A questo frammento di vita manca un titolo

DI SARA NOEMI SCATOLA

A QUESTO FRAMMENTO DI VITA MANCA UN TITOLO. NONOSTANTE QUESTO, ALMENO PER ME, È UN FRAMMENTO DI VITA BELLISSIMO. D’ALTRONDE, LA VITA, NON HA BISOGNO DI TITOLI

Domani sarà finito

Non che sia stata colta di sorpresa. Si sa, tutto raggiunge la sua fine. È il requisito della nostra essenza di umani, la temporaneità. 

E comunque non sarà l’ultima volta. Ci saranno in un futuro altre di queste giornate d’estate.

Eppure, questa specifica condizione che sta venendo a manifestarsi, facendo breccia in questo tempo e in questo spazio dal carattere temporaneo, vedete, questa condizione non è soggetta a ripetizione. Nessuna condizione lo è. Alcune possono essere simili. E la similitudine genera empatia. Come una classe di studenti il giorno prima di un esame complicato. I bambini che, sconosciuti, giocano al parco insieme. Le persone ricoverate in un reparto d’ospedale. Ritrovarsi a navigare insieme in una stessa situazione con punti in comune sprigiona dalle menti un imbattibile senso di appartenenza e, in alcuni casi, un’incontrastabile necessità di dare il proprio contributo a quel temporaneo aggregamento di persone che rispecchiano la propria situazione. Io aiuto te a stare a galla perché io sono immerso nelle tue medesime circostanze e pertanto ti comprendo.

Ma per quanto si possa immedesimarsi nell’altro, l’empatia ha un suo limite, che risiede nell’immedesimazione stessa: l’immedesimazione non è che pura immedesimazione. È un’ipotesi che innalza la sua architettura interna su una base di conoscenze dedotte da comportamenti e stati d’animo che risiedono all’esterno di noi. Io posso immaginare quello che provi. Non posso saperlo con certezza. E la mia esperienza non potrà mai combaciare con la tua.

Questa condizione non è soggetta a ripetizione. Non c’è un’esperienza uguale a un’altra. A questa condizione non è concessa una seconda possibilità.

È unica. E io sono unica, perché non sarò più uguale alla me stessa di questo momento.

Domani torno a casa.

Sono le 7 e mezza. È mattina. L’aria è fresca. Il cielo grigio. C’è silenzio.

Nessuno cammina nel mio campo visivo. Solo il bagnino inizia a sistemare la spiaggia che, vuota, prospetta di affollarsi più tardi, dopo che il sonno avrà lasciato gli occhi delle persone, come la luna che cede elegante il suo posto al sole, ritirandosi in un valzer danzato con le stelle verso l’altro emisfero del mondo, pronta a far calare il sonno sugli occhi della metà restante di umanità.

La sabbia fresca e umida sembra quasi stonare sotto i miei piedi, abituati alla sabbia calda del mattino inoltrato.

L’aria increspata mi fa venire la pelle d’oca. Avvolgo in un cardigan grigio del mercato il mio corpo coperto soltanto dai due pezzi di un costume nero.

In piedi, guardo il mare. Calmo. Totalmente esposto, nudo di fronte agli occhi degli umani ipnotizzati dalla trasparenza dell’acqua.

Chissà se si sente violato. Chissà se accoglie sereno i nostri corpi in acqua.

Con il cardigan ancora ad avvolgermi, mi avvicino alla riva. La sabbia è bagnata. La risacca timida del mattino, intatta dall’ondeggiamento delle barche di passaggio e dal caos delle ore più affollate della spiaggia, mi bagna i piedi. La consapevolezza del freddo mi pervade all’improvviso. Faccio un altro passo. Ancora un altro. Cammino. Fino a quando l’acqua raggiunge le mie ginocchia. Inspiro a fondo. Nonostante l’acqua sia ancora bassa, la riva è più lontana di quanto mi aspetti.

Di fronte a me, una distesa infinita di mare immobile. Ferma così, in mezzo all’acqua, mi sembra di essere sospesa al centro dell’eterno. La materializzazione dell’assenza di confine.

Mi volto. Sulla spiaggia vedo la signora di Milano, conosciuta il giorno prima durante la lezione di acqua gym, che mi saluta da lontano.

Mi incammino verso di lei per ricambiare il saluto e augurarle il buongiorno, le mie gambe abbandonano gradualmente l’acqua ma con me resta la sensazione di freddo. 

Ci sediamo vicine sui nostri asciugamani. Lei leggermente contrariata per aver trovato il bar chiuso e non aver potuto fare la sua colazione da sola, un rito di cui mi ha raccontato e che era diventato il suo momento di sana solitudine nel corso di questa vacanza.

Chiacchieriamo per qualche minuto. Dopodiché, mi tolgo il cardigan e le dico che voglio fare un bagno in mare. Lei mi dice che mi avrebbe aspettato lì. Allora apre la sua rivista e si immerge nella lettura.

Io avanzo verso il mare a passo deciso. La determinazione dei miei passi quasi a convincermi di voler davvero fare il bagno in quell’acqua fredda di un mattino senza sole.

Le gambe, già toccate dall’acqua, entrano senza indugio. Cammino fin dove l’acqua si fa più alta. Aspetto qualche secondo. Inspiro. E pochi secondi dopo mi tuffo. 

Il freddo mi inebria e mi fa sentire viva. Gli occhi sono risvegliati dall’acqua fredda e salata. È come essere battezzata all’alba di un nuovo giorno. L’acqua scorre in senso contrario al mio corpo che si fa spazio nell’acqua per nuotare. 

Il freddo mi ferma il cuore per un attimo e il respiro fatica a mantenere la sua regolarità. Morire e rinascere nel tempo di un tuffo e del ritorno a galla.

Mi sollevo, le gambe piegate per mantenere la parte superiore del mio corpo in acqua. Sorrido. È un sorriso istintivo, viscerale, primordiale. Sorrido con tutti i miei organi. Sorrido con il ritmo alterato del mio respiro. E sono di nuovo in acqua. I capelli seguono la testa immersa sotto la superficie e imitano per un attimo quelli di una sirena, sottomessi alla volontà del mare.

Sott’acqua apro gli occhi. Il sale non brucia. L’acqua non mi infastidisce

Voglio vedere. Voglio vedere.  Lo desidero profondamente.

È un bisogno viscerale. L’acqua mi smuove in profondità. Fin nelle viscere. Il mio corpo si rianima. Lo sento. Nelle viscere. Nelle viscere. Devo vedere.

Mi manca il respiro.

Mi fermo. Mi risollevo sulle ginocchia. Respiro un momento lasciando le braccia muoversi nell’acqua.

Un altro respiro e mi sdraio. Faccio qualche bracciata a dorso. E poi mi lascio galleggiare. Abbandonata al mare. E guardo il cielo, sopra di me. L’improvviso contatto con la luce bianca affilata modifica la grandezza delle mie pupille. 

E in questo momento, ora, in questo preciso angolo tra lo spazio e il tempo, una fitta mi attraversa.

Una fitta di consapevolezza. Un tuffo al cuore. Uno spasmo che mi blocca il respiro per un attimo. 

Sono a galla, sospesa in superficie, a mezzo metro dal fondale del mare e a milioni di chilometri dalla fine dell’atmosfera.

Non c’è confine. Mi pervade la visione dell’infinito

Io, essere di sconfinata piccolezza, percepisco la sensazione di sconfinata grandezza derivante dalla consapevolezza dell’immensità del mondo in cui siamo immersi.

Non credo ci sia dono più illuminante della presa di coscienza del cosmo. Arcaico. Saggio. Antico. Impregnato dai sussurri delle generazioni che hanno abitato questo mondo prima di noi.

Siamo esseri di passaggio in un mondo millenario.

E in questo pensiero, muoio umana. Per rinascere spirito. 

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