DI ALBERTO GROMETTO
“Voglio fatti, NON parole!”
“Sono solo parole.”
“Conta quello che fai, non quello che dici.”
La volete sapere una cosa che mi manda davvero in bestia? Tutte queste frasi fatte che vanno a sminuire le Parole! Mi ha sempre infastidito questo genere di discorsi che tollero malamente. Perché? Beh, il perché è semplice.
Se c’è una cosa in cui io sono bravo, o comunque sento di essere bravo, è proprio usare le parole. Che sia a voce o per iscritto oppure anche declamate, io con le parole ho a che fare e voglio avere a che fare in continuazione. Faccio anzi una confessione: credo di non essere bravo a fare nient’altro, ma proprio nient’altro, in questa vita e a questo mondo. Non so fare altro, in realtà. Ed è per questo, credo, che sopporto faticosamente i luoghi comuni che vanno a sminuire il potere della Parola.
Perché se davvero la parola non dovesse contar niente, io allora cosa conto?
Le Parole sono un’invenzione straordinaria! Straordinaria nel senso di “stramba”. Io mi chiedo: ma a chi mai è venuta in mente l’idea della prima parola? Non si poteva solo grugnire e basta? Perché qualcuno deve aver sentito il bisogno di chiamare quel coso davanti alla tua caverna “sasso”? Bastava indicarlo e fare “Argh-argh!”, no? Anche se però, metti che su quel sasso, un giorno, ti fosse capitato di inciamparti. E che qualche tempo dopo lo avessi voluto raccontare ai tuoi amici cavernicoli… che fare? Come dirlo?
Ecco perché nascono le Parole! Per comunicare. Però qualcosa deve essere andato storto. Altrimenti oggi non si parlerebbe di cose come l’“incomunicabilità”, no? Ma ora che ci penso, la parola stessa, incomunicabilità!, chi mai l’avrà inventata? E come ha fatto anche solo a pensarla, questa cosa dell’incomunicabilità? Se si rimaneva a dover dare nomi a sassi e pietre era un conto, ma queste parole hanno preso una piega decisamente più larga! Basti pensare a tutte le emozioni, i sentimenti, gli stati d’animo. Per tutta quella roba lì, abbiamo sentito la necessità di inventarci dei nomi da zero.
Che casino! Ora ci ritroviamo con tantissime parole che, per di più, vengono pure sminuite, non significherebbero niente, e che sono inutili! Ma lo sono davvero, inutili?
Esiste un incantevole film meraviglioso risalente al 1979 diretto da un eccentrico regista veramente straordinario che risponde al nome di HAL ASHBY. La pellicola in questione è intitolata «OLTRE IL GIARDINO», ed è tratta dal romanzo «PRESENZE» di JERZY N. KOSINSKI. Ed è un film che ha proprio a che fare con il linguaggio, la comunicazione, le parole e la capacità (o meglio: incapacità) umana di interpretarle.
Il titolo originale è «BEING THERE». Che tradotto grossolanamente significherebbe «ESSERE LÀ». Essere là… dove, esattamente? È questo il bello: sia il protagonista sia i suoi molteplici interlocutori/uditori sono convinti di “essere insieme nello stesso posto”, cioè di parlare della stessa cosa. Ma in realtà non è mai così. Il personaggio, semplicemente fenomenale, al centro di tutto è l’innocuo e sereno Chance, che di mestiere fa il giardiniere, anche se tutti si convincono che “Giardiniere” sia il suo cognome. Stiamo parlando di quella che è considerata a tutti gli effetti come l’ultima splendida interpretazione (diciamo quella testamentaria) di un colosso della recitazione quale fu l’indimenticato PETER SELLERS, che in questo caso sfoggiò non solamente il suo celeberrimo talento comico ma anche straordinarie doti drammatiche.
Chance Giardiniere, dicevamo! Lui ha una caratteristica molto particolare: per tutto il corso del film non fa altro che parlare di giardinaggio, piante, potatura e argomenti limitrofi. Non tocca nessun’altra materia, e sembra non conoscere nient’altro. Chi gli sta attorno e lo ascolta però non prende neanche in considerazione l’idea che quest’uomo bislacco parli letteralmente tutto il tempo solo ed esclusivamente di giardinaggio, e credono in realtà che il suo sia un linguaggio simbolico. Che lui voglia sempre dire qualcos’altro. Come se parlasse per metafore. Come se lui fosse nei fatti un misterioso individuo profondamente navigato e brillante, capace di affrontare temi di una portata a dir poco colossale.
Apparirà talmente saggio che persino le alte sfere del potere, financo lo stesso Presidente degli Stati Uniti D’America, si interesseranno a lui, finendo per pendere dalle sue, in realtà ignare e inconsapevoli, labbra. E invece ogni discorso affrontato da Chance nell’arco della pellicola riguarda esclusivamente il giardinaggio, se non quando parla del fatto che guardi tanta televisione tuttalpiù, ecco! Eppure ogni singola volta alle sue parole viene attribuito un significato altro, allegorico e molto più profondo di quello che è in realtà: tutti quanti sono convinti che lui stia dibattendo dei massimi sistemi, quando in realtà sta semplicemente parlando di piante!
È il Mondo che decide per Te, e meglio di Te, cosa tu stia dicendo.
Wow! Ma allora, dopotutto, di fronte a questa verità, posso ancora dire io che le Parole contino davvero qualcosa? Se tanto sono altri a decidere per Te e meglio di Te quello che stai dicendo, a che servono? E a questo punto anche i film che guardiamo, i libri che leggiamo, le storie che raccontiamo… qual è il loro scopo? Perché lo facciamo? Perché esiste lo Storytelling? A cosa serve raccontarci cose che manco esistono? Non serve niente a nessuno “inventarsi” personaggi e fatti, mica gli scrittori cambiano davvero l’esistenza a qualcuno quando decidono che accade al loro protagonista!
Credo di aver capito come mai quei luoghi comuni sulla Parola e su come non valga niente mi diano così fastidio. Perché sono veri. Le parole non sono niente. Se possono essere travisate al punto da essere stravolte in questo modo, se sei tu che le ascolti a scegliere cosa significhino e non tu che le pronunci, se tanto si può passare il proprio tempo a parlare della stessa cosa senza farsi capire… ditemelo voi a che servono!
Il fatto però è questo. Nell’arco di tutta la pellicola vi è in effetti un solo, unico, minuscolo momento nel quale, per una volta, Chance e il suo interlocutore “sono nello stesso posto”. Un paio di minuti solamente su oltre due ore di film in cui il totalmente ignaro e inconsapevole Chance sa ed è perfettamente consapevole. Ed è il momento in cui un personaggio muore. La vecchiaia arriva per tutti. Un attimo prima di spegnersi, Chance chiede al morente se morirà. La risposta è affermativa, e dopo poco muore. Allora il medico, tale Robert Allenby, lì presente gli conferma che se n’è andato. E Chance, solitamente sempre sorridente e sereno, qui con gli occhi gonfi di lacrime e la voce rotta dal pianto dice:
«Sì, lo so, Robert. Ho già visto questa cosa che capita alle persone vecchie».
È incredibile: che colpo di genio narrativo, da maestro! Per tutto il tempo Chance e chiunque parli con lui non si capiscono, non si capiscono al punto che ignorano di non capirsi. Parlano, parlano in continuo, e in realtà parlano di cose diverse. Ma di fronte a certi fatti, l’incomprensione e l’incomunicabilità crollano. Di fronte a certe cose, non ci si può non intendere. E così pure Chance, analfabeta e illetterato che non sa leggere o scrivere e a momenti nemmeno vivere (sembra un miracolo che sappia come si faccia a respirare!), dinanzi alla Morte però capisce perfettamente cosa ha di fronte e cosa stia succedendo.
Lo scrittore americano DAVID FOSTER WALLACE aprì il suo celeberrimo discorso passato alla storia come «QUESTA È L’ACQUA» raccontando di due giovani pesci che, nel mentre che nuotavano, si imbattono in uno più anziano. «Com’è l’acqua?» chiede quello. I due giovanotti proseguono sulla loro strada fino a quando uno non domanda all’altro: «Che cavolo è l’acqua?».
Come? Che? Non sanno cosa sia l’acqua pur vivendoci dentro? Sì, è proprio così! Il fatto è che quell’acqua è metaforicamente (sì, Wallace rispetto a Chance era consapevole di star parlando per metafore) la vita e noi tutti dobbiamo imparare a smettere di essere quei pesci che non sanno di starci dentro. L’acqua è cosi presente, così intrinseca, che io che la vivo non la registro nemmeno più come mezzo attraverso il quale mi sto muovendo. E il pesce anziano? Beh, quello incarna il vero narratore. Sì, il vero Narratore è colui che non si scorda di quel piccolo particolare che si chiama “Vita”, ma anzi ce la racconta.
È buffo, non so se ci avete fatto caso, ma il nome “Chance” significa “Possibilità” oppure “Occasione”. Chance Giardiniere ha la chance di poter fare tutto quello che vuole. E non perché i potenti credono in lui. No, il vero potere non è il potere. Chance ha la chance di poter fare quello che vuole nella vita perché non ha sovrastrutture mentali che lo limitano, pregiudizi che lo frenano, preconcetti che lo imbrigliano. Lui non capisce e non sa, e quindi è libero. Nemmeno lui sa cosa sia l’acqua. E questo gli permette di camminarci sopra, letteralmente (vedetevi il film per capire di cosa sto parlando)!
Ma quindi? Quindi io credo che Noi Umani dovremmo essere entrambe le cose: essere il pesce che sa di vivere nell’acqua ed essere Chance il Giardiniere che invece sull’acqua ci cammina. Non dimenticare cosa sia la Vita e al tempo stesso vivere come se la non si conoscesse, la Vita. Si può davvero avere entrambe le cose? Questo non lo so dire. Tutto quello che so dire è che io volevo raccontare quanto per me le Parole fossero sacre, e come mi senta male a pensare che siano così “maltrattate e sottovalutate”. E per farlo, io vi ho parlato di un film e di un racconto. Il film è su un personaggio mai esistito. E il racconto parla di alcuni pesci di cui, per quanto ne so, ancora non conosciamo la lingua. È stata la Narrazione a venire in mio soccorso.
Una Storia ben raccontata non cambia il mondo. Un film, seppur bellissimo, non ha mai salvato la vita a nessuno. Puoi anche essere il miglior scrittore sulla faccia della Terra o il miglior oratore mai esistito, ma in privato essere uno stronzo raccapricciante. Eppure di fronte all’inspiegabile della vita, l’Umano sceglie ancora di raccontare Storie. Sceglie ancora di crederci. E dunque sì, per me uno spettacolo teatrale oppure un racconto o una pellicola possono davvero cambiarti la Vita.
E sì, ci sono autori e narratori che nel privato sono persone grigie o mediocri oppure pessime. Ma ti sanno raccontare delle meraviglie e in quelle meraviglie, in qualche modo, ci sono loro. Il loro sé. Quel sé che neppure chi li frequenta tutti i giorni tutto il giorno riesce a vedere in loro. E così un lettore può conoscere veramente meglio di chiunque altro l’autore di cui ha letto quel libro. E un fan appassionato può realmente dire di sapere chi sia stato quell’attore che ha recitato nei suoi film preferiti.
Dunque: a cosa serve raccontare? Lo sapete? Beh, raccontare significa rendere indistruttibile ciò che è vulnerabile, quello a cui normalmente non si conferirebbe alcun particolare valore. Almeno fino a quando qualcuno non decide di costruirci una narrazione su quella roba lì, quella cosa fragile che potrebbe essere dimenticata per sempre, se non ne venisse raccontata la storia. E serve soprattutto a dare un senso e un significato a quelle cose che nella Vita forse un significato e un senso non ce l’hanno nemmeno. Perché vi sono cose di fronte alle quali qualsiasi essere umano, per il solo fatto di essere umano, sia un giardiniere oppure il Presidente, rimane travolto. E allora che si può fare? Usare le Parole. Raccontare una Storia. E cambiare così, almeno nella narrazione, la propria Vita. Perché, per citare il film stesso:
«La Vita È Uno Stato Mentale».
Se sei innamorato del Potere della Narrazione, parti alla scoperta del perché raccontiamo Storie!!!