DI GIOSUE’ TEDESCHI
Una sera d’estate stavo tornando a casa da un impegno in centro. Faceva ancora caldo ma non così tanto da sudare. Il fresco della sera stava scendendo sulla città e avevo deciso di goderne tornando a piedi. Quasi non facevo caso al piccolo portariviste rosso al lato del marciapiede. E quasi non avrei preso in mano quella vecchia edizione, impolverata ed ingiallita, di Il Supernulla. Quasi avevo deciso che non mi interessava nulla di un libro sulla pubblicità, mica sono pubblicitario io. Quasi non ho neanche Instagram! Ma il cartello che ci era attaccato sotto cambiò tutto. Diceva “Scambio libri“. Due magiche parole che mi convinsero a prenderlo e portarlo a casa con me.
Prima che qualcuno si scaldi: sì, il giorno dopo sono tornato a quello stesso portariviste rosso e vi ho lasciato un altro libro che avevo in casa. Il mio senso civico non è ancora così debole da non rispettare la più basica delle regole dello scambio di libri.
Torniamo a noi. Un vecchio libro del 1974 sulla pubblicità, cosa può dire al lettore di oggi? Non sarà cambiata la pubblicità in questi anni? Certo che è cambiata la pubblicità. Quello che non è cambiato sono i meccanismi psicologici su cui fa leva. Per questo penso che a un lettore interessato o a uno studente di comunicazione di oggi possa ancora essere utile questo libro. Certo è che quello che prima poteva essere un trattato all’avanguardia sulle tecniche pubblicitarie, in rapporto alla pubblicità in onda oggi, è un libricino introduttivo che necessita di ulteriore approfondimento per arrivare a conoscere la materia.
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Perché si intitola “Il Supernulla”? È presto detto: perché la tesi basilare di questo libro è che la pubblicità parli, appunto, di nulla. È un enorme vuoto che tutto raccoglie e dai cui confini nulla riesce a sfuggire. I prodotti che usiamo e i vestiti che compriamo sono, in un modo cosciente o meno, il modo in cui vogliamo porci nel mondo. Un modo di esprimere noi stessi. “La ricerca dell’identità individuale nel contesto sociale viene così distorta e sfruttata fino al suo annullamento“, ecco il nulla della pubblicità. Mentre ti promette di darti un modo unico e inimitabile di esprimerti nel mondo, di affermarti socialmente, sta in realtà annullando tutto ciò che ti rendeva unico. Dopotutto è pubblicità *di massa*, come potrebbe parlare proprio a te?
“La pubblicità ispira, impone e ratifica, anche a livelli meno elevati del corpo sociale, una visione del mondo assolutamente astratta dalla realtà“, e questo sarebbe, secondo il libro, il secondo grande problema della pubblicità. Tutto è perfetto, colorato, in salute, i bianchi sono più bianchi, il pulito più pulito, i materassi più morbidi, il cibo più buono, le mete di viaggio più accoglienti. È davvero così ovvio che sentir parlare di qualcosa che non ha nessun collegamento con il nostro quotidiano ci invoglia ad averlo? “Quand’è che prendiamo la parola e quand’è che la parola prende noi?” si chiede nel libro. Quand’è, aggiungerei, che si è detto che la psicologia umana avesse tutta questa voglia di cambiare? Di spostarsi da quello che è conosciuto e ordinario, per quanto scomodo possa essere, per spostarsi verso qualcosa di immanente, splendente, inarrivabile per definizione? In altri termini, perché se la visione del mondo che propone la pubblicità non è nulla di simile a ciò che conosciamo, e non siamo naturalmente portati a cambiare, siamo comunque attirati da slogan dubbi come “pulisce in profondità i tuoi tessuti“? L’alternativa sarebbe pulire un tessuto in superficie? Gli altri detersivi dividono lo spessore dei miei abiti a metà e puliscono solo quella sopra? E perché mi serve che sia pulito anche “dentro”? Come avrebbe fatto a sporcarsi “dentro”? Ha commesso un qualche peccato?
Aurel David supponeva possibile per l’umanità uno stadio di perfetta comunicazione. Diceva che: “L’uomo si potrebbe meccanizzare completamente con l’aiuto del linguaggio e della tecnica attuale, e senza adottare novità aberranti. Sarebbe una macchina secondo la moda attuale ma sarebbe intelligibile e l’uomo non esisterebbe più“. Che frase imponente. Cos’ha detto? Che “l’uomo si potrebbe meccanizzare“, penso intendesse farlo comportare come una macchina, poiché non stiamo parlando di effettuare modifiche biologiche. Si potrebbero far comportare gli umani come macchine con la “tecnica attuale“. Questo mi pare chiaro nel contesto, stiamo parlando della pubblicità e dei modi in cui ci influenza. “Sarebbe una macchina secondo la moda attuale” è una parte che mi confonde non poco. Si riferisce al significato comune del termine macchina? O intende dire una macchina che segue le mode? Di nuovo, per il contesto, penderei verso la seconda interpretazione. L’ultima parte “ma sarebbe intellegibile” è ancora più strana. Forse intende dire che sarebbe in grado di spiegarci perché e come segue le mode? A differenza di (quali?) altre macchine che seguono le mode ma non possono parlare? Seguita da “e l’uomo non esisterebbe più”, come se non fosse proprio dell’uomo seguire le mode?
Avremmo quindi una massa di esseri umani programmati per seguire le mode che ci spigano perché le seguono. A che servirebbe una cosa del genere? In che modo questo sarebbe uno stadio di “perfetta comunicazione”?
Penso sia più che ovvio a questo punto che non sono in alcun modo un esperto di pubblicità; però ritengo sia comunque utile ragionare su questo tipo di questioni. Non tanto per raggiungere un punto che, se mai ci arrivassi, sarebbe probabilmente sbagliato, quanto perché essere critici nei confronti dei contenuti che si consumano – seppure non dei buoni critici – è preferibile rispetto all’accettare incondizionatamente qualunque cosa passi in tv.
(parafrasato dal libro)
Certamente è vero che un messaggio pubblicitario deve rispondere alle esigenze che si suppongono preesistere nella opinione pubblica, nell’inconscio collettivo, ed è certamente vero che la strumentalizzazione del linguaggio avviene sempre nei confronti di qualcuno disposto a subirla per inconsapevole e passivo adeguamento. In questo senso la propaganda commerciale mostra tutta la sua essenza di strumento di alienazione. Strumento promotore, cioè, di quei falsi bisogni che Marx distingueva dai bisogni reali storicamente definiti. Il problema dei bisogni e dei consumi era, per Marx, strettamente legato a quello dell’autoestraniamento; al fatto che l’uomo crei con gli oggetti che produce un potere che lo sovrasta e che non riesce a controllare. La produzione è generata dal consumo facendo sorgere come bisogno del consumatore i prodotti che egli ha originariamente creato come oggetti.
Nulla di nuovo sotto il sole, però sono osservazioni che penso abbia senso riportare alla luce di tanto in tanto. Specie quando la pubblicità raggiunge un livello tale per cui anche l’uomo, la personalità, diventa prodotto. Così si arriva al giro logico che più mi lascia sbalordito: il movente della pubblicità è di inquadrare nel gregge il singolo suggerendogli l’idea di esserne fuori. Proporre a ognuno una differenziazione formale che lo rende nella sostanza uguale agli altri. Che questo paradosso abbia preso vita e sia a piede libero nel mondo di oggi mi lascia a di poco senza parole. È davvero così?
Così nella pubblicità esistono questi due argomenti:
1. Fai questo perché lo fanno tutti.
2. Fai questo perché sarai l’unico a distinguerti.
Naturalmente il secondo argomento è meno sostenibile del primo perché il solo fatto di pubblicizzare un prodotto significa massificarlo. Per cui l’argomentazione effettiva dovrebbe suonare in realtà così: “Fate tutti così e vi distinguerete tutti“. In ogni caso esistono numerose gradazioni di questo procedimento.
Come fanno a coesistere due realtà puramente opposte in uno stesso oggetto? Secondo la lezione orientale è perché ogni eccesso si trasforma nel suo opposto. Ci sono altre motivazioni?
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Se però possiamo dire che viene usata male di certo non possiamo dire, e non dovremmo nemmeno, che la pubblicità non sia uno strumento. Uno strumento che ci parla di noi, nel bene e nel male. La pubblicità viene presentata, in questo libro, anche come archeologa di termini antichi e pioniera di nuovi. A quante fusioni tra parole che vanno a diventare nomi di prodotti riesci a pensare?
Le regole base sono queste: usa una parola o un suono dal francese per suggerire l’idea di buon gusto, raffinatezza. Dall’inglese per efficienza tecnica, potenza economica, mania di perfezione, stile. Americano come capitalismo, diffusione, espressione personale. Tedesco come solidità, perfezione tecnica. Spagnolo come maliziosamente intimo, caldo. O ancora si può usare una parola comune (Baci) per designare un prodotto (Baci Perugina) in base ad associazioni di significato.
Oltre alle parole cambia la sintassi. Crea stilemi e sintagmi particolari, non rispetta più la consecutio temporum nella forma ipotattica della frase. Il linguaggio diviene paratattico con frasi brevissime. Che relazione c’è fra sentir parlare in questo modo in ogni minuto passato davanti alla tv, ogni manifesto per strada, e il nostro pensiero? La letteratura com’è influenzata da tutto ciò? Letteratura e pubblicità sono in osmosi continua. A volte sono le pubblicità a servirsi di poesie e opere letterarie per comunicare una certa sensazione riguardo al loro prodotto, altre volte sono i poeti e i letterati che usano forme proprie del linguaggio pubblicitario per certe operazioni d’avanguardia.
Possiamo asserire che alla base dello sfruttamento dei codici retorici si cela invariabilmente un fattore ideologico. L’affidarsi ad una sola tradizione culturale ufficiale. Dopotutto è risaputo che se la comunicazione fallisce è colpa di chi comunica e non di chi riceve il messaggio. Fare riferimento a una cultura comune e condivisa è naturale quando ci si vuole far capire dalle masse. Questa ritengo sia una delle sfide della pubblicità odierna: la sparizione della *koinè*. La cultura condivisa non è più così condivisa. Se prima tutti sapevano chi era Dante, oggi non è così scontato. Tu dirai: chi mai può dimenticarsi di Dante, quello dei Promessi sposi? Eppure è così. Quello che un tempo era cultura condivisa oggi non lo è più.
Tutto può essere ricontestualizzato in un dialogo sull’evoluzione della lingua come strumento di tutti e di nessuno, sciolto da vincoli a tavolino e da regole arbitrarie ma proprio della razza umana. La nostra comunicazione è influenzata da quella di chi ci sta intorno ma allo stesso tempo è naturale andare a cercare modi migliori e più personali per esprimere al meglio il nostro significato. Un esempio facile sono i nomignoli. Alberto, Beppe, Bebo, Berto, Albi, Albe, Avvocato, sono solo alcuni di un solo nome. Diverse persone con diversi amici che si chiamano Alberto useranno nomi diversi, ma il significato è lo stesso: ognuno vuole esprimere sé stesso e il rapporto con *il suo* Alberto.
“Si ha alienazione linguistica quando il messaggio che l’individuo comunica non gli appartiene.” Posso essere d’accordo. Allora forse è solo questo l’invito che posso fare in chiusura: continua a parlare al *tuo* Alberto, a cercare un linguaggio che ti sia consono. Se non conosci un Alberto – se non sai di cosa parli, se il messaggio che comunichi non ti appartiene – non salutarlo.
Qualora fossi un amante della Letteratura e dei Libri, dovresti proprio leggerti questo articolo!!!
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