La Zona d’Interesse – Il male assoluto dall’altra parte del giardino

DI GIACOMO CAMISASCA

I primi cinque minuti a schermo nero, con quel suono incessante, sono necessari per entrare a capofitto nella nuova visione di Jonathan Glazer.

Alcuni si alzeranno dalla poltrona per vedere se qualcosa in sala di proiezione stia andando per il verso sbagliato (è capitato al signore seduto davanti a me) ma non c’è nulla di sbagliato, quell’inizio è la discesa nell’oscurità, un modo per farci sprofondare all’interno del racconto.

Londinese, classe ‘65, Glazer torna sul grande schermo – dieci anni dopo quel capolavoro di Under the Skincon una pellicola alienante che sembra più un esperimento immersivo alla pari di un’installazione artistica non facile da digerire.

La Zona d’Interesse, adattamento del romanzo omonimo del 2014 scritto da Martin Amis, è stato presentato al Festival di Cannes 2023 vincendo il Grand Prix speciale della giuria.

La storia è quella della famiglia Höß, di Rudolf (Christian Friedel) e di Hedwig (Sandra Hüller), dei loro cinque figli, del loro bel giardino colmo di fiori e della casa enorme che li protegge.

Ma qualcosa di fastidioso comincia a insinuarsi tutt’intorno, un rumore di fondo che stona parecchio con le immagini che scorrono sullo schermo, un suono che proviene dall’altra parte di un muro altissimo.

Il muro è quello del campo di concentramento di Auschwitz, luogo in cui trovarono la morte più di un milione e cinquecento mila ebrei e non.

Rudolf Höß è il comandante del Lager, un uomo meticoloso, uno stacanovista che pensa ventiquattro ore su ventiquattro a come sterminare gli ebrei nella maniera meno dispendiosa e più efficace possibile.

Ma non è soltanto ciò che si vede a mettere a disagio, è anche ciò che si sente, quell’orrore nascosto che sembra passare attraverso le mura.

Il fumo dei treni che arrivano al campo, le urla di terrore che accompagnano un pomeriggio di svago in piscina e poi il frastuono incessante dei forni che bruciano senza sosta, rilasciando nell’aria nubi di cenere.

Glazer punta la cinepresa sulla quotidianità della famiglia Höß, sulla loro totale indifferenza, sulla loro visione distorta di paradiso – in un’occasione Hedwig si riferisce a quella realtà come al loro personale giardino dell’eden – ed è questo punto di vista che genera sgomento, così come la gita in canoa nel fiume, il picnic in giardino o i vestiti “nuovi” che prova la protagonista, appartenuti a chi ora si trova a morire.

A rendere questa narrazione chirurgica un incubo a occhi aperti è la colonna sonora di Mica Levi, qui alla sua seconda collaborazione con il regista britannico dopo il già citato Under the Skin. I suoi pezzi minimalistici sono come un martello pneumatico che non smette di scavare nelle nostre sinapsi, una via di mezzo tra un dialogo mutilato e un urlo disperato, dall’inizio della pellicola fino ai titoli di coda.

Anche le immagini sono fredde e lontane, come se stessimo sbirciando in una vita quasi perfetta e asettica, dove tutto sembra custodito all’interno di una teca di vetro opaca e in questo la fotografia di Lukasz Zal è perfetta nel catturare l’indifferenza collettiva.

(Jonathan Glazer e Lukasz Zal durante le riprese del film)

Candidata a cinque premi Oscar (tra cui miglior film), La Zona d’Interesse è una pellicola fondamentale, sia per la tematica ancora attuale, sia per capire in che modo anche noi ci poniamo di fronte agli orrori che affliggono il nostro pianeta.

La cosa particolare, che cambia di parecchio le carte in tavola, arriva alla fine (Attenzione!!! Possibile Spoiler) quando il personaggio di Rudolf Höß scende le scale, contento di tornare ad Auschwitz e qualcosa di invisibile sembra colpirlo direttamente, due conati di vomito che gli piombano addosso come un monito, una visione del futuro che arriva dall’oscurità, come se in quel preciso momento si rendesse conto di essere visto da noi spettatori e da tutto il mondo.

Le immagini attuali del campo di Auschwitz non sono un caso, sono quello che rimane del suo operato, del suo male e di tutta quella brutalità che anima l’essere umano.

L’unico consiglio che posso dare per affrontare questo film è di non considerarlo un vero e proprio film, ma un’esperienza brutale della crudeltà e di come sia tremendamente facile nasconderla dietro un bel giardino.

Se vuoi leggere altro a proposito dei campi di concentramento, dovresti leggere questo articolo!!!

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