La montagna incantata (Thomas Mann)

DI ELODIE VUILLERMIN

Stando all’introduzione di Ervino Pocar, l‘autore definì quest’opera “un mostro” per il numero spropositato di pagine. Aveva ragione? Io dico di sì. Leggerla è stata come digerire un chilo di formaggio, a confronto Moby Dick andava giù come zucchero.

UNA LETTURA ALLEGORICA

Hans Castorp, giovane ingegnere navale, viene invitato dal cugino Joachim, un soldato, a tenergli compagnia presso il sanatorio dov’è ricoverato, il Berghof di Davos in Svizzera. Hans si sente chiaramente a disagio, in quanto persona sana e borghese in mezzo ai malati. Eppure entrerà a fare parte di quel piccolo mondo quando verrà ricoverato a sua volta e scoprirà un modo di vivere del tutto diverso.

Se la vita in pianura, ad Amburgo, è piatta e monotona, in montagna è completamente diversa, fuori dal comune: è un monte incantato proprio perché rende tutto possibile, stravolge l’ordine naturale delle cose (stagioni comprese), è lontano dagli orrori del mondo esterno. Il sanatorio non è un luogo di malattia, ma è pieno di vita. Molti dei pazienti hanno nazionalità diverse e non è un caso: infatti il sanatorio è una piccola allegoria dell’Europa agli inizi del Novecento, un luogo pacifico e magico che viene sconvolto dall’arrivo della Prima guerra mondiale. La vita al Berghof, da idilliaca e pacifica che era, viene stravolta: i pazienti cominciano a manifestare insofferenza e Hans si ritrova a combattere al fronte e a fronteggiarne gli orrori, in una metafora della fine della Belle Époque.

Hans può inoltre considerarsi la personificazione della giovane Repubblica di Weimar e delle sue contraddizioni. Si ritrova conteso tra l’umanista Settembrini e il più radicale Naphta, trascinato in una serie di dibattiti sempre più feroci, senza riuscire a prendere una decisione. L’uno cerca di farlo tornare alla vita reale, l’altro lo spinge a restare nella montagna incantata facendo leva sulla paura della morte.

UN MONDO HANS-CENTRICO

Hans si confronta con diversi personaggi, ognuno con il suo punto di vista. C’è Lodovico Settembrini, umanista italiano con una grande gioia di vivere; incarnazione vivente dell’Illuminismo; difensore dei diritti umani, della democrazia, del liberalismo e della rivoluzione borghese. C’è poi il suo esatto opposto, Leo Naphta, gesuita dallo sconfinato pessimismo e con un pensiero più nichilista, che esalta la violenza, il terrore e la morte. Poi Claudia Chauchat, incarnazione dell’erotismo e della lussuria, di cui Hans si innamora. E ancora l’olandese Pieter Peeperkorn, personaggio dalla grande vitalità ma al tempo stesso molto ingenuo, che rappresenta lo spirito dionisiaco. E molti altri.

Da ciascuno di loro Hans assimila qualcosa e si costruisce un pensiero più maturo, acquisisce una maggiore consapevolezza della realtà, riesce ad elevarsi ad eroe (e la montagna è utile per lo scopo, in senso metaforico quanto letterale). Sembra un uomo mediocre, senza qualità, invece è il centro del romanzo, attorno al quale ruotano le vicende. Tutti i personaggi gli orbitano intorno come satelliti e interagiscono con lui. Non solo, riunisce intorno a sé tutti i possibili ambiti di discussione, dalla filosofia alla medicina, dall’astronomia all’occultismo, dalla musica alla religione. Ogni personaggio ha motivo d’esistere solo grazie ad Hans, come se fosse un’emanazione dello stesso protagonista.

L’AMBIGUITÀ DEL NARRATORE

C’è un narratore esterno alla vicenda, che parla in terza persona e ci illustra i personaggi nel profondo, analizzando anche il loro passato. Non solo, fa considerazioni personali su ciò che avviene nella storia e si prende la briga di giudicare i comportamenti di ogni personaggio, soprattutto Hans. È chiaramente una voce narrante di stampo ottocentesco, che si pone al di sopra dei personaggi.

È proprio sul rapporto tra il protagonista e il narratore che vorrei aprire una parentesi: sin dalle prime righe la voce narrante sembra voler prendere le distanze da Hans, come se fosse un personaggio qualunque in cui è impossibile immedesimarsi, ma al tempo stesso ci ricorda che Hans è speciale, che la storia non avrebbe la stessa importanza senza di lui. La sua è la voce di un Dio, ma un Dio affezionato ai suoi uomini e coinvolto nelle loro vicende personali.

TEMI PRINCIPALI

Il romanzo ci insegna che la vita è fatta di cambiamenti. Accettarli non è facile, ma bisogna prenderne atto. Non si può restare nella propria comfort zone per sempre. La pace non è eterna, certe epoche storiche finiscono, inizia la guerra. Ma in sette anni Hans è cambiato, non teme più i cambiamenti e sa che deve agire per vivere, anche se si trattasse di stare al fronte, lontano dall’atmosfera magica della montagna.

Altrettanto importante è il concetto di tempo, che scorre più o meno veloce a seconda della percezione di ognuno. A un certo punto Hans perde la coscienza del tempo e del suo scorrere, tanto che si stupisce di aver passato sette anni al sanatorio, come se per tutto quel tempo avesse vissuto al di fuori del tempo stesso.

L’autore si concentra inoltre sulla malattia come condizione mentale e spirituale piuttosto che corporea. Grazie al suo ricovero, Hans può approfondire il suo rapporto con la vita e la morte, può sentirsi pronto ad affrontare la propria esistenza con una nuova maturità. Le malattie non sono un ostacolo alla vita, ne sono parte integrante.

UN LIBRO DIFFICILE

Il ritmo della narrazione è lento. Si concentra molto sui piccoli dettagli: una scelta voluta, forse per invitare il lettore a riflettere sul valore del tempo. Va avanti per dibattiti filosofici, digressioni e momenti di vita quotidiana. Non ci sono avvenimenti davvero interessanti. Se siete avvezzi all’azione, rimarrete delusi.

Certo è che il libro vuole trasmetterci messaggi importanti, tuttavia se letto in un’epoca contemporanea rischia di annoiare il lettore. Si capisce benissimo che è quel genere di opera che andava bene anni e anni fa, che è invecchiata a tal punto da non potersi più adeguare alla modernità. Oggi siamo abituati ad altre lunghezze, ad altri stili narrativi.

Ciò non significa che non consigli la lettura di questo libro perché è lungo. Anzi, ci sono autori che piacciono proprio perché scrivono romanzi lunghi e di ottima qualità (basti pensare a Camilla Läckberg). Suggerisco semplicemente di avere la giusta preparazione prima di addentrarsi in una lettura del genere, altrimenti farete la figura degli scalatori che partono per il Monte Bianco con maglietta e pantaloncini.

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