DI GIACOMO CAMISASCA
“I miei amici sul continente credono che solo perché abito alle Hawaii, io viva in paradiso. Come fossi in una vacanza permanente, pensano che qui passiamo il tempo a bere Mai Tai, a ballare l’hula hula e fare surf. Ma sono pazzi. Credono che siamo immuni alla vita. Come possono pensare che le nostre famiglie abbiano meno problemi? Che i nostri cancri siano meno mortali? I nostri drammi meno dolorosi? Sono quindici anni che non salgo su una tavola da surf. Negli ultimi ventitré giorni ho vissuto in un paradiso fatto di flebo, sacche di urina e tubi endotracheali. Il paradiso? Il paradiso può andare a farsi fottere”.
Si apre così The Descendants (Paradiso amaro), tratto dall’omonimo romanzo di Kaui Hart Hemmings, con una riflessione del suo protagonista Matt King (George Clooney), un avvocato specializzato in transazioni immobiliari e discendente (come suggerisce il titolo originale) di una facoltosa e antica famiglia delle Hawaii.
Il dolore ti raggiunge ovunque, anche se abiti nel posto più bello di questo mondo o addirittura in paradiso. Il dolore trova un modo per arrivare, sempre.
E per Matt – quel dolore – arriva come uno schiaffo in faccia, quando sua moglie, Elizabeth Thorson King (Patricia Hastie), entra in un coma irreversibile, dopo una caduta in motoscafo al largo di Waikiki.
Matt King si ritrova improvvisamente a fare i conti con tutta la sua vita e soprattutto si trova a dover badare alle sue due figlie, la più piccola, Scottie (Amara Miller) e la più grande, Alexandra (Shailene Woodley).
Un’impresa titanica per Matt, che si rende conto improvvisamente di quanto sia stato assente nelle loro vite e cerca in Alexandra un faro, una guida per poter crescere nel modo più giusto e sano la piccola Scottie.
Mentre tutto il suo mondo si sta sgretolando, Matt deve gestire un importantissimo affare riguardante la possibile vendita dei terreni di famiglia sull’isola di Kauai, ereditati dai trisnonni: la principessa nativa Margaret Ke’alohilani e il banchiere bianco figlio di missionari Edward King. Matt è l’amministratore fiduciario congiuntamente con i suoi innumerevoli cugini, e per una norma contro la perpetuità è obbligato a sciogliere il trust. Lui ha saputo curare sapientemente le proprie finanze, al contrario della maggioranza dei cugini che ha sperperato la propria eredità. Molti di loro gli fanno pressioni per vendere i terreni, i quali valgono centinaia di milioni di dollari.
A rendere il tutto ancora più difficile è un segreto che gli rivela sua figlia Alexandra, il motivo per cui lei e sua madre avevano litigato furiosamente mesi prima dell’incidente e per il quale non si parlavano: Elizabeth ha un amante.
Matt scopre che si tratta di un certo Brian Speer (Matthew Lillard), un agente immobiliare della zona che dalla vendita dei terreni della famiglia di Matt ricaverà un’ingente somma di denaro.
Inoltre, viene a sapere da due cari amici di famiglia che Elizabeth era intenzionata a chiedergli il divorzio.
Ma Elizabeth non si sveglierà mai più, non tornerà la donna avventurosa e dinamica di una volta, non potrà chiedere il divorzio, non potrà fare pace con sua figlia Alexandra e non potrà veder crescere la piccola Scottie.
Come da sue volontà, le verranno staccate le spine e i macchinari che la tengono in vita.
Matt comunica la notizia a tutti gli amici della moglie – che avranno la possibilità di salutarla un’ultima volta – e preso da un impeto di consapevolezza decide di andare a cercare Brian Speer per informarlo dell’accaduto.
Credo che il titolo originale sia più significativo, in un certo senso più profondo.
Ognuno di noi è un discendente, qualcuno che cammina sulle orme di chi è vissuto prima, antenati che si sono incastonati per sempre in quelle terre che calpestiamo ogni giorno. I discendenti si sentono ogni volta portatori di un grande peso, il peso della memoria e dei ricordi, di quel patto non scritto di dover continuare a vivere e tramandare a chi verrà quei valori e quei racconti che li hanno formati.
Matt King nel corso della sua storia si rende conto di essere diventato questo, un guardiano della sua terra e dei suoi antenati, ma anche un guardiano per le sue due figlie che ora non avranno più una madre.
È per questo motivo che all’ultimo decide di non vendere i terreni di famiglia, vuole preservare quell’angolo di paradiso, si rende conto che deturpare con hotel di lusso e campi da golf una zona pregna di ricordi legati alla sua famiglia è esattamente come un tradimento nei confronti dei suoi trisnonni.
E poi c’è Elizabeth, sdraiata su quel letto d’ospedale avvolta dalla sua coperta gialla, che aspetta di poter lasciare questo mondo.
Matt la perdona e in qualche modo perdona anche sé stesso per non essersi accorto della sofferenza della moglie, della sua infelicità e capisce che lei era alla ricerca di quell’amore che lui non le stava più dando.
La parte più difficile però arriverà dopo, dopo aver sparso le ceneri di Elizabeth nell’Oceano Pacifico, dopo aver affrontato il padre di lei, che lo ha sempre rimproverato di non aver dato una vita felice alla sua piccola bambina, e arriverà dopo quel gelato davanti alla tv, insieme a Scottie e Alexandra, avvolti da quella coperta gialla che era, è ancora e sempre sarà Elizabeth.
Alexander Payne al suo quinto lungometraggio scava nell’elaborazione del lutto da parte di una famiglia che a prima vista sembra immune al dolore, ma come dice Matt ad inizio film: “Come possono pensare che le nostre famiglie abbiano meno problemi? E che i nostri drammi siano meno dolorosi?”.
Le Hawaii fanno da sfondo ad un dramma familiare dei più dolci, un film che non scade nel melodrammatico ma che anche nei momenti più delicati sa usare l’ironia, impersonata sia dalla piccola Scottie (una bambina sopra le righe) che da Sid (Nick Krause), un amico di Alexandra che da perfetto estraneo accompagna la famiglia King nel suo viaggio più doloroso, beccandosi anche un pugno in faccia dal nonno, interpretato dal compianto Robert Wallace Foster Jr.
George Clooney ci regala una delle sue interpretazioni più intime e vere, ci sono delle scene che da sole fanno venire i brividi, come l’ultimo bacio ad Elizabeth, la chiacchierata con Sid in piena notte in cui Matt chiede consigli relativi all’essere genitore ad un ragazzino che sembra avvolto da un’aria di menefreghismo assoluta (in senso positivo) e poi c’è quella corsa verso la casa dei suoi amici, dopo che scopre che la moglie aveva un amante. Una corsa disperata, impacciata e scoordinata un po’ come il suo personaggio.
Alexander Payne, insieme a Nat Faxon e Jim Rash (il Craig Pelton di Community, sì proprio lui), vince il suo secondo premio Oscar come miglior sceneggiatura non originale e si conferma uno dei registi/narratori che sanno trattare temi complessi con una delicatezza disarmante e che riescono a creare dei personaggi che rimangono impressi nelle nostre menti, personaggi che prendono vita in quelle due ore ma che poi continuano a vivere, non so come, oltre il cinema, oltre quello schermo bianco.
E questo, secondo me, è il talento di un regista che sa raccontare l’ordinario in modo straordinario.
“Mi sembra naturale che una delle mie figlie sia su un’altra isola. Una famiglia in fondo sembra esattamente un arcipelago: sono tutti parte dello stesso insieme, ma separati e soli. E lentamente, si allontanano sempre di più…”.
Lo pensa Matt mentre insieme a Scottie si reca sull’isola grande per recuperare Alexandra e portarla a casa.
Un concetto di famiglia che è la realtà, un fondamento, un fatto che tutti dobbiamo accettare.
Paradiso amaro dovrebbe essere una sensazione, uno stato emotivo, vivere in un posto idilliaco, magnifico, ma essere consapevoli del fatto che nonostante questo la sola bellezza non può proteggerci dalla vita e dai suoi dolori.
Tutti noi siamo attaccati alla nostra terra, alle nostre origini (chi più chi meno) e tutti noi consideriamo il luogo in cui viviamo una sorta di paradiso (forse non tutti), ma nonostante questo continuiamo a sbattere contro i drammi che fanno parte della nostra storia personale.
Io, ad esempio, vivo in un luogo meraviglioso, una valle circondata dalle montagne, dalla natura che in questo periodo si trasforma in quel giallo e arancio che colora ogni cosa.
In questo preciso momento, mentre scrivo queste parole, ha iniziato a nevicare, dal cielo scendono fiocchi di neve soffice che si posano sul terreno, creando un enorme tappeto bianco.
Mi sento fortunato a vivere in questo posto, i miei amici che abitano in città mi dicono che vivo in un paradiso e credono che nulla in questa valle possa scalfirmi, ma la realtà è che io sono esattamente come loro, e i dolori che permeano le strade trafficate, gli uffici e gli autobus pieni zeppi di gente, arrivano anche qui, fin sulle cime delle montagne.
Il paradiso? Il paradiso può andare a farsi fottere.
Mancano esattamente venti giorni all’uscita di The Holdovers, lo so… sono ripetitivo, ma fidatevi quando vi dico che ne varrà la pena.
Intanto fate una cosa, leggetevi questi articoli, recuperate tutti i film di Alexander Payne, lasciatevi emozionare dal suo mondo; noi ci vediamo il prossimo venerdì, lasceremo le spiagge soleggiate delle Hawaii e torneremo in un luogo che conosciamo molto bene, il Nebraska.
Se vuoi leggere di quanto ci sia fondamentale tornare a casa, leggiti questo!!!
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