VITA DI COPPIA (prima parte)

DI CHRISTIAN PAROLIN

I

La mia ragazza mi chiamò e mi disse: «Questa sera non torno a casa per cena. Il circolo ha organizzato un rinfresco in onore dei venticinque anni dalla nascita dell’organizzazione e ha invitato tutti noi allievi a prendervi parte. Ci vediamo domani mattina. Ti amo».

Ebbi appena il tempo di augurarle buona serata, e il telefono mi fischiò a intermittenza nell’orecchio. 

Scesi in cucina. Il tavolino era coperto da una tovaglia di plastica cerata bianca con disegni di grappoli d’uva, regalo di mia madre per il nostro primo anniversario. Al centro di essa bruciava una candela viola profumata. I calici vuoti erano posizionati alle due estremità del tavolino; la bottiglia di vino accanto al calice della mia ragazza. Attraversai i tre metri quadri della stanza e mi chinai sul forno. Lei amava la pizza fatta in casa. I primi tempi, quando non ci andava di andare a mangiare fuori – e capitava di rado che ci andassimo – passavamo le domeniche pomeriggio a preparare l’impasto e a infornarlo. La mattina andavamo al supermercato a comperare gli ingredienti e poi ci mettevamo all’opera.  

Indossai il guanto di stoffa e presi la teglia. La pizza era cotta. La posai su un panno sopra il ripiano, accanto al lavandino, e ne assaggiai un pezzetto. Era salata al punto giusto; pomodoro e mozzarella si erano amalgamati alla perfezione e crocchiava tra i denti. Ne ricavai due metà, e una me la misi sul piatto. Rimisi la teglia in forno e mi sedetti. Prima di versare il vino mi guardai intorno. Vivevamo in quel bilocale da tre anni e quella era la prima volta che mi prendevo del tempo per osservarlo. Opprimente. Era la terza domenica consecutiva che mangiavo la pizza fatta in casa da solo. E che la facevo da solo. Cominciai a sentirmi solo.

Dopo essermi fatto la doccia, aver letto un po’ ed essermi lavato i denti, mi infilai sotto le coperte. Dividevamo un letto da una piazza e mezza; lei era piccolina e io poco più grosso e perciò non ce ne serviva uno più spazioso. Misi sotto carica il cellulare e chiusi gli occhi. Dopo mezz’ora ero ancora sveglio. Dopo un’altra mezz’ora lo ero più di prima. Accesi l’abat-jour e ripresi a leggere da dove mi ero interrotto. Era un libro leggero, che mi permetteva di saltare una frase o scorrere distratto senza perdere il filo. Guardai il telefono. La mia ragazza non mi aveva lasciato nessun messaggio. Mi sarebbe bastato quello, un segno che dimostrasse che lei c’era ancora e che mi pensava. Lessi fino a mezzanotte. Guardai il telefono. Niente messaggi

Cominciai ad agitarmi. Ripercorsi la giornata appena passata e mi chiesi se avessi detto qualcosa di sbagliato, qualcosa che potesse averla offesa. Ma sono uscito di casa quando lei ancora dormiva e sono tornato quando lei se n’era già andata. Però a fine chiamata aveva detto “Ti amo”. Significa che mi pensava. Mi tranquillizzai un poco.

Decisi di leggere ancora nonostante gli occhi mi bruciassero. 

All’improvviso, il cellulare vibrò. Il libro mi scivolò dalle dita. Il cuore cominciò a battere forte e il respiro si fece faticoso. Aspettai qualche secondo, poi sbloccai il cellulare. Tutta l’ansia che per un istante si era sollevata da me ripiombò sul mio petto. Era la notifica della posta, che diceva qualcosa sul cashback. Chiusi il libro e mi imposi di dormire. 

Passai la notte a rigirarmi, alternai momenti di dormiveglia a momenti in cui ero del tutto lucido. Alle cinque suonò la sveglia. Nessun messaggio. La sua parte di letto era fredda e ordinata. 

II

Al lavoro fu un incubo. Continuavo ad inserire i comandi errati nella macchina, confondevo i pezzi di stoffa; ero così assente che i miei colleghi mi stavano alla larga più del solito. Eravamo in cinque, caporeparto compreso. Quello più giovane, un brasiliano di colore che sarebbe tornato in Brasile di lì a poco, non parlava mai. Capiva l’italiano e lo parlava fluentemente con il suo esotico accento, ma apriva la bocca solo se direttamente interpellato. Non che durante il giorno ci fosse molto di cui parlare, ma una parola ogni tanto poteva alleviare il peso di una vita in tessitoria. Una delle due donne era una gran bella donna, ma nessuno sapeva chi fosse veramente. Ogni volta che le si chiedeva quanti anni avesse, rispondeva trenta, venticinque, quarantacinque. Abitava in diversi paesi, aveva diversi nomi. Non capivo il motivo di tenere segreta la sua identità in un posto come quello, dove nessuno dei colleghi esisteva dopo le cinque e mezza. L’altra, la più vecchia lì dentro, era più piacevole. Sorrideva sempre ed era gentile con tutti; quando sbagliava prorompeva in una gran risata e rimediava all’istante. Nemmeno lei era troppo incline alla loquacità, ma diceva le cose giuste al momento giusto. Il caporeparto non lo si vedeva quasi mai. Si occupava soprattutto dei rifornimenti alle aziende. Veniva in capannone solo per dirci che bisognava accelerare la produzione e che quel sabato si lavorava. 

A fine turno mi sedetti su un mucchietto di stoffe e consumai il pranzo. Ero l’unico che mangiava nel capannone, ero quello che abitava più distante. Di solito, il lavoro riusciva a distrarmi e a non farmi pensare alla vita là fuori; quel giorno, invece, non facevo che pensare alla mia ragazza. Presi il telefono e controllai se mi avesse mandato qualche messaggio, ma la barra delle notifiche era vuota. Accadeva, soprattutto all’inizio della nostra relazione, che lei avesse questi momenti in cui non si faceva sentire, a volte per giorni interi. Avevo imparato a non preoccuparmene più del dovuto, e mi riguardavo dal farglielo notare, poiché avevo capito che quello era il suo modo di dirmi che aveva bisogno di spazio. Mi ricontattava e ricominciavamo a parlare come se niente fosse, e tornava tutto come prima. Tuttavia, era da qualche tempo che non succedeva, e dentro di me pensavo che fosse un buon segno, perché significava che stava bene con me. 

Decisi di chiamarla. Finii in fretta il panino e cliccai sul suo nome in rubrica. Sentivo il pane duro che mi scalfiva lo stomaco.

«Pronto?».

Il sentire la sua voce mi rasserenò, ma la sensazione sparì quasi subito.

«Ehi. Non ti ho più vista ieri sera».

«Sì… no… è che il rinfresco è andato avanti fino a tardi e avevamo tutti bevuto ed ero troppo assonnata per mettermi alla guida, così mi sono fermata a dormire da una amica che abita lì vicino».

Parlava velocemente.

«Va bene, non c’è problema. Però avresti potuto mandarmi un messaggio per avvertirmi».

«Ma ti ho chiamato!».

Quel brusco aumento del tono di voce mi diede fastidio. I dubbi si infoltivano dentro la mia testa. 

«Torno questo pomeriggio» riprese, visto il mio silenzio. «Adesso devo andare, stiamo facendo una cosa e siamo un po’ indietro».

«Va bene, a stasera».

«Ciao».

«Ti amo» ma aveva già messo giù.

Sentirla peggiorò il mio umore. Alimentò le mie paure. Decisi di mettere il telefono in silenzioso. Volevo isolarmi dal mondo.

All’una e mezza vidi gli altri rientrare in magazzino e mettersi ai loro posti. Mi veniva da vomitare al solo pensiero di dover lavorare per altre quattro ore. Mi posizionai dietro la macchina, e cercai di convincermi di essere un gran paranoico. 

Rientrai in casa alle sei meno cinque. Le luci erano spente. Vicino all’ingresso non c’erano scarpe; quando tornava a casa la prima cosa che faceva era togliersi le scarpe e metterle vicino alla porta. Posai il mio zaino sul divano. Era vecchio e strappato in vari punti, ma lo avevamo coperto con un telo. In cucina non c’era niente di pronto. Nessun piatto sul lavello e nessun involucro sul bancone. Aprii il frigo. Faceva merenda ogni pomeriggio alle quattro e mezza con un bicchiere di latte e una merendina confezionata. La sera prima il bricco di latte era vuoto, e adesso era ancora al suo posto. 

Andai in bagno, accesi la stufetta e mi feci una doccia calda. In magazzino non c’è il riscaldamento, e nonostante fossimo ben coperti e ci muovessimo per lavorare, il freddo del mattino e del tardo pomeriggio congelava le ossa ed era difficile scollarselo di dosso.

Avevo la tentazione di richiamarla. Avevo bisogno di sapere dove fosse e con chi. Non ho mai sopportato l’idea di non essere al corrente dei suoi movimenti. Non ho mai alzato la voce per questo motivo, e non sono mai stato violento, ma mi faceva stare malissimo il non sapere dove si trovasse. Ero terribilmente insicuro e avevo bisogno di continue rassicurazioni; mi bastava una chiamata, un messaggio. Bastava che mi tenesse informato sulle sue attività, mi dicesse con chi fosse e dove. Non ho mai avuto attacchi di gelosia in cui le ho spiato il telefono o le ho puntato il dito accusandola di qualche cosa. Abbiamo parlato tante volte di questo lato del mio carattere prima di metterci insieme e gliel’ho ripetuto ancora prima di andare a convivere, e ha sempre detto che non sarebbe stato un problema e che avremmo lavorato su questo insieme e che mi voleva per quello che ero. Un altro mio difetto è quello di essere ammaestrabile; una parola e avevo già dimenticato tutti i dubbi. Credo che se ne fosse accorta anche lei, e se ne approfittasse. 

Mi asciugai, indossai il pigiama e andai in cucina. In forno c’era l’altra metà di pizza della sera prima. La scaldai e mi sedetti a mangiare. Avevo la fetta a mezz’aria quando la porta d’ingresso si aprì.

«Ciao», disse senza guardarmi. Notai che aveva il respiro affannato.

Era bella davvero: bassa, non troppo magra, capelli lunghi e tinti di rosa. I lineamenti del viso erano severi, ma lo sguardo era quello di un angelo. La cosa che mi faceva impazzire erano i suoi incisivi. Erano grandi e distanziati. A lei non erano mai piaciuti, e le prime volte parlava stando attenta a non aprire troppo la bocca e rideva raramente. Io le ripetevo che amavo quegli incisivi, le davano un tocco d’innocenza. 

Era vestita in modo particolare, con dei pantaloni larghi leopardati e una felpa nera che poteva benissimo inglobarla tutta. In spalla aveva il suo solito zainetto dove teneva l’astuccio con le matite e gli album di fogli e tutto quello che le occorreva per disegnare.

«Ciao», risposi. 

Appoggiò lo zaino ai piedi del divano e andò a lavarsi le mani. Entrò in cucina e aprì il frigo.

«Questa sarebbe la tua parte di pizza di ieri» cominciai. «Ne ho mangiata solo una fetta» e allungai il piatto che avevo lasciato sul tavolo. 

Si voltò appena e rificcò la testa dentro il frigo. «Non ho fame. Dov’è il latte?».

«Sullo sportello».

«È quasi finito» osservò, e mi sembrò di cogliere una nota di rimprovero. Io ero intollerante al lattosio.

«Com’è andata ieri sera?» le chiesi.

«È stato bello; abbiamo mangiato e bevuto e ci siamo divertiti».

Buttò il bricco di latte vuoto dentro la borsa che usavamo come cestino.

«Mi fa piacere».

Aspettai che aggiungesse qualcosa, ma si mise a guardare il telefono, così aggiunsi: «Non sei passata per casa questo pomeriggio?».

Lei scosse la testa senza alzarla verso di me.

«No, abbiamo appena finito di sistemare».

«Che stavate facendo?».

«Dei lavori a casa sua».

Avrei voluto pregarla di guardarmi mentre rispondeva alle mie domande, e di posare quel maledetto telefono.

«Stasera resti a casa?» le chiesi con una certa paura della risposta.

«Stasera c’è lezione. È lunedì».

«Ah; pensavo che, dato che ieri c’è stato il rinfresco e tutto il resto, oggi non si facesse lezione».

«Invece sì».

Mi sforzai di finire la pizza, ma il mio stomaco si era chiuso. Mi figuravo gli scenari peggiori. Intento com’ero a buttare giù boccone dopo boccone, non mi accorsi che era uscita dalla cucina. Guardai il mio piatto. L’odore del prosciutto cotto, che in un’altra occasione mi avrebbe riempito di saliva la bocca, mi diede la nausea. Mi alzai e buttai tutto. Subito me ne pentii, perché dei due ero l’unico che lavorava e i soldi bastavano appena per l’affitto e la spesa. 

Percorsi il corridoio e la trovai seduta sul letto che tirava fuori vari vestiti.

«Mi è dispiaciuto non vederti ieri sera».

«Perché?» disse soltanto, e quella domanda mi spiazzò. 

«Come perché?».

Distese un paio di jeans con due grossi buchi altezza ginocchio e li ripiegò sopra il lenzuolo.

«Viviamo insieme, ci vediamo tutti i giorni. Per una sera mi andava di stare da una mia amica».

«Capisco, ma avresti potuto avvertirmi. Avrei chiuso la porta d’entrata a chiave, e non sarei rimasto con il pensiero di dove fossi».

Cominciavo a parlare in tono accusatorio. Mi succedeva tutte le volte che litigavamo e lei lo odiava. Quando me ne accorgevo lo cambiavo subito, ma poi ci ricascavo.

«Ricominci? Ancora con questa storia?».

Prese una felpa beige, la piegò e la mise sopra i jeans, poi cominciò a rimettere dentro tutto quello che aveva tirato fuori.

«Ti sto solo dicendo che avresti potuto dirmelo, anche solo per farmi stare tranquillo».

«Ma ti ho chiamato!» urlò, e nei suoi occhi vidi soddisfazione ed esaurimento.

Rimasi muto, appoggiato allo stipite, immobile. Quell’urlo mi colpì. Non scoppiai a piangere solo perché in quel momento non ero lucido. Lei prese i jeans e la felpa e uscì dalla camera, superandomi come se non ci fossi. Sentii le gambe mancare. Quello era il segnale che i miei sospetti non erano infondati. Sentii l’acqua del lavandino scorrere e il rumore del suo spazzolino che le puliva la bocca. Ancora non piangevo. 

Rimasi lì seduto fino a che non uscì, con la felpa che le copriva metà corpo. Mi alzai e la seguii in cucina. La scia di profumo che lasciava mi ricordava che il profumo lo indossava tutte le volte che uscivamo insieme i primi tempi. Bevve un bicchiere d’acqua e lo posò con forza sul lavandino. Fu un miracolo se non si ruppe. Poggiò lo zaino sopra il divano e lo aprì. Vi frugò dentro e lo richiuse. Si sedette e cominciò ad infilarsi le scarpe.

«Devo prepararti qualcosa da mangiare per quando torni?» le chiesi in tono gentile.

«No, mi arrangio».

Odiavo quando si comportava in quel modo. Rifiutava il dialogo e mi chiudeva tutte le porte. Mi allontanava e più cercavo di avvicinarmi più mi respingeva.

Si mise il giubbotto e aprì la porta.

«Forse mi fermo anche questa sera dalla mia amica, ma non ne sono sicura. Ti mando un messaggio più tardi per avvertirti».

«D’accordo» e nella punta della lingua, pronta ad uscire, avevo una dichiarazione d’amore, ma non dissi nulla. Aspettavo che me lo dicesse prima lei. Speravo lo facesse. Ma la porta si chiuse.

III

Mi misi a camminare avanti e indietro per la stanza, con le mani dietro la schiena. Era una cosa che facevo sempre quando ero agitato o preoccupato. Camminare mi aiutava a pensare e a non pensare, e tenere le mani dietro la schiena evitava che penzolassero, e di conseguenza che io pensassi a tenerle ferme. 

Ripercorsi l’intera conversazione. Ad eccezione di quell’accesso di voce in camera, non mi sembrava di essere stato invadente. Volevo passare del tempo con la mia ragazza, mi sembrava normale. Ero abituato al suo comportamento evasivo, a volte distaccato; lo odiavo, perché non faceva che aumentare la mia insicurezza. Aveva promesso molte volte di lavorarci per rimediare, ma non aveva fatto grandi progressi. E io mi ripeto per tacere i pensieri.

C’era un unico, grande grillo che friniva. Lo vedevo, mi ripeteva la stessa cosa che temevo anch’io, ma mi faceva troppa paura ammetterlo. Non potevo negare che fosse cambiata. Da qualche mese sospettavo che la mia presenza le fosse pesante. Quando la sera ci sedevamo a tavola, l’unico momento della giornata in cui potevamo vederci, mangiava in silenzio o guardava il telefono. A prendere l’iniziativa ero sempre io. Io davo inizio alle conversazioni, e lei le finiva. Io parlavo dei problemi e mi sbattevo per cercare delle soluzioni, lei sbuffava. Io le parlavo a cuore aperto delle mie paure, dei miei momenti no e delle mie idee, lei annuiva e si chiudeva a riccio. Il contatto fisico si era ridotto; non facevamo sesso da mesi. Sotto le coperte, io allungavo la mano, io mi avvicinavo e le baciavo la schiena, la pelle, il collo; io le sussurravo frasi dolci e provocanti. Lei si ritraeva. Una volta era stanca, un’altra aveva il ciclo, un’altra ancora non era dell’umore giusto. Io non osavo insistere, e mi addormentavo scocciato e mi svegliavo peggio. In quel momento, con le mani giunte all’altezza del fondoschiena, in piedi, davanti alla tv silenziosa, mi resi conto che la nostra relazione si stava sgretolando. Mi lasciai cadere sul poggiapiedi del divano, e scoppiai a piangere.

IV

Per quel fine settimana, come per i precedenti, non avevamo organizzato nulla. I primi tempi viaggiavamo sempre: al mare quando c’era il sole e le temperature si alzavano; in montagna quando faceva troppo caldo o in inverno quando nevicava. Siamo andati a Venezia, a Roma, a Firenze, a Bolzano. Una volta siamo andati in Croazia e siamo rimasti lì tre giorni. Abbiamo dormito in macchina appena fuori Zara. Giravamo a piedi nudi e mangiavamo dove capitava. Non ci lavavamo e credo si sentisse, tutti ci guardavano storto quando passavamo. Facevamo l’amore all’aperto, in mezzo ad un boschetto isolato. Era bello e io ero sereno. Mi sembravano trascorsi decenni.

Erano le nove di mattina. Io ero sveglio dalle sei, avevo già fatto colazione ed ero andato a correre. L’attività fisica mi aiutava molto più che camminare. Non bruciava solo il grasso, ma anche i brutti pensieri. Lei ancora dormiva. Non si alzava mai prima delle dieci. Mi dava un certo fastidio che non lavorasse e che nemmeno si mettesse alla ricerca di qualcosa. Quando tentai di dirglielo, mi disse che non sapeva cosa fare, perché senza un diploma restano solo i lavori peggiori. Io, che avevo la terza media, le dicevo che lavoro ce n’era, bastava cercarlo, ma lei troncava il discorso e teneva il broncio. Finì che smisi di dirglielo. Non era una spendacciona; non faceva shopping ogni domenica e non aveva mai voluto gioielli, macchine e tutte quelle cose costose che le fidanzate esigono dai loro compagni. Quando uscivamo stava attenta a non mangiare e bere più del necessario, e guardava le vetrine senza trascinarmici dentro. Le piaceva andare alle feste, ma non beveva mai più di un bicchiere. L’unica vera spesa che affrontai per lei e che mi chiese con una luce negli occhi tale da non potergliela rifiutare fu il corso di disegno. Amava disegnare e dipingere, era la sua più grande passione. Quando mi parlava dei suoi disegni e me li mostrava, si percepiva dalla voce che li considerava come figli, come fossero la sua unica ragione di vita. Vederla disegnare era qualcosa di magico; stava in camera per ore, anche un giorno intero. Dipingeva all’aperto, sul balcone. C’era spazio a malapena per il cavalletto e la tela sporgeva dalla ringhiera e c’era sempre il rischio che un colpo di vento o di sbadataggine la facesse volare via. Si sedeva, preparava i colori sulla tavolozza, impugnava il pennello e dipingeva. Si scordava persino di mangiare. Frequentava il corso da un anno: il lunedì, il mercoledì e il venerdì sera. Capitava che andasse anche di domenica per via di mostre o altre attività organizzate. Io ero felice, con tutto il cuore, che avesse qualcosa da fare e soprattutto che le piacesse. Mi rendeva fiero il fatto che coltivasse la sua passione. Il costo non era un problema; il fatto è che avevo l’impressione che fosse molto più importante di me. Non glielo dissi mai, però mi faceva stare male vedere che dedicava alle sue opere più tempo di quanto ne dedicasse a me. Se ne prendeva una cura maniacale, addirittura non mi era permesso toccarle senza la sua presenza. Io ridevo, ma ci soffrivo.

Comunque, non avevo granché da fare. Presi il libro e mi stesi sul divano.

Lei si svegliò che erano le undici e quaranta. A gambe nude scese le scale e si diresse in cucina.

«Buongiorno», le dissi con un sorriso.

«Buongiorno», mi rispose con uno sbadiglio.

Guardai quel corpicino allungarsi per prendere il miele e il pane. Versò acqua in una tazza e la mise nel microonde; prese due fette di pane e le mise a tostare sulla piastra a corrente. 

«Dormito bene?».

«Sì, molto, in realtà. Che ore sono?». Guardò l’orologio appeso sopra il frigo. «Com’è possibile che sia quasi mezzogiorno?».

«Succede se dormi tanto». Lei non rise. «A che ora hai preso sonno ieri? Ricordo che erano le dieci e mezza quando ho chiuso il libro e tu guardavi il cellulare».

«Non lo so. Saranno state le due e mezza, forse le tre».

Non capivo come facesse a rimanere sveglia fino a quell’ora. Anche sforzandomi, sarei crollato prima di mezzanotte. Ma poi mi ricordai che lei non si alzava alle cinque e non tornava alle sei.

«Che hai in mente di fare oggi?» le chiesi, nella speranza che avanzasse qualche proposta.

«Io e le mie amiche del corso ci siamo organizzate per andare a dipingere in aperta campagna».

Eccola. La botta. Me lo aspettavo, ma fa sempre male quando le aspettative vengono soddisfatte.

«Dove?».

«Non abbiamo ancora deciso».

Tirò fuori la tazza e la posò sopra il tavolo, poi prese le due fette di pane e le mise sul piatto. Si sedette e cominciò a spalmare il burro d’arachidi.

«Stavo pensando che è da un po’ che non facciamo qualcosa insieme. Un’uscita, un viaggio…».

Annuì. Stava spalmando il miele sopra la fetta imburrata.

«Potremmo fare qualcosa».

«Mmh».

Rimasi in piedi fino a che non finì di mangiare. Si alzò e mise i piatti dentro al lavandino. 

«A che ora devi andare via?».

«Adesso, in verità. Sono in ritardo» e corse fuori.

Io mi sedetti sul bordo del divano. Mentre la guardavo spostarsi dal bagno alla camera, pensavo a cosa avrei fatto io. Il fine settimana lo usavo per riposare. Me ne stavo sul divano a leggere e mangiare. Quel giorno, però, non mi andava proprio di starmene chiuso in casa. Mi sembrava di soffocare. Avrei dovuto inventarmi qualcosa. Tra il lavoro e la convivenza, gli amici rimasti erano pochi. Quello con cui avevo più confidenza non lo sentivo dall’estate, ed eravamo a novembre, e non lo potevo considerare un migliore amico. 

Uscì dal bagno con i capelli legati in una coda alta. Ho sempre pensato che fosse stupenda con i capelli legati. 

Andò in camera, prese lo zaino e un borsone.

«A che serve?» chiesi.

«Ci sono gli asciugamani e altre cose per sistemarci per terra».

«Ma non fa forse troppo freddo per stare all’aperto?».

«No, no».

Io annuii.

«Ci vediamo questa sera» disse.

«Buona giornata».

«Grazie».

Mi alzai e andai alla porta. Dallo spioncino la vidi scendere le scale. Sentivo già la sua mancanza. Voltandomi, mi accorsi che aveva dimenticato il portafoglio sopra il mobiletto dell’entrata. Non avendo mangiato molto, e dovendo stare fuori fino a sera, immaginavo che le servissero i soldi per comprarsi qualcosa. Lo presi e feci per chiamarla, ma stringendolo sentii un rumore strano, un rumore che non era di monete o carte. Il cuore cominciò a battere forte. Ormai detestavo quella sensazione. Mi sentii di colpo senza forze. Aprii il portafoglio, e vidi che la tasca riservata ai contanti era gonfia. Pensai al peggio, anche se non sapevo quale peggio. Infilai due dita, e presi l’involucro di plastica che aveva prodotto quel rumore. Persi almeno dieci anni di vita quando mi accorsi che tra le mani avevo due preservativi.

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