DI ELODIE VUILLERMIN
Il momento delle gite d’istruzione è sempre stato uno dei più peculiari e memorabili (sia in positivo che in negativo) di quando andavo a scuola. Succedevano le solite cose: gli insegnanti che nella pausa pranzo ti dicevano “ci rincontriamo qui tra due ore” e puntualmente nessuno tornava all’orario stabilito, la fissa delle foto di gruppo davanti ai monumenti più caratteristici della città in cui ci trovavamo, le notti in camera d’albergo passate più a chiacchierare o raccontare storie dell’orrore che a dormire. E una volta tornati a scuola, quasi sempre era d’obbligo scrivere la relazione sulla gita, giusto per ricordarti che lo svago c’era, ma solo fino a un certo punto.
Anche qui, in questo libro, ci sono la scuola e una gita d’istruzione. Nello specifico, una gita in Liguria, con docenti strani o incasinati e una banda di ragazzini perlopiù indisciplinati. Quello che doveva essere un momento di svago, per gli studenti del prestigioso Liceo Massimo d’Azeglio, prende una piega grottesca quando alla trama si aggiungono una seduta spiritica, morti sospette, furti, uno strano amuleto egizio, la presenza di un’organizzazione filosofica riconducibile a una setta e la storia di un faraone eretico.
Da qui si entra in pieno giallo. Gli studenti cominciano a fare delle indagini con l’ingenuità e l’incoscienza tipica della gioventù, senza sapere che si stanno cacciando in guai più grandi di loro. Iniziano un viaggio negli angoli più nascosti di Torino, che corrisponde anche a un viaggio dentro loro stessi e farà emergere le loro conoscenze e talenti nascosti, dimostrando così che non sono i soliti discoli svogliati, come invece li dipingono i professori. Ma non solo. Il mistero attorno a cui ruota tutta la trama costringe gli adulti a fare i conti con sé stessi e le proprie mancanze, ferite, delusioni. Mette Sofia di fronte a una scelta: perdonare il suo ex marito e tornare con lui, o lasciarsi alle spalle il passato e condurre una vita con il suo nuovo compagno? Sprona Gabriele a parlare ai suoi studenti come non aveva mai fatto prima, insegnando loro che sbagliare va bene e che la scuola non è fatta per insegnare certezze assolute.
Vediamo il mondo degli adolescenti alle prese con i problemi tipici della loro età: le prime cotte, la scoperta della propria sessualità, le difficoltà familiari, la scuola che appare loro come un campo di battaglia ogni giorno. Ma al tempo stesso comprendiamo quali sono le difficoltà dell’essere adulti: le responsabilità genitoriali, la fatica a essere rispettato o a farsi prendere sul serio dai più giovani, le crisi matrimoniali, le gelosie dovute all’insicurezza e alla paura di rimanere soli.
Uno dei temi centrali del romanzo, al di là della risoluzione di un mistero, è il continuo confronto tra ragazzini e adulti. I primi sono carichi di speranza, con i loro desideri ancora da realizzare. Ci sono gli studenti modello, primi della classe, che puntano alla perfezione, e i casinisti, menefreghisti e svogliati, o ancora quelli che stanno nel mezzo e meno si fanno notare meglio è. C’è chi ostenta il coraggio e la sicurezza che sa di non avere, apparendo come un arrogante agli occhi dei più superficiali. Entrano in contrasto su molte cose, anche per via dei loro diversi caratteri, ma quando si tratta di indagare sul mistero dietro all’occhio di Horus dimostrano una solidarietà notevole.
Gli adulti sono più disillusi, cinici, segnati da sacrifici che a volte sono stati inutili. Sono stati feriti perché hanno rinunciato alle loro passioni o alla parte migliore di sé per fidarsi delle persone sbagliate. Capita che si fingano freddi e distaccati con la persona che un tempo amavano e da cui sono stati traditi, pur di non ammettere che provano ancora dei sentimenti, perché temono di essere delusi una seconda volta. Spesso manca loro il coraggio per affrontare questioni importanti. Trovano mille scuse per giustificare le responsabilità che non si sono presi come mariti e genitori, e ammettono le loro colpe quando ormai è troppo tardi e non c’è niente da recuperare. C’è chi non riesce a separare il sé stesso insegnante dal sé stesso genitore, complicando il rapporto con i figli.
Conti mette in evidenza con maestria un aspetto importante dell’ambiente scolastico: l’incomunicabilità tra studenti e insegnanti, le loro difficoltà a capirsi ed entrare in connessione. Spesso i professori non sanno insegnare la loro materia di studio nel modo giusto. Piuttosto che farvi sinceramente appassionare i giovani, pretendono che loro imparino tutto e si facciano piacere storia, o matematica, o quel che è, a prescindere. Non si prendono il tempo per pensare che forse uno studente è intrattabile perché soffre della mancanza dei genitori, o perché fatica ad accettare la presenza di un altro uomo in casa dopo l’abbandono del padre. E danno per scontate troppe cose.
Ma anche i professori hanno i loro problemi e gli studenti sembrano dimenticarsene, causandone apposta degli altri agli adulti solo per divertimento. Forse quel professore che ti mette 4 non lo fa perché ci gode, forse gli dispiace dartelo quanto a te riceverlo. Magari gli piace spiegare la sua materia di studio, e nel momento in cui guardi il telefono, dormi in classe o chiacchieri con il vicino stai vanificando la sua passione. Un insegnante non è lì per renderti la vita impossibile: il suo vero scopo è aiutarti a scegliere quale strada percorrere in futuro, quale sogno inseguire.
A mio parere questa difficoltà di comunicazione, questa distanza tra mondo dei ragazzi e degli adulti, è dovuta anche al fatto che l’istruzione in Italia è mal organizzata. Ci riversano addosso nozioni che sono destinate a entrare da un orecchio e uscire dall’altro, a perdersi con il passare degli anni, a non restare nella nostra memoria più del tempo necessario. Citando la Restano, mia professoressa di italiano e storia agli ultimi anni di superiori (che ringrazio per la pazienza di avermi insegnato concetti importanti e non scontati), nelle scuole non siamo allenati a diventare veri uomini, ma pappagalli ripetenti. Cosa intendeva dire? Che il grande vizio di molti professori è di insegnarci tanta teoria, a volte pure troppa, e darci poche occasioni per metterla in pratica. Conosciamo le nozioni ma il più delle volte non sappiamo applicarle, le ripetiamo a memoria e basta.
Il bravo professore, come dice Gabriele Mandroni (o “il Mandrilloni”), deve essere come Socrate: non deve limitarsi a diffondere conoscenze e basta, ma stimolare nei ragazzi il desiderio di andare a cercare quelle determinate conoscenze e crearne di nuove. Deve lasciare che i giovani abbiano la curiosità e la voglia naturale di imparare, senza dover imporre loro quella voglia.
Si nota, nelle pagine del romanzo, l’amore profondo di Stefano Conti per la storia, infatti crea una narrazione ambientata ai giorni nostri ma che è molto influenzata dal passato di un’antica civiltà. L’autore stesso definisce questo romanzo “un giallo in cui si mescolano segreti odierni con antichi misteri”, e non è certo il primo, dato che aveva già scritto altri gialli con questa impostazione nella trama.
La scelta di Torino come sfondo per le vicende narrate non è casuale: è una città molto importante dal punto di vista storico e artistico, nonché uno dei vertici mondiali della magia, sia bianca che nera.
Ogni capitolo porta il nome di un colore. Si punta verso le sfumature meno note, non i soliti rosso o verde, perché l’idea di Conti è (come afferma lui stesso in un’intervista con Simona Priami) quella di incuriosire i lettori e dare l’idea di una lettura scorrevole, piacevole e che unisce molti registri diversi: lo stile narrativo dosa infatti nella giusta maniera ironia, inquietudine, malinconia e tenerezza.
Arriviamo alla spiegazione dietro al titolo. A un certo punto del libro, Gabriele parla con i suoi studenti e dice che l’amore si spiega con un’equazione della fisica quantistica, nello specifico quella di Dirac. Ma a parer mio si sbaglia.
Non esiste una formula perfetta e universale per capire l’amore, ma soprattutto, le persone. Comprendere i sentimenti e la personalità di ognuno non è come cercare la X in un’equazione. Entrano in gioco diverse variabili, tante incognite, e non si arriva mai a una soluzione unica e univoca.
Ognuno dei personaggi prova a cercare la sua equazione perfetta, a ritrovare l’equilibrio che ha perso. Ma a volte fallisce, o il risultato è diverso da ciò che si aspettava.
Questo giallo è un romanzo corale, dove tutti sono protagonisti contemporaneamente. Tramite un narratore in terza persona l’autore riesce ad addentrarsi nella vita e nei conflitti interiori dei personaggi, permettendoci di coglierli nella loro interezza e di affezionarci a loro. Tuttavia, per quanto la trama sia interessante, non ho percepito la stessa suspense che di solito avverto quando leggo un giallo, perché mi è parso di notare uno squilibrio tra momenti di tensione e scene di vita privata dei protagonisti.
Alcune scene mi sono sembrate un tantino troppo cariche di informazioni e avrebbero avuto più effetto se quelle stesse informazioni fossero state rivelate poco a poco. Premio comunque la capacità di Conti di saper restituire un’immagine realistica e precisa del mondo scolastico e di alternare registri diversi. Ben riuscito è anche l’inserimento della componente magica nel racconto, grazie a espedienti quali amuleti egizi con strani poteri, visite da un medium per cercare risposte al mistero, la quasi-parentela tra un personaggio e un famoso sensitivo realmente esistito e l’ambientazione nella magica Torino. Infine ho apprezzato molto la capacità dell’autore di nascondere la vera verità fino all’ultima pagina: ogni volta che sembri più vicino alla soluzione, nuovi casini arrivano a confondere la tua percezione delle cose e ti ritrovi confuso più di prima.
Se ami la Letteratura, pigia qui sopra!!!
Sei appassionati di Gialli, Noir e Thriller? Allora non puoi non premere proprio qua!!!