DI MIRIAM PAOLETTI
Il libro dei miserabili
“Non si può vivere senza nessuno da amare”
Bisogna voler bene, è così che finisci il libro.
Lo dici in un modo in cui non si può nemmeno capire la concrezione oltre la parola, in un modo in cui non è possibile creare, a partire da questa massima, un prolungamento sulla vita: non si può sapere come voler bene; eppure non importa, non ha nessuna rilevanza il modo, ma è maledettamente importante soltanto il fatto che bisogna voler bene. Io so che c’è stato un motivo per cui hai scelto questa come ultima frase, e non può essere altrimenti, non deve, o perlomeno non lo permetterò nella porzione d’inchiostro di queste mie parole a te, Momò.
Ci sono alcuni libri che cambiano la vita, dicono. Io ci credo, mi ripeto, e me ne convinco, ma nel dirlo so che non intendo quel che si intende, o piuttosto che non ho l’intenzione di dirlo con la stessa certezza con cui lo si afferma. Nell’esatto momento in cui lo dico chiedo a me stessa: in che senso dovrebbe cambiare la vita? A volte, nei momenti in cui mi convinco di non aver la forza necessaria per lottare ancora, per un secondo ancora, in cui devo essere questo pensiero che s’infrange contro le cose che accadono, proprio in quegli istanti sogno un avvenimento capace di trasformare quel che sono prima in quel che sono dopo, e lo desidero perché vorrei non farmi carico di tutto quel che comporta il movimento continuo nella testa in cui ogni attimo vissuto è il continuo tendere verso il dover essere: la paura di non essere abbastanza, la smania di volere essere altro da sé, il desiderare d’essere qualcosa che non può esistere perché è un ideale disegnato dalle paure piuttosto che dalla reale capacità di capire quanto si può concretamente essere, ovvero un ideale realizzato dalla consapevolezza della presenza a sé stessi. Un libro non può essere questo, o piuttosto sono io a non volere che un libro possa divenire soltanto questo: un pretesto per potersi convincere di esser totalmente altro da come si era prima, un modo per disdegnare la sofferenza del passato disconoscendolo, di modo da proteggere, dalla creduta mediocrità di prima, quel che si è ora, con la scusa pretestuosa di non esserlo più, attraverso la convinzione d’essere totalmente altro. I libri non sono questo, i libri devono essere molto più dello specchio entro il quale non vogliamo vederci o il trucco col quale vogliamo nasconderci. Ed allora, mi chiedo in quale modo un libro possa essere un avvenimento: ci penso e non mi rispondo. Non lo so. Ripenso all’attimo in cui ho discosto lo sguardo dall’ultima riga della pagina, chiuso il libro, posatolo sul cuscino, distesa sul letto: cosa ho pensato? Perché io so che questo libro mi ha cambiato la vita?
So che lo so per via della sensazione che ho provato quando ho guardato il soffitto ritrovandomi come oggetto dei miei pensieri: non ha un nome questa sensazione e non può essere nominata; eppure mi pare di poterne ancora percepire la presenza sulla pelle, il solco nella memoria, o di scorgerne la presenza muta al di là da me e troppo lontana quando vorrei afferrarla, entro me e troppo vicina per poterla guardare.
So che per quello sguardo, perduto fra le ombre contorte quanto la corona di spine di una immensa ombra nera, il libro era stramaledettamene importante, perché in esso quello sguardo aveva letto la vita; intravisto al di sotto dell’inchiostro della penna, oltre i segni neri, la presenza della vita nuda, viva, afferrabile dal sussurro rauco del fiato o nel movimento impercettibile, eppure visibile, del petto che si alza e s’abbassa e si alza. Nella successione delle tue parole, riconoscevo il movimento che in me ha questa mia vita: i pensieri si formano e si frantumano e s’immergono ed infrangono l’uno nell’altro; le considerazioni sulla vita, quel che pensiamo rispetto a quel che può accadere, quando rimangono impresse attraverso il ripensamento dell’impressione; quei sogni che vogliamo così spontaneamente mentre pensiamo a quel che ora abbiamo, ed allora, nel contrasto di ciò, scorgiamo delle prospettive sfocate nell’immediatezza del nostro desiderio; ed ancora, questo bisogno che si origina a partire dal fatto che vorremmo tutte le cose e nel voler tutte le cose iniziamo a raccontare a noi stessi le singole cose che vorremmo e dunque, questo determinato desiderio, diviene la risposta che la nostra fantasia crea rispetto alla condizione in cui siamo ora.

Momò, vuoi diventare un poliziotto o un terrorista perché desideri essere spontaneamente quella forza che ora è il rovescio visibile della tua debolezza e della tua paura, la forza attraverso cui poter trasformare questo mondo in cui i giovani, per esistere agli occhi degli altri e per appartenere a qualcosa, devono raggrupparsi in bande ed estraniarsi da sé, seguire i passi di quelli davanti senza poter alzare lo sguardo verso l’orizzonte in cui si vuol credere per poter vivere adesso; la forza per poter trasformare questo mondo in cui i vecchi non hanno più energie per poter testimoniare d’esistere, ed allora si lasciano morire abbandonati, troppo stanchi per poter vivere meglio di così, troppo stanchi per poter dire di desiderare ancora la vita perché essa appare solo per quel che è, cosicché quel che è non è vivificato da quel che potrebbe essere; troppo stanchi per poter dire di voler morire, perché ci vorrebbe del coraggio, troppo coraggio per chi non può che esistere solo ora e solo per sé, intuendo che nulla di quel che ora è esisterà mai per qualcuno: l’inespresso esiste, è reale? Momò, pensi che la gente voglia solo vivere, soltanto vivere, perché, in fondo, è l’unica cosa che le resta, che possiede, o l’unica cosa per cui crede di poter decidere volendo e desiderando, e non capisce che è un possedere da moribondo mentre stringe la propria ombra fra le mani, e non capisce che non è vita permettere al passato, in cui si riconosce ci sia stata la vita, d’invadere il presente, e sentire che solo in questa bolla di specchi si possa tollerare l’esistenza perché le ossa paiono troppo fragili per poter supportare una vita vera, laddove il presente accoglie la proiezione di quel che vorremmo che la vita sarà e sostiene la memoria di quel che è stato in quanto stato perché così si voleva che fosse; la gente vuole solo vivere e non vede tutta questa bellezza che le cose hanno addosso; la gente non ha bisogno di motivi per aver paura della vita, essa si teme così come si respira, continuamente, seppure non è ineludibile che l’uomo celi a se stesso quanto potrebbe essere se solo non volesse pensare costantemente alla paura; Momò, pensi che tutti vogliono essere felici e non vogliono altro dalla vita, tuttavia credi che la vita non coincida con la felicità, perché l’una è scarsa e bisogna prendersela fintantoché c’è, mentre l’altra può dipendere da noi: “ma io non ci tengo tanto ad essere felice, preferisco ancora la vita”. Momò, riconosci il luogo dei pagliacci ed i pagliacci stessi come quello e quelli che non assomigliano a niente e a nessuno, come una porzione di spazio dove tutto è meccanico, dove ciò che è, è quel che è perché è così che deve essere, dove non c’è sofferenza perché non c’è una volontà che vuole qualcosa di diverso da quanto accade, dove quel che succede è qualcosa d’altro rispetto alla natura, è privo della caducità oscura per cui si teme il tempo in cui le cose che sono ora non potranno più essere le stesse; Momò, lì eri felice, lì e non quando ti sentivi ricompreso all’interno della naturalità ed immerso nella esistenza, nei luoghi dove non è sufficiente chiudere gli occhi per poter essere altro, o allungarsi oltre i limiti della pelle, o oltrepassare gli involucri gonfi del momento presente, per ritrovarsi in un altro tempo che non sia quello di adesso: Momò, cercavi di sentire ancora di più il dolore per morire del tutto, o chiudevi gli occhi perché non volevi esserci più, pur intuendo che questo nascondersi non è abbastanza per non esistere e che riaprendoli saresti stato ancora lì, sempre lì. Tu sentivi d’essere diverso e che non avresti fatto altro nella vita oltre che essere diverso, e perciò promettevi al signor Hamil che avresti scritto anche tu i Miserabili, come Victor, perché detestavi l’idea che la vita potesse piegarti, che la natura potesse spezzarti, che la società potesse ferirti, e che tutto quel che tu vedevi potesse esistere o essere importante solo per te: esistevi solo per Madame Rose, e lei esisteva solamente per te, e non c’era altro oltre al vostro riconoscervi l’esistenza.
Soltanto adesso so perché questo libro è un avvenimento, in me, per me; solo ora riconosco quella sensazione metallica di vuoto che il mio stesso sguardo prolungava sulla curvatura bianca del soffitto: hai parlato dell’amore con le stesse parole che facevano esistere l’amore in me. E me ne ero scordata. E tu l’hai ricordato.
L’hai domandato apertamente a chi voleva ascoltarti, l’hai chiesto implicitamente a chi non poteva nemmeno rendersi conto della tua esistenza; l’hai chiesto a tutte le cose, continuamente, perché in te l’amore non era altro che riconoscere ed essere riconosciuto.
Io so che noi crediamo che sia così, tuttavia so che, se l’amore è quello che gli altri dicono, allora non può essere questo, ma l’amare incondizionatamente e non amare nessuno di quell’amore che è oggettificazione, o amare ciò che si vorrebbe essere o amare quel che non abbiamo il coraggio di riconoscere in noi e che l’amato ha la capacità di cavarci da dentro.

Io e te non lo sappiamo Momò, non l’avevamo mai pensato, cosa dovesse essere l’altro per noi affinché lo potessimo amare; io e te non lo sappiamo, Momò, non eravamo arrivati a tanto, tuttavia pensavamo che l’amore sarebbe stato essere riconosciuti riconoscere poter riconoscere volere riconoscerlo e continuare a riconoscerlo nello sguardo nelle parole nei gesti, e pensarlo pensarlo pensarlo permettergli di esistere nella testa cosicché possa esistere anche al di fuori di noi.
L’amore non era nient’altro che far esistere qualcuno con la stessa intensità con cui io sento di esistere; l’amore non era che voler non essere più soli.
Noi sappiamo che tutto dipende da come si pensa: quel che le persone sono per noi, come anche ciò che noi siamo per noi stessi, dipende dal modo in cui pensiamo; e noi abbiamo sempre creduto che solo questo pensiero pesante, assoluto, malato, perché riconoscimento, e leggero, libero, divino, perché donava l’esistenza, solo questo pensiero potesse essere quel che tutti chiamano amore. D’altro canto, riconosco che abbiamo sempre creduto nell’amore sbagliato, nell’amore di altre esistenze: quello con cui si amano gli albatri. Ma siamo davvero uomini, non saremo albatri?
Momò, Momò, come poterci credere ancora nel nostro amore?
Io e te siamo nati con un’unica domanda, da porre a chiunque o alla vita stessa: “Signor Hamil, si può vivere senza amore?”, e lo sappiamo Momò, l’abbiamo sempre saputo, che non si può vivere senza nessuno da amare. Ma sarà ancora possibile una certezza così profonda? La volontà ferrea di credere e continuare a credere e credere, anche se questo amore non è quello di nessun altro perché è malato di solitudine? Anche se vediamo che all’infuori di noi è così semplice amare o non amare, talmente semplice, immediato, infantile, ghignante e frivolo, da essere divenuto maledettamente inutile? Noi non possiamo amare così, perché amiamo la nostra solitudine: siamo uomini malati d’un amore inumano perché riempito dello strascico dei sassi nella risacca e dell’aria sferzata dalle ali al di sopra della cresta dell’onda, di quel limite così sottile da non esistere, miracolosamente interposto fra la cupola del cielo e quelle profondità abissali le quali non possono essere concrete perché vi è troppo buio, laggiù, per poter esserci qualcosa; non possiamo amare così, perché così si può anche non amare; mentre noi volevamo amare di quell’amore che è incremento di vita, quello per cui non si può non amare, quello per cui si può pensare ad un futuro, quello per cui si condividono le rispettive solitudini.
Sarà ancora possibile credere che sia necessario?
Per noi l’amore era il sacro. Per noi l’amore era la preghiera nel baluginio della luce minacciata dalle rientranze cupe nei corridoi delle chiese; per noi era la richiesta d’una vita insopprimibile perché accordata con quella di un altro: noi volevamo poter donare il Paradiso. Volevamo questo perché non avevamo che questa speranza per poter vivere; toltaci questa, cosa ne è rimasto di noi? Quella sensazione metallica di disgusto dell’amore degli altri.
Non so, caro Momò, se siamo noi a sbagliare a credere che sia così, o se invece è l’intera umanità che non vede quanto sia necessario riconoscere almeno un’unica altra persona che esista quanto noi esistiamo, almeno un altro essere che nel nostro pensiero viva, respiri, palpiti, un altro la cui vita sia protetta dal nostro pensiero; perché io so che, amando, potrei urlare all’intera umanità che lui lui lui esiste! Voi non ve ne accorgete, o ve ne dimenticherete o non lo saprete mai o non capite quanto sia rilevante notarlo e continuare a notarlo anche quando non lo possiate toccare; invece io so quanto importante è riconoscere che lui esista, e posso saperlo perché lui è in me, esiste nel mio pensiero, e gli permetterò di lasciare l’orma vaga, incidere l’impronta percorsa dal pensiero di lui in ogni istante di questo scorrere di vita.
Lui esiste perché io l’ho riconosciuto, io esisto perché lui mi ha riconosciuto. Queste sono le parole che tu hai detto, Momò, amando, queste sono le parole che io ho pensato, amando. Queste sono le parole che dovremmo disconoscere?
Non posso saperlo, Momò.
So che tutto è tornato ad essere freddo da quando si è sgretolata la speranza di questo amore; so che è difficile trovare un motivo per cui si dovrebbe parlare o costruire o esistere per gli altri, dal momento che più nessuno può esistere in me se in me non risplende la speranza di volerne far esistere almeno uno. Perché dovrebbe esistere qualcuno se io non voglio farne esistere almeno uno?
Chiudendo le pagine sentivo la sensazione fredda e metallica dello sbriciolarsi di questo amore, e non volevo, non volevo che fosse così, non volevo che io stessi permettendo che fosse così. Non è la vita che io voglio quella in cui tutto ciò che è altro ed esiste all’infuori di sé è indifferente o quella che vuole estendere la solitudine oltre i propri confini negando l’intrecciarsi, l’intersecarsi, la coincidenza, quasi come se non bastasse il distacco che necessariamente siamo: siamo esseri confinati dalla pelle. Eppure io so, e riconosco di aver sempre sentito, che col mio sguardo avrei potuto toccare l’esistere di chi mi stava di fronte, avrei potuto prolungarmi al di là da me, per poter raggiungere un altro sguardo.
Ed allora Momò?
Tu dici che bisogna voler bene. E non c’è motivo di dirlo, se non che proprio per il fatto che siamo distacco, proprio per il fatto che non c’è motivo d’amare dal momento che l’amore non è nulla, proprio per il fatto che si può vivere anche senza amore, allora è indispensabile toccare almeno una luce, dire di ricordare d’aver amato almeno una volta: aver provato a far esistere qualcuno nella propria solitudine, essersi resi conti d’aver voluto sorridere per qualcuno.
Momò, permettiamoci d’amare ancora.
Saremo creature di sogno.


Se ti è piaciuto questo articolo, leggi gli altri nostri pezzi squisitamente filosofici!!!
Se volessi leggere di letteratura, clicca qua!!!
Se desideri desiderare un articolo che parli di desideri, desidera cliccare qua!!!





