DI MIRIAM PAOLETTI
“Come farò ad uscire da questo labirinto?”.
Mi permetto di sostare in questo piccolo spazio.
La luce opaca si rifrange nei vetri e colora il profilo della finestra sulla parete, a moltiplicare la realtà delle impalcature possibili e permettermi di sentirmi completa. Continuano a passare ininterrottamente, perciò non posso che sentirne il rumore: treni.
Pare ideato da una mente creatrice, questo spazio, questa finestra, queste geometrie; creano come un luogo nel quale il cuore possa battere indisturbato senza temere che lo sterno si spezzi. Potrò concedermi il diritto di convincermi che qualcuno lo abbia costruito per me?
E vedo i treni che proseguono oltre come linee orizzontali lungo i bordi inconfutabili, e capisco che non potrò scoprire in quali luoghi proseguono perché la visuale che mi è stata concessa è finita, troppo umana, e non può dilungarsi: non posso spingermi al di là di questa finestra per librarmi oltre il profilo delle colline toccando il cielo.
Come può, da un’immagine così flebile, scoperchiarsi una malinconia talmente reale?
Si innalza e dilaga, come lo scrosciare del mare nero in quelle notti dove neppure Dio avrebbe l’ardire d’accendere una stella, e continua, cadenzata come un passo, come queste campane disperse, a legarsi ai pensieri, a toccare le immagini che i miei occhi vedono, sempre più indistinte, finché la coltre prima intangibile si cristallizza, dura e marmorea, quasi fosse l’eterna realtà succhiata dal midollo delle cose, una linfa melmosa che non si vorrebbe fosse lei a custodirlo, il probabile segreto delle cose.
La malinconia sente l’impermanenza delle cose. Fin nelle viscere o nelle profondità contratte delle meningi, la malinconia apre il petto
e lascia trapassare, sprofondare,

cade,
finché il cuore è completamente invaso da questa immensa quantità di vita che scende scende, scende, perdendosi, sfilandosi, sgretolandosi. La mente il cuore le mani cercano di afferrare e ricomporre, vogliono che il tempo si fermi,
per una volta soltanto, che il tempo si fermi e non prosegua,
si dilati, si gonfi ad occupare infinite porzioni di quanto spazio gli occhi sono capaci di succhiare, ma scivola al di là, sempre più in là di quanto la coscienza possa aver catturato.
A volte vorrei che quel tempo restasse con me, reale, al di fuori della mente, che mi proteggesse come un luogo sacro, a volte vorrei essere su quel treno. Ma di nuovo è perso, inesorabilmente perso; e scorre andandosene dalla mente: cosa può una povera mente sola contro il potere del tempo? Contro il volere del Dio, di questo accadere?
La mente non può fermare gli attimi, e renderli reali ancora
per una sola volta
ancora,
ancora.
Potrà solamente cercare di trattenerne sempre più, ed il tempo individuato diverrà la lotta di una mente che tenta la battaglia fallimentare di costellare la propria memoria di tante manciate, che contengono vita, quante ogni volta la mano riesca a trattenere, prima ch’essa scivoli fra le fessure delle dita. E della vita rimarrà sempre solamente il ricordo.
Non è dato trattenere le cose:
questi treni hanno una direzione, e non la tradiscono, mai,
questi treni non possono rallentare, non si fermano, mai.
Non è giustificabile richiedere cura.
Ma perché non mi è possibile almeno sperare che un treno che arriva possa essere la continuazione di quello che è appena passato, per cui io possa tentare e riuscire quel maledetto salto sacro? Avvicinarmi quel tanto per.
In fondo, a volte, potrà accadere, che qualcosa rimanga uguale a ieri.
Dio concedimi una speranza depurata dalla paura dell’inesorabile.
Perlomeno, si potrà guardarli passare, con queste luci di finestrini abitati da volti anonimi, o ascoltarne il rumore chiedendosi ogni volta – questa è una voce diversa?
Posso permettermi di restare così, questa sera, e guardarli passare andare oltre andare via, con le loro luci, con il loro rumore; non è crudele, questa malinconia – ho imparato che a volte bisogna permetterle di affondare il cuore – e questa sera l’accolgo, perché posso permettermi di guardare i treni, e le loro luci e i loro rumori.
Questa sera, mi accorgo di quanto mi appartengano questi ricordi; m’accorgo che, fra tutto quel che mi potranno portare via, questi ricordi mi costituiscono e non potranno mai togliermeli.
Questa sera, finalmente catturo l’immensità della forza che mi avvolge il cuore: pulsa in me l’infinita libertà di quanto ogni volta son capace di vedere, di quanto ogni volta sono capace di appartenermi, ogni volta essere questa libertà.
Credo che sia la felicità…

“Osservava un giorno dopo l’altro la sua erosione inarrestabile. Non ne poteva più della sua anima”. “Mai più mi innamorerò. È come avere due anime al contempo”. “lo vide alzarsi, triste e spoglio, e si rese conto che i ricordi gli pesavano più degli anni, come a lui”. “Gli parlò molto a lungo, mostrandogli in ogni parola quanto sembrava essere il suo cuore dentro”. “L’uno e l’altro non sembravano essere due ricordi di una stessa vita”. “Declamava dalle crepe della voce”. “Si sentirà forestiero ovunque, ed è peggio che essere morto”. “Ripassasse nella memoria perfino gli istanti più infimi della sua esistenza”. “In uno di questi scandagli del passato, smarrito nella pioggia, triste a forza di aspettare senza sapere cosa, né chi, né perché, il generale toccò il fondo: pianse da addormentato”. “Io, che non ho la gioia di credere nella vita dell’altro mondo”. “Talvolta sembrava stesse pregando, mentre in realtà mormorava strofe complete delle sue poesie preferite”. “Con gli occhi avidi e attenti alla vita che passava per lui attraverso il finestrino per una volta sola e fino a mai più”. “Invece io mi sono smarrito in un sogno cercando qualcosa che non esiste”. “E la sua unica illusione di allora era di essere felice con lei”. “Però (non ricordava) mai lei, perché l’aveva sepolta in fondo ad un oblio stagnante come un mezzo brutale per poter essere ancora vivo senza di lei”.


«Il generale nel suo labirinto» è il libro in cui Marquez guarda i treni dalla finestra, ora che è vicina l’ora della conclusione, la fatidica resa dei conti o l’inevitabile dialogo con Dio, e la frase ultima è la risposta, quella che si conosceva da tutta una vita perché la si è dovuta applicare per una vita intera.
Come uscire da questo labirinto?
Imparare il proprio mestiere di vivere consiste nel comprendere l’ineluttabilità di questo labirinto, la coscienza, e l’impossibilità della evasione.
Capire che il labirinto coincide con la propria vita e la vita col labirinto poiché è solamente nella vita che accade la coincidenza di inferno e paradiso.
Inferno: ogni momento in cui la mente si perde entro il flusso vagante, entro il labirinto, e si rende inconsapevole; ogni istante in cui la mente si rende nulla, nell’automonitoraggio costante nella quale l’attenzione è sul fatto di star pensando, e crea un pensiero di pensiero, e questo vuoto crea paura.
Ogni istante in cui la mente si rende nulla, in ognuno di questi momenti, si apre la possibilità del paradiso: la mente che vede il labirinto, la mente che si vede quale essa è; la totale presenza della mente radicata nel corpo per cui essa può perseguire i rimandi; la mente che, perché non teme più questo pensiero di pensiero, allora è la totalità delle proprie possibilità.
Ed è in quell’istante che crea il suo labirinto, il migliore dei mondi possibili. Ed è in quell’istante che possiede l’unica cosa che la mente possa trattenere a sé: sé stessa, il labirinto, i rimandi, i ricordi.
L’unico senso che è possibile attribuire ai ricordi è la permanenza: dal momento che sono l’unico frammento permanente della vita che è invece impermanenza e tempo, il loro peso, che taglia la testa, è l’unica manciata di vita che possiamo trattenere.
E il generale ripercorreva ogni infimo istante della sua esistenza.
E il generale riformulava la domanda che aveva pensato per tutta la vita:
“Come farò ad uscire da questo labirinto?”.


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