resto del tempo dibattemmo, entusiasti ed estasiati, su Tim e i suoi lavori. B&B: Birra & Burton! Cosa poteva esserci di meglio? È talmente naturale parlare delle sue opere come… come lo può essere solo bersi una bella birra gelata!

Che piaccia o meno, è evidente come il Maestro e il suo stile si siano accaparrati un posto molto importante nell’immaginario collettivo: è chiaro che il modo di raccontare di Burton, talmente iconico che si è sentito il bisogno di coniare un aggettivo (burtoniano), è innegabilmente unico, ispirato, fortemente identitario e… e nuovo. Fermi tutti: era nuovo negli anni ’80-’90! Nei primi duemila, al massimo. Ma… ma ora? 

(Un’opera targata Margaret Keane)

C’è chi dice che il Maestro abbia perso lo smalto, le energie, la creatività di un tempo. Succede a tutti i grandi quando invecchiano, dicono. Avranno ragione? Di sicuro è ovvio come non appena si parli di Timothy Walter, subito si faccia riferimento a film quali «Beetlejuice», «Edward Mani Di Forbice», «Ed Wood», «Il Mistero di Sleepy Hollow», «Big Fish», «La fabbrica di cioccolato» o ancora «Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street». Sapete cosa hanno in comune tutte queste pellicole? Più di quindici anni sulle spalle! 

Ma come mai degli ultimi lavori non parla nessuno? Davvero si è esaurita l’incredibile vena creativa, folle e visionaria con la quale egli ha cambiato, volenti o nolenti, il mondo

Beh, non è questo il tema del quale vogliamo parlare. Concentriamoci invece piuttosto sulla pellicola alla quale è dedicato questo articolo: «BIG EYES».

Film targato 2014, non può certo essere definito il primo titolo che viene in mente quando si pensa a Burton. Né il secondo. O il terzo. Insomma, di Tim ha poco o nulla. Del resto il Maestro è solito raccontare favole dark, cupe, grottesche, sospese tra il malinconico oscuro e il sognante fiabesco. Nel caso di «Big Eyes» non c’è niente di tutto questo. Trattasi di un film biografico nel senso più classico del termine, molto lineare, che nulla ha di sovversivo, come invece erano state molte delle opere burtoniane precedenti. 

Non è la prima volta che Tim confeziona un biopic. Lo aveva già fatto due decenni esatti prima, vent’anni tondi tondi. Era il 1994, e nel realizzare quella pellicola biografica regalò al mondo intero il suo più grandioso capolavoro senza rivali: «Ed Wood». Ma quello, pur essendo un biopic, aveva tutti gli stilemi di Burton, era un Burton puro al 100%, mi verrebbe da dire il Burton più burtoniano che ci sia mai stato: al centro della vicenda freak strani e stramboidi con un sogno folle, un mondo intero pronto a dirti quanto vali mentre invece solo tu puoi dirlo, una storia vera ma raccontata come una fiaba gotica piena di fascino e meraviglia. 

Nel caso di questo biopic qua invece a nessuno verrebbe mai in mente che è da imputare a Burton. E questo perché v’è poco o nulla dei suoi tratti caratteristici, delle sue peculiarità, delle sue storie. Detto questo, non fraintendetemi: trattasi di un film godibilissimo, e dal quale anzi esci più felice di com’eri prima di vederlo. Il che sicuramente è già un bel risultato!

La storia raccontata è quella della pittrice MARGARET KEANE, che negli anni ’50 e ’60 conquistò e affascinò il mondo attraverso la sua Arte, in particolare per mezzo di figure femminili dotate di occhi giganteschi che lei era solita ritrarre. Peccato che nessuno pensava fosse lei l’autrice. Tutti quanti erano convinti che l’artista fosse in realtà il di lei marito, WALTER KEANE, che si prese per anni e anni i meriti che sarebbero spettati alla consorte. 

(Margaret e Walter Keane)

Lei era una donna sola con una figlia a carico che, prima di diventare Keane, era stata la moglie di un uomo dal quale si era dovuta allontanare. Sul suo cammino irto di difficoltà si è imbattuta in un artista come lei (almeno, così credeva). Lui era pieno di fascino e carisma, mentre lei timida e chiusa. L’ha conquistata. Lui però voleva conquistare anche altro: fama, gloria, successo. Voleva essere celebrato e idolatrato. Ma nessuno lo notava. Notarono invece le opere della moglie. 

Lui fiutò l’enorme potenziale della cosa e se ne prese la paternità. Lei certo non fu contenta all’inizio, ma lui seppe convincerla. Quell’uomo era il classico personaggio che avrebbe convinto chiunque a fare qualsiasi cosa. E così lei per anni dipingeva nell’oscurità del suo studio, mentre lui si pigliava applausi sotto la luce dei riflettori.

Storia interessante e che doveva essere raccontata. E sì, a livello estetico-visivo e registico merita di essere apprezzata, però vi è un motivo sopra ogni altro per cui questa pellicola va vista. E cioè i due interpreti protagonisti, i quali probabilmente sono e rimangono tra gli attori più straordinari di questa e qualsiasi altra epoca! 

Si contano sulle dita di una mano quelle attrici capaci di assumere su di sé un ruolo così complicato, complesso e difficile come quello di Margaret: essere la protagonista al centro del film pur impersonando un personaggio incapace di stare al centro ma che si è fatta relegare nell’oscurità fino a quando un giorno non ne ha avuto abbastanza. Qualsiasi interprete avrebbe fornito una performance pallida e debole. Ma in questo caso abbiamo a che fare con una delle più grandi e grandiose attrici di tutta la Storia della Settima Arte: AMY ADAMS. E lei riesce a “scomparire senza sparire”: non so come diavolo faccia, bisogna essere quasi divini più che attori, ma lei ce la fa! 

E poi abbiamo lui. Un mattatore straordinario, spassosissimo dall’inizio alla fine, un individuo gretto ma che è troppo cialtrone e faccia tosta perché non ci risulti simpaticissimo e divertentissimo, ci fa ridere fino alle lacrime ad ogni secondo del film, incarna perfettamente quel tipo d’uomo dalla lingua lunga e brillante e dotato di savoir faire e ottima parlantina e straordinaria presenza scenica, anche se è in realtà tutta fuffa. E solamente un attore gigantesco e monumentale quale CHRISTOPH WALTZ, in grado ogni volta di fornirci la performance della vita, poteva incarnare un lestofante che commette azioni tanto odiose e che eppure, al tempo stesso, proprio non riusciamo a odiare per via della quantità esorbitante di risate che ci fa fare!

Ma dunque, alla fine, ritorno alla domanda: trattasi davvero di un Tim Burton? A parte che per il discorso di quegli occhioni giganti, e che effettivamente ricordano da lontano l’immaginario artistico-culturale burtoniano, possiamo davvero parlare di una pellicola burtoniana? No. Non possiamo. Ma forse è meglio così! 

Essere Autori significa davvero dover essere, sempre e comunque, a prescindere, fedeli a quello che si è creato e non poter mai uscire dai bordi della tela che ti sei tu stesso tracciato? O forse, proprio perché si invecchia e si matura e quello che un tempo ti riusciva così bene ora non ti riesce più, vale la pena addentarsi nel nuovo, guardarsi intorno, esplorare, osare, e magari fare qualcosa che era anche meglio di quanto avessi mai programmato?  

A mio modo di vedere, nella seconda parte di carriera effettivamente la forza di Tim Burton è andata a scemare. Prigioniero del suo stesso stile col quale ha fatto la Storia, forse davvero è invecchiato ed ha esaurito quella vena. Ma nel 2014 quantomeno tentò qualcosa di diverso, di nuovo. Magari il risultato non sarà un capolavoro, o nemmeno troppo brillante e memorabile. 

Ma è sempre meglio provarci che non far nulla.

E se Margaret ci ha provato e ha trovato infine la forza di dire “L’Autrice sono io!”, lo stesso ha fatto Burton quando decise di realizzare una pellicola molto diversa dai suoi canoni e che per questo merita dunque degli elogi. L’Autore è l’Autore, sempre e comunque.

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